uscio [plur. uscia, nel Fiore]
Delle non molte occorrenze del termine (s'incontra usato solo nella Commedia e nel Fiore) quella che ricorre nel contesto più drammatico s'incontra certo in If XXXIII 46, dove il conte Ugolino esprime tutto il suo orrore nel sentire inchiodare l'u. di accesso alla torre in cui è stato rinchiuso con i figli: Già eran desti, e l'ora s'appressava / che 'l cibo ne solëa essere addotto, / e per suo sogno ciascun dubitava; / e io senti' chiavar l'uscio di sotto / a l'orribile torre.
Altre attestazioni in Pg IX 130, con allusione alla porta del Purgatorio, e XXX 139, dove Beatrice ricorda che, per salvare D., è scesa all'Inferno a chiedere l'aiuto di Virgilio, così visitando l'uscio d'i morti che pare voglia significare il Limbo, dal quale ha inizio il regno dei veri morti (cfr. XXIII 122). Ma il modulo è biblico: " appropinquaverunt usque ad portas mortis " (Ps. 106, 18; v. anche 9, 15 e Sap. 16, 13). Più precisamente il luogo dantesco potrebbe riecheggiare il " portae inferi " (Matt. 16, 18) che indica l'Inferno. Ancora in Fiore CXCIX 10, CC 7, LXXVIII 8, CXLVII 9, CL 2.
L'unica forma di plurale attestata è uscia, in Fiore CVI 7 i' amerei assa' meglio l'amistate / del re di Francia che quella a colui / che va caendo per l'uscia l'altrui: " che va elemosinando di porta in porta ".