Uscire dal Novecento
Lo scrivere di storia non ha fisionomia diversa da quella che la XIV Degnità della Scienza nuova di Giambattista Vico esprime quando postula che «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascono le cose» stesse. Il percorso complessivo del pensiero storico dell’Italia, dunque, non ha una direzione univoca, non esprime l’affermarsi di un modello – foss’anche quello dello storicismo o la metodica critica – al quale fanno da prodromi i lontani e da stelle fisse i vicini. Il modo in cui esso si sviluppa può essere colto solo calandosi in «tempi» e comprendendo «guise» specifiche, avendo certezza che in ogni punto della linea del tempo non pochi erano convinti d’aver concluso un cammino, di aver trovato un approdo e spezzato almeno in sé i limiti di un sapere nel quale permanevano sacche di cui dir male, come d’ogni altra cosa italiana.
L’errabondare di questo sapere-pensato – sul quale ci si potrebbe dilungare per distinguere scienza e disciplina, epistemologie e mestiere, Grundbegriff e pratica – è stato un itinerario di ricominciamenti: che ciò accada anche altrove, non significa che esso non abbia un suo profilo specifico nell’ambito italiano. Volta a volta e per cause diverse sono entrati in scena approcci e criteri nuovi, committenze altre e altri tipi di circolazione, quadri teologici riformati, epistemologie mutate e forme innovate di organizzazione scientifica, che hanno ammesso altre idee e classi e ceti a quel lavoro, modificandone la fisionomia; fino a un oggi nel quale il fare storia si autocomprende come settore del mondo della ricerca latu sensu.
Anche chi ha fatto la storia di chi di storia ha scritto ha adottato nozioni diverse della disciplina, del metodo, del rigore e della fonte: e non solo. Basterà rileggere le pagine iniziali della Storia generale delle storie di Gabriele Rosa del 1873 o la chiusa della prima edizione della Teoria e storia della storiografia di Benedetto Croce uscita in tedesco nel 1915 per rendersi conto che perfino ciò che veniva chiamato fatto o senso o causa o tempo era materia mutevole e andava ridefinito da chi vi ricorreva in relazione ai riferimenti oggettivi e soggettivi di ciascuna temperie.
Se l’impegno a comprendere il passato ha avuto committenze, guardianie, tabù differenziati, anche chi studiava i portatori di quel desiderio di sapere aveva danti causa, tutele e non detti, con i quali misurarsi. Perché anche il fare storia del fare storia è «solo storia», per dirla con Giuseppe Galasso (n. 1929), e dunque si misura con tutte le questioni fondamentali di quell’atto intellettuale e con il disincanto con cui non può non vederle chi vive i primi lustri del 21° secolo. Ancor più quando questa ricognizione si volge ai decenni recenti, quelli dell’Italia repubblicana e dell’Europa transitata dalla guerra fredda alla fredda unione: consapevole di dover anch’essa passare da una severa diffinitio terminorum.
Volendo discorrere di un contributo italiano alla storiografia bisognava farsi carico di alcune specificità preliminari: dire, insomma, che Italia sia quella di cui si parla (Galasso 1979; Arnaldi 1994), cosa sia, per i tanti che lo studiano da lontano, quello spazio; ma anche qualcosa di più. Ogni ricostruzione della vicenda storiografica di un Paese rischia di perdere le persone nelle scuole e di diluire le opere nelle appartenenze: ma nell’Italia del Novecento, e del secondo Novecento in particolare, di cui tratterà questa piccola postilla c’è un aspetto peculiare.
Non che in Italia non siano esistite scuole e opere costruite attorno a idee originali o captando tendenze più globali. Ma ciò che ha mantenuto attorno al lavoro storico italiano un’aura di rispetto distinta da quella che, come ricordava in apertura Galasso, ha circondato per qualche secolo tutta la cultura italiana è stato qualcosa di più profondo delle singole officine di pensiero e di lavori pur decisivi per questo o quel settore.
Da Arnaldo Momigliano a Santo Mazzarino e fino a Luciano Canfora (n. 1942) l’antichistica italiana ha saputo fornire un modo di fare storia che – al netto delle differenze opportunamente messe in luce dai saggi del volume – non si distingue per un grado di pignoleria se mai alto, ma per un respiro: l’interesse per una dimensione che non è quella della ‘lunga durata’ in senso tecnico-annalistico su cui tornerò subito, la passione per la visione d’insieme che porta a cogliere non già il prolungarsi di un passato dentro un presente apparentato ideologicamente, l’arrivarsi di un certo senso storico come affinamento delle capacità di lettura del reale.
E se si passa ai grandi medievisti del secolo scorso e di questo – per far dei nomi Raffaello Morghen, Giovanni Tabacco, Ovidio Capitani, fino a Girolamo Arnaldi (n. 1929) – si percepisce che è ancora quello del respiro il dato qualificante e al fondo comune in chi proviene da universi intellettuali assai distanti. La discussione sulle periodizzazioni interne, infatti, ha visto questi e altri personaggi partecipare con un ruolo rilevante alla discussione europea: ma ciò veniva dallo scavo di società e istituzioni, fonti e problemi scelti per il loro grande rilievo.
Se dei modernisti italiani della seconda metà del secolo si leggono le opere di Federico Chabod e Delio Cantimori e poi quelle della generazione che da Franco Venturi, Marino Berengo, Galasso, Paolo Prodi (n. 1932) arriva ad Adriano Prosperi (n. 1939), si coglierà al netto delle differenze e delle dialettiche talora aspre una capacità di prescindere dalle schematizzazioni manualistiche e la capacità di tenere i piedi ben piantati sui fatti e lo sguardo sui processi, sulle cose, sulle persone.
Lo studio dell’Ottocento e poi del Novecento, effettuato da Adolfo Omodeo e poi da Rosario Romeo, ha prodotto nello stesso spazio dell’Italia repubblicana una serie di studiosi che per questa stessa caratteristica non è inappropriato ritenere più rilevanti: il percorso di Gabriele De Rosa o di Renzo De Felice, di Pietro Scoppola per arrivare alla generazione di Renato Moro (n. 1951), dà conto di un modo di guardare alla storia più recente con approcci che non di rado si apparentano a culture politiche precise, e che dunque sono parte di una storiografia ‘cattolica’ o ‘marxista’, ma che restano per quel che scrivono e non per aver meglio ‘applicato’ uno sguardo alla realtà (Gouesbier 2007).
Questa eccedenza del lavoro non è meno vera quando si entra in terreni apparentemente più specialistici. Nella storia religiosa, da Ernesto Buonaiuti e Arturo Carlo Jemolo, al già citato Cantimori e poi con Giuseppe Alberigo fino a Giovanni Miccoli (n. 1933), si percepisce un interesse per l’istituzione ecclesiastica e i suoi legami che va oltre una mera categorizzazione settoriale. Non sarà difficile, per chi abbia conoscenza diretta dell’opera o voglia solo risalire alle pagine precedenti, constatare che quando si parla di Gino Luzzatto e Carlo M. Cipolla nella storia economica, di Francesco Ruffini o di Francesco Calasso nella storia del diritto, o di uno storico della musica come Massimo Mila, di Roberto Longhi nella storia dell’arte, per non dire di Carlo Dionisotti, o delle ‘storia d’Italia’ da Croce a Galasso passando per Ernesto Ragionieri (Woolf 2011) – ci si rende conto che non si parla di punti isomorfi ai tanti altri, ma di figure che si staccano dai tanti onesti specialisti per un quid percepito anche su scala internazionale..
La cifra comune di questa non immensa serie di studi e studiosi è la sana indocilità alle partizioni manualistiche e alla riduzione a catena frammentata (Le travail en miettes, avrebbe detto Georges Friedman) della conoscenza storica. Quella spinta intellettuale che non disdegna i grandi ambiti, per i quali esiste come soggetto il Settecento riformatore e non solo le tessere che ne fanno il mosaico, esiste una conciliarità della Chiesa e non solo una serie di prassi, esiste un mondo comunale e non solo la somma di luoghi; quella spinta che induce ai grandi balzi, come quelli di un Ragionieri dalla storia universale a quella di Sesto Fiorentino (‘altrimenti localizzata’ ironizzerà Cantimori), di un Galasso dal Regno di Napoli alla storia europea, di un Cantimori che va dagli eretici ai giacobini e via dicendo.
Se, tenendo conto di questa avvertenza, ci si pone comunque il problema del contributo italiano alla conoscenza storica si possono individuare tre periodi di crescente ampiezza – il primo quindicennio repubblicano, poi il ventennio che fa perno sugli anni Sessanta-Settanta, e infine il trentennio che giunge a lambire il presente – che hanno una loro fisionomia.
Molti hanno notato che la storiografia dell’Italia liberata si sviluppa nei suoi primi lustri in un rapporto strettissimo, più stretto che altrove, con le ideologie e le culture politiche della neonata democrazia repubblicana (cfr. Galasso 2008, pp. 115-34).
Pensare la storiografia dentro un quadro politico e ideologico non è caratteristica solo italiana, ma ha una specificità italiana in quel torno d’anni (e di essa tiene conto anche questo volume che ingloba pour cause qualche apporto della maggiore tradizione storico-politica). Le grandi ideologie del dopoguerra, infatti, non sono un problema, ma uno strumento di emancipazione per la generazione di professori formata dal fascismo o durante il fascismo (cfr. Imbruglia 2003). In un Paese nel quale, secondo il modello della università humboldtiana, la storia si produce per e nelle istituzioni dello Stato, gli storici della Repubblica democratica devono fare i conti con i propri maestri e con la posizione da loro assunta durante e verso il fascismo. Da questo dilemma nascono domande che talora diventano un sospetto sulla produzione precedente e sull’impatto che poteva aver avuto nelle sue corde più profonde quell’ossequio al regime di cui il giuramento del 1931 era stato il termometro (Di Rienzo 2004).
Rispetto a quel trauma intellettuale la democrazia dei partiti offriva generosamente sé stessa come strumento di autorieducazione e autoassoluzione. Pur senza entrare nello specifico della produzione già esaminata in precedenza, si può verificare l’efficacia di quella rigenerazione nella mappatura delle culture marxiste, cattoliche e liberali. Il marxismo, infatti, fornisce strumenti filosofici rigidi, ma remunera vecchi e nuovi lettori del materialismo storico con la sprovincializzazione degli ‘ideologumeni’ storiografici del regime. La cultura cattolica, ridestatasi in una posizione politica inattesamente egemone dopo la liberazione, deve invece inventare un mestiere che ha fra i suoi antenati (lo mostrano i profili poco sopra evocati) scomunicati e sospetti, ma indispensabili per trovare fra tradizioni intransigenti, fermenti modernisti e svolte popolari le ragioni ‘storiche’ di quell’esito politico. E la cultura liberale, ritornata nella nicchia della minorità politica, guarda ancora a Croce e da Croce dipende (Contini 1972).
Esiste, tuttavia, anche a questo livello, una continuità culturale fra fascismo e postfascismo analoga alla tanto studiata continuità delle classi dirigenti. Se la cultura politica dei costituenti – s’è detto – è indebitata con l’idea di Stato del regime e volta cioè a plasmare ideologicamente il cittadino, e applica quella strumentazione all’esigenza di formare un cittadino democratico, così pure la cultura storica dopo il 1945 continua a sentire quel vincolo verso lo spazio pubblico che il fascismo aveva usato nell’alimentare gli studi. La storiografia repubblicana interpreta la fame di storia delle classi dirigenti ed è consapevole che, con altri contenuti e altri orizzonti, anche la democrazia ha bisogno di una sua visione storica per iniziare o per ricominciare, a seconda delle diverse prospettive adottate davanti alla lettura del ventennio.
In questa temperie prende forma un nuovo tipo di studioso (Galasso 2000): fa parte di un circuito nel quale la domanda di storia sovrasta un’offerta fabbricata in ambito universitario al quale approda una generazione ancora formata dall’immutato canone scolastico gentiliano, e che conclude la propria ‘opera prima’ negli anni fino al centenario dell’Unità – quando esce la prima monografia di Giuseppe Talamo (Zazzara 2011).
È il momento nel quale la lezione della École des Annales inizia a rimpiazzare negli scolari il ‘germanesimo’ dei maestri: un’adesione che diventerà vasta solo con il tempo e rimarrà priva di quell’impianto teorico che era stato il cruccio di Croce e che solo pochi, come Cantimori, sentivano come una lacuna di fondo. Che si manifesta nuovamente quando lo storicismo comincia a tramontare con i primi anni Sessanta: in Italia ciò non accade per un’analisi della Poverty of historicism (1957) di tipo popperiano, ma per il sopraggiungere di altre tendenze che riversano l’annalismo à la Braudel (più amato di Lucien Febvre) nella scelta degli oggetti: dalla storia del diritto alla medievistica, dagli antichisti ai cristianisti, per non dire della storia moderna dalla cui costola esce la storia ‘contemporanea’ – tutti usano il riferimento alla lunga durata e un’accezione blochiana del mestiere come un dato di fatto autoevidente e non come una questione.
È questo che rende singolare, dopo gli anni Settanta, la fortuna della ‘microstoria’ italiana e la ricezione della lezione della 6ème section della EPHE (École Pratique des Hautes Études): affacciatasi agli scaffali delle librerie quando ormai erano state pensate le grandi opere di ‘macrostoria’ dei maggiori editori, essa suscita una vampata di curiosità intellettuale diventata storiograficamente rilevante solo quando storici tout-court portano figure marginali e dimenticate come Domenico Scandella o Lucia Cremonini alla visibilità che la storia può rendere agli esclusi. Invece, quando questo respiro viene meno, lo studio ritorna entro le strette grammatiche che connotano un certo manierismo microstorico degli anni Ottanta dal quale nasce una storiografia delle donne molto diversa da quella anglosassone.
Si trattava anche di un modo di chiudere o di evadere dall’annosa querelle italiana fra idealismo e storicismo che aveva conosciuto una svolta con la conclusione nel 1951 della prima edizione dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci e l’anno dopo con la scomparsa di Croce, e che si era distesa nel decennio successivo.
La liquidazione crociana passa da una lettura di Gramsci che decostruisce sul piano intellettuale il mito di un ‘trattato’ (Paggi 1970) e sul piano filologico (con l’edizione critica di Valentino Gerratana del 1975) il mito dell’opera organica. I Quaderni erano infatti la riprova di come la lezione crociana (per quanto contestata su alcuni punti filosofici) fosse stata il solo storicismo disponibile per un intellettuale marxista come Gramsci e trent’anni dopo avevano per questo la capacità di mettere in discussione gli impianti ideologici del marxismo del dopoguerra (La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, 1989) e muovevano gli interessi di tutta la storiografia degli anni Settanta, da quella cattolica a quella crociana (Lussana 2001). A modo loro i Quaderni sono uno dei fattori di quella storiografia dei ‘centofiori’ che fra fine anni Sessanta e fine anni Ottanta vede all’opera gli storici e le storiche di una nuova generazione, che sono alla ricerca di una propria posizione e considerano l’autonomia dai modelli dominanti una garanzia di qualità.
La transizione da una storia protetta dai partiti a una che se ne emancipa avviene, dunque, ricorrendo a modelli non sempre nuovi e si moltiplica quando, con la riforma universitaria, esplode l’offerta di storia. Una generazione non difficile da decifrare si distribuisce in scuole geografiche (Bari, Firenze, Milano, Napoli, Padova, Pisa, Roma, Torino, Trento); filiazioni intellettuali che le esigenze concorsuali disperdono nelle sedi minori usate come sale di transito accademico (Zazzara 2005) vivono questa drammatica mutazione da una storia nella quale la domanda supera l’offerta a una storia nella quale l’offerta supera la domanda.
Fino agli anni Ottanta i partiti – che facevano sentire il loro peso ora ideologicamente ora per via concorsuale (Lo Piparo 1979) – sono stati infatti protagonisti della domanda di storia: tutti i leader politici leggono storia, spesso leggono solo storia; siano storici di mestiere (come Amintore Fanfani) o no, gli statisti italiani usano l’inquadramento storico per prospettare la propria ‘linea’ e per interpretare quelle fasi ed epoche che sono la traslazione politologica di categorie storiche. La demografia e la legislazione universitaria avevano fatto leva su questa domanda e su questa osmosi intellettuale per aumentare l’offerta di storia: i numeri (Moretti 1985; Scardozzi 1985) documentano una crescita vertiginosa delle cattedre e degli iscritti, che poi si rifrange sulla nascita di istituzioni senza strutture, di riviste e di collane editoriali che saturano la piazza accademica e quella mediatica.
Entra nelle scuole una (terza) generazione di ‘storici’, sempre più separati dai colleghi dediti alla ricerca, ma protagonisti di una mutazione che avrà effetti profondi sul sistema. Disamorati del canone gentiliano, gli insegnanti sostituiscono l’impianto storicistico e storico-letterario con uno strutturalismo di seconda mano: la riprova di questo scivolamento è la ‘riforma Brocca’ del 1988 che non indica la storia fra le materie «datrici di senso». Uno scollamento culturale che farà approdare a un sistema universitario che moltiplica praeter necessitatem gli specialismi storiografici, coorti di allievi sprovvisti di nozioni di base, ma talmente numerosi da imporre un ribasso dei requisiti e dei sillabi.
Dentro il sistema universitario vero e proprio, invece, appaiono i primi dottori di ricerca, i quali compiono un percorso apparentemente simile al Troisième cycle francese, ma che non si deve misurare con la qualità, gli strumenti e i tempi di lavoro del sistema transalpino. Anch’essi partecipano a una dilatazione quantitativa della disciplina che non coincide solo con l’essiccazione finanziaria degli antichi istituti storici nazionali e corrisponde alla fioritura di popolose società storiche settoriali. Queste società non nascono associando i mestieri sul piano operativo: con questo si cimentano gli studiosi del Medioevo latino, con un istituto ad hoc iniziato da Claudio Leonardi a Firenze, oppure grandi istituzioni come l’Istituto Croce a Napoli, l’Einaudi a Torino, l’Istituto di Alberigo a Bologna (Attal 2010; L’officina bolognese, 2004). Le società di patrologi, medievisti, modernisti, contemporaneisti, cultori di settori di genere o di settore affiliano invece i membri dei gruppi concorsuali e nei primi dieci anni del 21° sec. ottengono una funzione diretta nella formazione dei criteri quantitativi per la valutazione della ricerca attraverso la compilazione e la negoziazione di liste di riviste di maggiore e minor rango. In questi grandi contenitori di centinaia di ‘addetti’ trovano posto più generazioni: ma per la generazione più giovane, nata in una terra forse priva di idoli e certo priva di numi, sono una realtà importante e garante degli specialismi sempre più filiformi che il progresso della scienza storica impone ai suoi cultori.
Perfino la più stantia discussione attorno a Croce, infatti, aveva tenuto vivo per decenni un dibattito sulla funzione della storia che andava ben oltre la vita e la morte del maestro napoletano e che si misurava con i grandi nodi storici. Croce, insomma, aveva obbligato a prendere posizione sulla sua opera, ma soprattutto aveva costretto la ricerca italiana a decidere del suo rapporto con un tempo lungo che non andava solo a Vico, ma allo stesso problema della formazione e del significato di una cultura italiana e di una cultura europea. S’è già detto che questa discussione s’era esaurita ed era stata rimpiazzata da una discussione attorno a Gramsci più vivace, ma meno lunga (Galasso 2008): attraverso opere che sentivano di derivare da lui le ‘categorie’ storiche era nata una discussione non meno ricca di quella crociana sulla vicenda italiana e sul senso stesso del fare storia, che era passata poi dalla riflessione e dalla polemica su figure come quella di Cantimori, prematuramente scomparso nel 1966 (Miccoli 1970).
A valle della scomparsa dei partiti del Comitato di liberazione nazionale, una storiografia orfana di riferimenti assoluti e portata dal fatale progresso degli specialismi alla frammentazione spontanea incontra nuovamente l’esigenza di legittimarsi. L’Italia non aveva avuto un Historikerstreit come quello che apre la questione del revisionismo in Germania: la disputa sul Mussolini di Renzo De Felice, infatti, o vent’anni dopo quella su Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (1991) di Claudio Pavone non si misurava con provocazioni ideologiche simili a quelle di Ernst Nolte (n. 1923), ma con un gigantesco scavo critico capace di riorientare il modo di studiare due segmenti contigui del Novecento nonostante il livello diseguale della discussione che si apre attorno a essi.
S’affaccia invece un gusto, condiviso da storici che esercitano il mestiere nelle istituzioni pubbliche e da scrittori senza rango accademico, a comportarsi come se la ‘parzialità’ metodologica del lavoro critico fosse un conformismo da rovesciare assumendo la tesi opposta per partito preso. Questo atteggiamento, che si contenta della polemica, include il fascismo e la Resistenza, ridonda nei primi anni del 21° sec. sul Risorgimento (guardato con risentimento antico e nuovo), sulla posizione di Pio XII riguardo la Shoah, sulla storia politica dell’Italia repubblicana, per poi risalire al Medioevo, all’età romana e oltre ha una rilevanza mediatica più forte della sua consistenza nella ricerca: ma ha aperto una discussione su ‘uso’ e ‘funzione pubblica’ della storia che ha visto, per es., la corporazione degli storici reagire negativamente davanti all’eventualità di leggi della memoria che come in altri Paesi punissero come crimine il negazionismo o altre tesi di supporto a fenomeni eversivi (Marquard, Melloni 2008).
Accanto a una storia a effetto è però affiorata nel corso degli ultimi trent’anni un’altra tendenza, anch’essa legata al tramonto dell’impianto storicistico della cultura politica. Perché la fine della conventio ad excludendum per scioglimento del Partito comunista italiano e lo svuotamento del bacino nostalgico neofascista ha rafforzato infatti la richiesta di una storia terapeutica, capace di sanare le cicatrici delle guerre, dei terrorismi, del male. L’idea di poter trovare un passato potenzialmente diverso da quello così tragico nei suoi contrasti reali rimbalza all’indietro: sull’unificazione nazionale, sulla frattura geografica italiana, perfino sul mondo comunale così come lo vede Robert D. Putnam. È il mito di una ‘storia condivisa’ che guadagna credito e documenta la regressione della funzione del metodo critico nello spazio pubblico.
Una parte della ricerca reagisce con l’ulteriore enfatizzazione dei tratti conflittuali non sempre necessariamente revisionisti. Si enfatizza come un valore la ‘irresponsabilità’ del lavoro storico che si presenta come un ‘atto conoscitivo’ pronto a sgravarsi dalla responsabilità della sua trasmissione. Oppure si adotta quel sistema di tribunalizzazione della storia così ben compreso da Odo Marquard (n. 1928). Secondo il filosofo tedesco, finita la teodicea e diventato impossibile chiedere conto a Dio del male del mondo per poi mandarlo assolto, è la storia che chiede conto all’uomo di quel male; ma alla fine, spiegando le ragioni con gli stessi virtuosismi concettuali che ‘salvavano’ Dio dalla responsabilità del male, si esonera l’uomo concreto e si distanzia il dettaglio dell’orrore.
Pur nella moltiplicazione di migliaia di cattedre superiori e universitarie (Moretti 1985; Scardozzi 1985), nella dilatazione dei cataloghi cartacei e digitali (Caracciolo 1979), è ovvio che una postilla non può dar conto dell’immenso arcipelago di studio che sta al centro di tali tendenze (Rapone 2012; Visceglia 2012) oggi in essere. Tanto più perché la disciplina alla quale la storiografia italiana ha inteso dare e o dà un suo contributo, infatti, è internazionale da sempre ed è per questo spinta a una specializzazione che dovrebbe consentire di dominare una produzione smodata.
Eppure, ammesso e non concesso che sia vero che ciò che distingue nel secondo Novecento quei venti storici dai ventimila produttori di storiografia è proprio un metodo rigoroso e rigorosamente indocile a schematismi manualistico-accademici, questa tendenza generale a uno specialismo pigro colpisce una quota della storiografia italiana più recente, che non a caso si adatta senza troppi problemi alle metodiche quantitative nella selezione della leva di nuovi storici, i quali, finanziati dalla mano pubblica (non ovunque è così), occuperanno a metà del 21° sec. le cattedre delle università di Stato e daranno il contributo ‘italiano’ al pensiero storico di quel momento e vi apporteranno in forme inedite quella indelebile impronta ‘umanistica’ che la storiografia ‘italiana’ ha trascinato con sé in culture nelle quali l’idea stessa di storia subiva metamorfosi epistemologiche irreversibili.
Perché se c’è un contributo italiano alla storia e al modo di ‘fare’ storia è stato quello di riuscire, quando c’è riuscito, a essere storia della persona umana e dell’umano dentro le istituzioni, le arti, la letteratura, le fedi, le politiche, i fatti; un umanesimo che quando ha funzionato è stato antidoto ai furori ideologici e alle lusinghe di molteplici poteri. Ustionati dai furori politici e spesso disillusi dalle appartenenze ripudiate, non pochi storici (o studiosi di storia o storiografi a seconda dei gusti) si sentono in dovere di esplicitare in prefazione che sono fieri che il loro lavoro sia disprezzato in questi grami tempi, non pretendono per esso rilievo, liberi come sono da obblighi rispetto alle opinioni che si manifestano nello spazio democratico o fra la piccola gente comune – quasi che proprio gli studiosi del passato sognassero un’epoca nella quale tornerà l’arte ai critici, la storia ai principi e l’indegna plebe tornerà al travaglio usato.
Pubblico ufficiale, renitente a ogni dovere che non sia quello di protestare il suo diritto a esser remunerato dallo Stato nonostante questa sua scelta, questo tipo di storico borghese (in senso tecnico) cede però il passo alla proletarizzazione degli addetti e al volgere delle generazioni: e lascia intatto a chi studia e vive nelle terre dell’umanesimo di saper portare al concerto europeo quella sensibilità, che fra le guise e i tempi non trova solo cose, ma uomini e donne.
Il percorso cronologico di alcuni interventi significativi dell’ultimo quarantennio può essere colto leggendo La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, a cura di F. Valsecchi, G. Martini, 2 voll., Milano 1970.
Si vedano anche:
G. Miccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica, Torino 1970.
L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, Roma 1970.
G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino 1972.
A. Caracciolo, Il mercato dei libri di storia, 1968-1978. Elementi per una analisi, «Quaderni storici», 1979, 41, pp. 765-77.
G. Galasso, L’Italia come problema storiografico, Torino 1979.
F. Lo Piparo, Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci, Roma-Bari 1979.
A. Momigliano, Storiografia, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti - IV Appendice, 1961-1978, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1981, ad vocem.
M. Moretti, Qualche notizia su cattedre e discipline storiche nelle Università italiane (1951-1983), «Quaderni storici», 1985, 60, pp. 891-906.
M. Scardozzi, Gli insegnamenti di storia nell’università italiana (1951-1983): tra immobilismo e frammentazione, «Quaderni storici», 1985, 59, pp. 619- 29.
La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, a cura di L. De Rosa, Roma-Bari 1989.
G. Arnaldi, Unità e divisioni italiane, «Nuova antologia», aprile-giugno 1994, 572, pp. 138-50.
G. Giarrizzo, Storiografia. Età moderna e contemporanea, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti - V Appendice, 1979-1992, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1995, pp. 292-99.
G. Galasso, Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Bologna 2000.
F. Lussana, Politica e cultura negli anni Settanta: l’Istituto Gramsci, la Fondazione Basso e l’Istituto Sturzo, «Studi storici», 2001, 4, pp. 885-928.
G. Imbruglia, Illuminismo e storicismo nella storiografia italiana (in appendice il carteggio Venturi-Cantimori dal 1945 al 1955), Napoli 2003.
E. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze 2004.
L’officina bolognese, 1953-2003, a cura di G. Alberigo, Bologna 2004.
G. Zazzara, La «Società degli storici italiani» tra politica professionale e tutela corporativa (1962-1974), «Memoria e ricerca», 2005, 19, pp. 175-92.
Y. Gouesbier, La maison de sable. Histoire et politique en Italie, de Benedetto Croce à Renzo De Felice, Rome 2007.
G. Galasso, Storici italiani del Novecento, Bologna 2008.
O. Marquard, A. Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Roma-Bari 2008.
F. Attal, L’Institut Croce, la revue «Nord e Sud» et la diplomatie culturelle des fondations américaines (1946-1964). Histoire, sciences sociales et ‘guerre froide culturelle’ dans le Mezzogiorno italien, «Storiografia», 2010, pp. 9-178.
Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di A. Melloni, 2 voll., Bologna 2010.
S. Woolf, Italian historical writing, in The Oxford history of historical writing, 5° vol., Historical writing since 1945, ed. A. Schneider, D. Woolf, Oxford 2011, pp. 333-52.
G. Zazzara, La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Roma-Bari 2011.
L. Rapone, La recente storiografia italiana attraverso le riviste. L’età contemporanea, «Studi storici», 2012, 2, pp. 317-49.
M.A. Visceglia, La recente storiografia italiana attraverso le riviste. L’età moderna, «Studi storici», 2012, 2, pp. 279-316.