URBANO di Sant'Alosio
URBANO di Sant’Alosio. – Nacque intorno al 1380, probabilmente nel castello di Sant’Alosio (o Sant’Arosio), oggi nel territorio del Comune di Castellania, presso Tortona, da cui la sua famiglia traeva il nome; fu il primo dei quattro figli (gli altri furono Enrico, Pasino e Torello) di Francesco Rampini signore di Sant’Alosio. Non si hanno informazioni né sulla madre, né circa gioventù e formazione.
Sebbene si dicessero di origine milanese, i Rampini discendevano da antichi milites dei vescovi di Tortona, presenti fin dal Duecento nelle terre del vescovato e radicati nell’area immediatamente a sudest del capoluogo. Intorno al 1377, da enfiteutici quali erano, i loro beni furono trasformati in feudali in virtù dell’investitura concessa in quell’anno dal vescovo Fabrizio Marliani a Rampino, avo di Urbano. Il feudo, a quel tempo, comprendeva – oltre a Sant’Alosio – le ville di Pudigliano, Sant’Agata, Malvino, Cuquello e Carezzano, cui si aggiunsero in seguito Stazzano e Sardigliano, ottenute grazie al favore dei Visconti, signori di Tortona dal 1347. Appartenenti alla fazione ghibellina, ascritti al consortile urbano di Casa Soprana, i Rampini furono infatti tra i più fedeli partigiani dei signori di Milano, dai quali ottennero privilegi di esenzione per tutte le loro terre del Tortonese. Al servizio del duca Gian Galeazzo si distinsero sia il padre di Urbano, Francesco, che il di lui fratello Marziano, importante uomo di cultura alla corte viscontea, segretario e consigliere ducale, il quale sembrerebbe sia stato precettore di Filippo Maria Visconti; un terzo fratello, Enrico, fu dapprima vescovo di Tortona e quindi arcivescovo di Milano e cardinale.
Grazie alle benemerenze del padre e alla protezione dello zio Marziano, Urbano entrò assai presto a far parte della familia ducale e nel 1408 fu investito dal vescovo di Tortona Pietro de’ Giorgi del castello di Sant’Alosio e delle altre terre possesso della famiglia. Con la grave crisi del ducato visconteo seguita alla morte del duca Gian Galeazzo, i Rampini si trovavano allora nel bel mezzo della rivalità che opponeva fra loro i suoi eredi, Giovanni Maria duca di Milano e Filippo Maria Visconti conte di Pavia. Per quasi un decennio la Lombardia fu teatro della guerra tra guelfi e ghibellini e del disordine in cui si trovava il ducato seppe approfittare il condottiero casalese Facino Cane per ritagliarsi un vasto dominio personale, sparso tra Alessandrino, Novarese e Varesotto, schierandosi ora con l’uno ora con l’altro contendente. Urbano, come molti altri uomini d’arme e ufficiali lombardi, entrò al servizio di Facino e, pur senza figurare tra i suoi più stretti collaboratori, riuscì comunque a guadagnarsene la fiducia, senza però rompere del tutto i rapporti con Filippo Maria Visconti, cui era toccato il possesso di Tortona. Così, quando nel gennaio del 1411 Pavia (occupata il mese prima da Facino grazie al tradimento dei Beccaria, che ne erano i signori effettivi), fu da questi restituita a Filippo, Urbano fu scelto insieme al novarese Giovanni Tornielli per comandare il presidio del castello, nominalmente per conto di Visconti ma in realtà quale luogotenente del condottiero. In seguito, sia pure per breve tempo, svolse gli stessi incarichi a Genova e a Melegnano, finché, dopo la morte di Facino (16 maggio 1412) non rientrò nelle fila dell’ufficialità viscontea. Filippo Maria lo nominò maestro delle entrate e consigliere ducale e il suo nome ricorre più volte quale testimone in atti d’investitura rogati alla corte di Milano.
Soprattutto però egli diventò uno dei più apprezzati diplomatici al servizio del duca che lo impiegò in missioni particolarmente delicate. Fu il caso, ad esempio, della trattativa per la restituzione di Parma a Filippo Maria Visconti, che Urbano ricevette in nome di quest’ultimo il 16 novembre 1420 dal marchese Nicolò III d’Este, che l’aveva occupata negli anni della disgregazione dello Stato visconteo. Nominato luogotenente di Parma, vi si trattenne alcuni mesi per poi passare nell’Alessandrino e assumere il titolo di collaterale generale dell’Oltrepò, l’ufficiale incaricato di sovrintendere alle paghe delle milizie stipendiate. In questa veste Urbano partecipò attivamente alle trattative con i fuoriusciti genovesi e i signori delle Langhe e della Riviera di Ponente al fine di ottenere il loro aiuto nella guerra che il duca intendeva muovere al doge Tommaso Fregoso e al Comune di Genova. Quando questa scoppiò, nel maggio del 1421, egli fece parte dell’esercito che il Carmagnola condusse con successo nella Liguria occidentale e dopo la resa del doge (29 ottobre), fu destinato a suo assistente e controllore per tutto il tempo che gli fu consentito trattenersi a Genova. Quando poi il Carmagnola fu richiamato in Lombardia, egli assunse in via provvisoria il governo della città che mantenne dal 17 gennaio 1422 fino a che, nel marzo, non giunsero i governatori nominati dal duca. Alcuni mesi dopo, nell’autunno, venne incaricato di recarsi ad Asti per prendere in consegna quella città con il contado che il suo signore, il duca Carlo d’Orléans, nipote di Visconti e da sette anni prigioniero degli inglesi, aveva accettato di affidare provvisoriamente alla custodia dello zio fino a che non fosse riuscito a riottenere la libertà.
Rientrato a Genova, fu quindi nominato commissario ducale, responsabile della sicurezza militare e del mantenimento dell’ordine pubblico con uno stipendio di 3000 lire annue. L’incarico si rivelò particolarmente gravoso, per le continue ribellioni che si verificarono nel dominio genovese, fomentate dai fuoriusciti e dai veneziani loro alleati; nell’aprile del 1425, guidò un corpo di truppe a rioccupare Chiavari, abbandonata dai partigiani dei Fregoso ribelli, esercitando quindi per alcuni mesi anche le funzioni di capitano del borgo.
Nel dicembre di quello stesso anno fu designato fra i tre ambasciatori inviati dal duca e dal Comune di Genova a Tunisi, per trattare il riscatto di parecchi marinai e mercanti genovesi caduti nelle mani dei pirati tunisini. La missione, durata oltre cinque mesi, se non portò alla liberazione di tutti i prigionieri, servì comunque a riaprire i rapporti diplomatici con la Tunisia, interrotti da tempo, preparando la riapertura di un consolato genovese, che sarebbe avvenuta di lì a un paio d’anni.
Le buone prove fornite fino allora in tutte le occasioni in cui era stato chiamato a operare e la buona conoscenza maturata del difficile ambiente ligure consigliarono il governo ducale a impiegare Urbano nella pacificazione della Liguria occidentale, sconvolta dalle lotte tra le fazioni. Inizialmente inviato a Savona quale vicegerente, il 10 ottobre 1427 fu nominato capitano della Riviera di Ponente con pieni poteri e con un salario di 125 lire mensili, da ripartirsi tra le comunità sottoposte alla sua giurisdizione.
La nomina suscitò vive rimostranze tra i rivieraschi, ostili a farsi carico di nuovi oneri per il suo mantenimento; il provvedimento non fu però revocato e anzi le comunità furono costrette a pagare anche la manutenzione delle fortificazioni sia della Riviera che delle Langhe.
In questo periodo egli strinse solidi rapporti di amicizia con alcuni membri della casata dei Del Carretto, signori di numerose terre tra la Liguria di Ponente e il basso Piemonte. In particolare, si legò al marchese Galeotto Del Carretto, in lotta da decenni con il cugino Giorgino, con il quale condivideva la signoria di Finale. Nel 1428, accusato quest’ultimo di tradimento, Urbano aiutò Galeotto a cacciare il rivale e a impadronirsi del Castelfranco di Finale, sua residenza, dandogliene quindi l’investitura a nome del duca.
Tra le conseguenze di questo intervento nelle vicende interne dei Del Carretto vi fu anche l’acquisizione, per il dominio visconteo, del castello di Carcare, importante posizione lungo la via che da Savona conduceva in Piemonte. Agli oneri per il suo restauro, affidato a Urbano, furono obbligati tutti i signori feudali vicini, nonostante a quel momento non esistessero ancora vincoli giuridici di alcun tipo con il Ducato di Milano. A convincerli a sottomettersi bastò la minaccia dell’uso della forza, che si fece più concreta quando, nel 1431, il marchese di Monferrato Gian Giacomo Paleologo si trovò in guerra con il duca Filippo Maria a seguito dell’alleanza stipulata con i veneziani, mortali nemici di Milano. Urbano ricevette il comando di un corpo di duemila fanti e cavalli con i quali occupò tutti i possessi monferrini nella valle dell’Orba, passando quindi a minacciare i castelli che Del Carretto e Scarampi, in gran parte vassalli del marchese, possedevano nelle montagne alle spalle di Savona. Alternando promesse a intimidazioni, gli riuscì di convincere praticamente tutti i feudatari delle Langhe, uno dopo l’altro, a fare atto di sottomissione al duca Filippo Maria, rompendo i vincoli feudali che avevano con il Monferrato e determinando così il passaggio delle Langhe sotto la sfera d’influenza milanese: una situazione che si sarebbe mantenuta fino al XVIII secolo.
Anche negli ultimi anni della vita Urbano – che nel 1433, rimasto vedovo, era entrato a far parte dell’Ordine di S. Giovanni di Rodi – fu ripetutamente impegnato in missioni diplomatiche. Già nel 1434, infatti, il duca lo inviò come suo oratore a Roma, dove il popolo, costretto alla fuga il papa Eugenio IV, sembrava essere propenso a riconoscerlo come signore; la missione non produsse gli effetti sperati, ma Urbano fu determinante a impedire uno scontro tra i due condottieri rivali Francesco Sforza e Braccio da Montone, che si fronteggiavano in Umbria. Nel 1438 fu ambasciatore a Mantova e Ferrara per cercare di concludere un’alleanza in chiave antiveneziana con Gian Francesco Gonzaga e Nicolò d’Este.
Morì poco dopo il 1443, anno in cui risulta ancora vivente in una divisione dei beni di famiglia tra i quattro fratelli Rampini.
Dal matrimonio con una donna di ignoto casato aveva avuto almeno due figli maschi, Francesco e Filippo; da costoro originò una discendenza che conservò il possesso del feudo di Sardigliano fino al Seicento, estinguendosi il secolo dopo.
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