UPANIṢAD
. "Testi di dottrina arcana", nei quali, ritenendo sempre più inadeguata all'alto fine la materialità liturgica (del sacrificio), il pensiero religioso dell'India si libra con indagini metafisiche e psicologiche a meditazioni sull'Essere supremo, sull'io e sul mondo esterno. Raccolte complessivamente sotto la denominazione di Vedānta "Fine (anta) del Veda", come quelle che segnano l'ultimo periodo della letteratura vedica (fanno parte di quella che è chiamata la "sezione della conoscenza" jñāna-kāṇḍa [del Veda]), appartengono esse rispettivamente a tempi diversi. Costituiscono più determinatamente che gli Āraṇyaka (v.), i primi documenti (se si prescinde dai più antichi accenni in alcuni inni del tardo l. X del Ṛgveda) del pensiero filosofico indiano, per quanto non esposti in trattazioni sistematiche vere e proprie.
Il numero delle Upaniṣad (non tutte giunteci) si fa risalire a un massimo di 300; ma non più di 108 (elencate dalla tarda Mauktikā Upaniṣad) sono state pubblicate (ed. Tukārāma Jāvajī, Nirṇayasāgara Press, Bombay 1917).
Fra tutte, le seguenti 14 (che riportiamo nell'ordine cronologico fissato da P. Deussen) sono considerate dai commentatori indiani le più autorevoli per contenuto e per antichità:1. Br̥hadāran̥yaaka, 2. Chāndogya, 3. Aitareya, 4. Taittirīya, 5. Kauṣītaki, 6. Kena, 7. Kaṭha, 8. Īśā, 9. Śvetāśvatara, 10. Mahānārāyan̥a, 11. Mun̥ḍaka, 12. Maitrāyan̥īya, 13. Praśna, 14. Mān̥ḍūkya.
Le prime sei (considerate più antiche d'ogni altra: sec. VIII-VII a. C.) sono scritte in una prosa sanscrita arcaica, del genere di quella dei Brāhman̥a; le cinque seguenti (7-11) in un metro che potremmo dire arcaico (preepico); le ultime tre (12-14) in prosa del tutto simile alla classica. Appartengono, inoltre alla scuola del Ṛgveda (3, 5), del Sāmaveda (2, 6), del Yajurveda bianco (1, 8) del nero (4, 7, 9, 10, 12), dell'Atharvaveda (11, 13, 14). Carattere particolarmente religioso anziché filosofico hanno le Upaniṣad più moderne, alcune delle quali vengono attribuite a un'età di gran lunga posteriore alle prime. Sono esse, difatti, dedicate o a esaltazione delle pratiche del Yoga o delle due divinità Viṣṇu o Śiva, indice questo certamente di reazione brahmanica allo spirito extrasacerdotale, che aveva originato e ispirato le precedenti.
Le Upaniṣad sono così dette perché custodi di una dottrina che il maestro rivela quasi nascostamente allo scolaro che gli siede vicino (upa-ni-ṣīdati), come quella che, per essere una verità di ordine superiore, può venire comunicata solo a coloro che ne risultino degni; si rivela per introspezione e per intuizione ed è tale da rendere onnisciente colui che ne sia venuto in pieno possesso. Si tratta, dunque, di testi d'insegnamento esoterico che hanno per obiettivo la meditazione e la conoscenza dell'Assoluto, del Brahman. In esse questa forza, il cui nome significa in origine "formula, preghiera, forza magica e misteriosa", la quale ogni atto del sacrificio accompagna e ispira, assurgerà - più e meglio ancora di quanto nei Brāhmana più recenti era apparso - al valore di prima e massima essenza, di principio cosmico, di quanto più grande può essere pensato, tale da non avere nulla "né davanti; né dietro di sé"; da essere designato con semplice e pure efficacissima espressione: tat "questo" e con la frase "realtà della realtà" (satyasya satyam), frase che esclude ogni possibilità da parte di ogni intelletto umano di concepirlo. Massimo fine dell'uomo per raggiungere la suprema felicità sarà l'assorbimento finale nel Brahman.
Le Upaniṣad debbono essere ritenute frutto di reazione razionalistica al potere sacerdotale. Vediamo, difatti, in esse sovrani, uomini di cospicuo o infimo stato, e pur donne, riuscire a confondere con il loro grande sapere filosofico alcuni brahmani. Per opera appunto di tali pensatori eterodossi s'affermerà la dottrina dell'Ātman, di quel principio assoluto vitale che parve opporsi dapprima al Brahman, ma che poi venne con esso identificato e si avranno i primi accenni della dottrina dell'effetto delle opere (karman) e della rinascita (in questo caso trasmigrazione delle anime saísāra), che costituirà il fulcro di ogni posteriore fede religiosa dell'India. Mentre, difatti, i sacerdoti riconoscevano nel Brahman la "forza che impersonata in tutti gli esseri, ci sta dinnanzi, che tutti i mondi crea, sostiene, consersa, e di nuovo in sé riassorbe": la "scienza sacra", cioè, posseduta e passibile di essere resa nota soltanto dal sacerdote (il brahmano), gli altri pensatori furono attratti a studiare il piccolo io, soggetto, piedestallo, radice di tutte le cose e di tutte le funzioni vitali dell'uomo (anima, "sé stesso"), specchio del mondo esterno. In esso i nuovi pensatori trovarono risposta a ogni più vario problema del mondo esterno; lo confermarono fondamento di ogni funzione, lo paragonarono al mozzo della ruota, in cui sono confitti i raggi; lo affermarono privo di ogni possibile qualità, pur essendo tutto ciò che esiste diverso da lui e non definibile che con le frasi: ne'ti ne'ti "no! no!", o con "realtà della realtà,', satiasya satyam. L'esatta conoscenza dell'Ātman dà all'uomo la conoscenza di tutto lo scibile e gli fa raggiungere il supremo grado di tutte le virtù, come a colui che ha conosciuto ciò che vi è di migliore nel mondo.
Ma un concetto di tale natura non poteva rimanere nella cerchia dei saggi che, rinunciato a ogni bene mondano e vivendo vita ascetica e svalutando nel modo più deciso la materialità del sacrificio, si erano ritirati a meditare nella solitudine delle selve. I brahmani, la cui potenza sarebbe decisamente caduta per l'ingigantirsi e per il diffondersi nello spirito dei più di un principio che si opponesse al Brahman (indiscutibilmente meno afferrabile e più nebuloso dell'Ātman) o che lo soverchiasse non potevano non cercare il rimedio. Nel Brahman e nell'Ātman essi videro, così, non una relazione di parte (Ātman) in confronto al tutto (Brahman) o di emanazione individuale di un principio universale; ma riconobbero in essi, un solo principio, l'uno-tutto, il noumeno, l'universo, noi stessi. Ecco dunque ben giustificata la formula tat tvam asi "ciò tu sei" in cui si può dire riassunta tutta la dottrina teopanistica delle Upaniṣad, che divenne patrimonio di milioni d'Indiani, e, dopo tanti secoli, fu così cara allo Schopenhauer: "ciò tu sei!, l'Universo è il Brahman-Ātman ed esso sei tu stesso": vale a dire il mondo è in quanto appare nel tuo interno. La distruzione dell'ignoranza, ottenibile per mezzo della più intensa meditazione, la rinuncia a ogni possibile affezione al mondo, renderanno l'uomo degano di raggiungere dopo la morte il fine sospirato, la beatitudine della nozione dell'Ātman nella più alta forma di delizia, nell'unità cioè, del soggetto con l'oggetto della conoscenza, del microcosmo col macrocosmo dell'Atman, vale a dire, col Brahman.
Bibl.: F. Belloni-Filippi, Due Upanisad. La dottrina del bianco e del nero Yajurveda, Lanciano 1912; P. Deussen, Sechzig Upanihsad's des Veda, 2ª ed., Lipsia 1905; id., Allgem. Gesch. d. Philosophie, I, ii: Die Philosophie der Upanisads, ivi 1907; S. N. Dasgupta, A History of Indian Philosophy, Cambridge 1922, pp. 28-58; C. Formichi, Il pensiero religioso dell'India prima del Buddha, Bologna 1925 (tra.d fr. Parigi 1930).