uno
Termine utilizzato (sia come sostantivo sia come aggettivo) in ambito logico per classificare l’elemento di un insieme o di una classe qualsiasi; in relazione alla serie dei numeri naturali, per indicarne il primo termine; ma principalmente, nella storia della filosofia, secondo accezioni riconducibili, schematicamente, all’intendere l’u. o come principio o come proprietà del reale. Soprattutto in questo secondo senso e in relazione all’indivisibilità l’u. viene inteso anche come «unità». A seconda che l’u. sia considerato o in quanto realtà o in quanto connotazione di ciò che esiste, si diversificano concezioni che vi riconoscono un principio sovraontologico, ossia prioritario e superiore rispetto all’essere, e prospettive ontologiche, in cui l’u. si risolve nell’essere. Nel primo caso l’essere è inteso come un determinarsi, e, per così dire, come un ‘diminuirsi’ della pienezza sovraessenziale dell’u.: tale concezione è prevalente nel platonismo e nel neoplatonismo antico. In una prospettiva ontologica, invece, l’u. può assorbire l’intero essere fino a identificarvisi, come avviene nel pensiero parmenideo, oppure porsi sul piano delle individualità e delle specificazioni dell’essere, risolvendosi anche nel molteplice, come avviene nel pensiero aristotelico. Tali sfondi concettuali continuano a orientare le riflessioni sull’u. e sull’unità nel Medioevo, con le correnti platoniche o aristoteliche, e nel Rinascimento, con la forte ripresa dei temi platonici e pitagorici. Nell’età moderna, accanto alla critica empiristica di Locke al concetto di unità riferito al piano ontologico e alla sostanza, si ha l’accentuazione in senso razionalistico-metafisico sia del monismo sostanziale, con Spinoza, sia dell’accezione individuale dell’unità sostanziale con la concezione monadologica di Leibniz. Nel Romanticismo e nell’idealismo, la concezione dell’u. viene assorbita nella prevalente riflessione sull’unità e sull’u.-tutto, in cui si risolve il reale in quanto assoluto, con Fichte, Schelling ed Hegel. Una marginale ripresa della riflessione sull’u. nell’ambito delle filosofie analitiche contemporanee si colloca entro la prospettiva inaugurata dall’empirismo moderno di Locke e Hume, privando di pregnanza metafisica il tema dell’u. o riconducendolo a quello logico- linguistico o descrittivo.
Nelle riflessioni di carattere fisico e cosmologico degli ionici (Talete in Aezio, II, 1; Anassagora, framm. 8; Eraclito, framm. 50 Diels-Kranz) la nozione di u. (ἕν) viene tematizzata sullo sfondo dell’u.-tutto, da cui il molteplice nasce e in cui si risolve. Pitagora estende invece il concetto di μονάς a un ambito che si può definire metafisico in cui l’u. è inteso come Dio o come divino, e come bene (Aezio, I, VII, 18). Filolao e Archita, secondo la testimonianza di Teone di Smirne, definiscono in modo interscambiabile l’u. come monade (Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium, XX, 19). Platone tratta il problema dell’u. principalmente nei dialoghi consacrati al ripensamento dell’eleatismo: Parmenide (➔) e Sofista (➔). A partire dall’identificazione, operata da Parmenide, fra u. ed essere, che connota quest’ultimo appunto per la sua ‘unicità’, Platone, nel Parmenide, si confronta con il problema dell’inconsistenza ontologica del molteplice derivante dall’assunto parmenideo. In tale prospettiva egli contrappone alla nozione di u. come ‘unicità’, quella di u. come ‘universale’, che permette l’articolazione dinamica del molteplice realmente esistente a partire dall’unità-universalità delle idee, esposta nel Sofista. Tuttavia dalla riflessione sulle idee e sul loro strutturarsi in rapporto all’idea valore fondamentale e prioritaria, l’idea del Bene, sorge all’interno del platonismo stesso una diversa concezione dell’u. come principio dell’essere. Nei testi conosciuti di Platone, il tema viene soltanto accennato, ma l’incentrarsi della riflessione sull’u., pitagoricamente inteso come monade e – in funzione metaontologica – posto in relazione alla diade di grande e piccolo (principio duale) è attestato da Aristotele come indirizzo prevalente nel platonismo di Speusippo. È su tale sfondo che sorge la costante polemica dello Stagirita contro quanti intendono l’u. o addirittura il numero quale principio dell’essere, sviluppata a più riprese nella Metafisica (➔). Aristotele avvia la sua analisi del concetto di u. con la distinzione fra ciò che è u. per sé (κατ᾿αὑτό) e ciò che è u. per accidente (κατὰ συμβεβηκὸς) (Metafisica, V, 6, 1015 b 16). Assumendo l’u. come essere, Aristotele non riconosce l’esistenza dell’u. ‘in sé’. L’u., come l’essere, si dice in molteplici modi, ed è relativo all’essere, ossia alla sostanza; in altre parole, è necessario che qualcosa sia affinché possa essere ‘unico’ e non viceversa: «l’uno non è nulla al di fuori dell’essere»; da ciò deriva che «quante sono le specie dell’u., altrettante sono anche quelle dell’essere» (IV, 2, 1003 b 32-34). Nell’articolata analisi condotta nella Metafisica (V, 6, 1015 b 16-1017 a 6) Aristotele declina le diverse accezioni dell’u. in quanto riferito a sostanze o accidenti, o in quanto riferito a ‘unità essenziali’. Quest’ultimo caso ha luogo allorché l’u. è riferito a realtà «continue», a realtà identiche nel sostrato o nel genere, a realtà identiche nella definizione. L’‘essenza’ dell’u., pur consistendo principalmente nell’indivisibilità («universalmente tutte quelle cose che in sé non ammettono divisione, si considerano una cosa unica proprio in quanto non possono essere divise»; 1016 b 3-5), viene identificata nel suo essere principio numerico o misura prima di un genere; tutto ciò che viene conosciuto è infatti numerato o misurato a partire dall’u. inteso o come numero o come unità di misura: «l’essenza dell’u. è principio [della] causa di qualsiasi numero: infatti è principio la prima misura, giacché è prima misura di qualsiasi genere di oggetti ciò in virtù di cui noi acquistiamo la conoscenza primordiale di quel genere stesso: pertanto l’uno è principio di ciò che è conoscibile in ciascun genere», 1016 b 17-20). Ancora nella Metafisica, Aristotele ribadisce, in polemica con Speusippo, l’impossibilità che l’u. sia principio dell’essere. L’u. è nuovamente definito in relazione al continuo, al suo indicare «un tutto» (ὅλον), all’unità specifica e all’unità numerica. Si tratta però di ‘modi’ dell’unità e non della sua essenza, che consiste nell’indivisibilità (X, 1052 a 15-1052 b 1). Nell’ambito dello stoicismo è forte l’accento posto sul carattere dell’u.-tutto ove in accezione monistica e panteistica si preferisce al termine ἕν quello di πᾶν, penetrando il logos tutto il mondo e determinandone l’unità; esemplarmente Marco Aurelio scrive: «U. è il mondo costituito dal tutto, uno il Dio che penetra il tutto, una la sostanza, una la legge, una la ragione comune, una la verità» (Pensieri, VII, 9) esprimendo tutta l’ampiezza semantica del logos e descrivendone al tempo stesso il ruolo unificante. Nel pensiero neopitagorico e neoplatonico antico la riflessione sulla monade, e più specificamente sull’u., ne radicalizza la concezione come ciò che è al di sopra dell’essere. In tale prospettiva Plotino e Proclo connotano l’u. appunto per la sua anteriorità rispetto al piano ontologico. In Plotino ciò origina la triplice scansione delineata nelle Enneadi (➔) (V, I, 8) in cui al vertice è posto l’u. inteso come u.-bene, superiore e prioritario rispetto all’essere o intelletto che da quello procede identificandosi con l’u.-molti, ossia con l’alterità delle idee, platonicamente intesa, e dal quale, a sua volta, procede l’anima (anima del mondo) che comprende l’u. e i molti, in cui si articola la realtà. Rovesciando la concezione aristotelica e recuperando la prospettiva platonica, l’essere è inteso da Plotino in virtù dell’unità e non viceversa: «tutti gli esseri devono il loro essere all’U.» (Enneadi, VI, 9, 1). Tale unità è conferita alle cose esistenti dall’anima, ma questa non coincide con l’unità in quanto essa stessa la riceve dall’intelletto o nous, che coincide con il piano dell’essere, e questo a sua volta la riceve dall’u. (VI, 9, 2). Si tratta come si vede di unità per così dire ‘derivate’, determinate in relazione all’essere, che in quanto tale è già una diminuzione della sovrabbondanza causale e della sovraessenzialità dell’u., scevra da molteplicità al punto da essere ineffabile, trascendente e oggetto di contemplazione più che di comprensione: «l’U. è per la verità ineffabile» (V, 3, 13). Tale concezione viene ulteriormente articolata secondo una vasta gerarchia di livelli ontologici intermedi che si determina in ordini divini e reali in Proclo. Nell’Institutio theologica (IV, 6) e nella Theologia platonica (in partic. libb. II-III) Proclo, a partire dall’assolutà priorità dell’u. (ἕν), identico al bene, da cui procedono tutti gli enti, frappone fra l’u. e l’essere, a scandirne la distanza dal piano ontologico, le enadi (ἑνάδες) o «unità» divine. Tali realtà intermedie colmano lo iato fra il principio supremo e trascendente e le ipostasi del mondo intelligibile, l’essere, la vita e l’intelletto.
Nel pensiero cristiano, cui il neoplatonismo di Plotino e di Proclo si contrappone, taluni elementi platonici vengono gradatamente assorbiti; di converso si assiste anche, per es. in Porfirio – autore significativo per il ruolo centrale dell’Isagoge nello studio della logica aristotelica durante il Medioevo –, a un riassorbimento della tematica plotiniana dell’u. entro l’ontologia aristotelica (Isagoge, 6, 16-20; 9, 20-22). Nelle pagine dello pseudo-Dionigi i temi legati alla gerarchia dell’essere e all’ineffabilità dell’u. divino, secondo i moduli della teologia negativa, vengono assorbiti in prospettiva cristiana (De divinis nominibus, XIII c-d). Nella riflessione di Scoto Eriugena e successivamente nella Scuola di Chartres (in partic. in Teodorico) si ha inoltre la ripresa di temi procliani e diogeniani, con il recupero dei temi della processione dall’u. – identificato con il Dio cristiano – del molteplice, a scandire un processo di derivazione e di ritorno del creato all’uno. Tale u. è connotato, da Scoto Eriugena, proprio per la sua «superessenzialità» (superessentialitas) e per il suo essere al di là di essere e non-essere (superesse). Da diversa prospettiva, anche Agostino insiste sulla distinzione fra l’unità divina di Dio «unum incommutabile» (De vera religione, XII, 24) e la «falsa unità» del corpo, il quale, pur essendo ‘vero’, non è «sommamente u. o non imita l’U. fino a raggiungerlo» (XXIV, 63). Con Avicenna la prospettiva ontologica aristotelica si rafforza nel senso della convertibilità di essere e u. «unum et ens convertuntur» (cfr. Metafisica, III, 6). Nel corso del 13° sec. si attesta, inoltre, sempre in ambito ontologico, la dottrina dei trascendentali, ossia delle proprietà comuni a tutte le cose e dunque predicabili di ogni cosa che, proprio per tale motivo, trascendono, ossia precedono, le specificazioni categoriali. Fra i trascendentali è compreso l’unum come proprietà che si aggiunge all’ente in quanto ‘modo’ dell’essere; in tal senso i trascendentali, e fra questi l’u., sono convertibili con l’ente (Tommaso, Summa theologiae, I, q. 93 a. 9; De veritate, q. I, a. 1). Tommaso intende l’unità, come Aristotele, principalmente come indivisibilità, sottolinea tuttavia l’impossibilità di comprendere l’unità divina, nella sua semplicità, a partire dall’unità intesa come misura o come numero (Summa theologiae, I, q. 11, a. 3). All’unità divina si può pervenire, a posteriori, dalla contemplazione dell’unità del mondo e della semplicità e perfezione di Dio. In Cusano è centrale la ripresa di temi procliani e plotiniani, declinati nel senso di un superamento della logica razionale discorsiva, in favore di una logica dell’unità degli opposti in cui il molteplice dell’unità matematica si integri con il semplice dell’u., nel coincidere di massimo e minimo (Dotta ignoranza, I, 5). Entro tale prospettiva Cusano distingue «la divinità» che è «unità infinita» dall’unità numerica. Questa distinzione, tuttavia, si rapporta alla traccia del divino che l’uomo conserva nel creare ‘enti di ragione’, quale è appunto l’unità numerica, che presuppone l’unità come principio sia della mente umana sia nelle cose realmente esistenti, che attraverso quella vengono colte e ricondotte ‘simbolicamente’ al contrarsi dell’unità nel molteplice. Tale principio, al di sopra dell’essere e della potenza, è il «Dio uno», ossia l’unità divina «incontratta». Questo recupero del platonismo è parallelo al platonismo di Ficino, in cui tornano a porsi i temi del Parmenide di Platone, come anche il recupero del pensiero plotiniano e procliano. In Bruno la prospettiva platonica dell’u. come principio viene unificata con quella causale nella concezione monista dell’Universo come infinito in atto. In chiave radicalmente antiaristotelica Bruno rovescia l’uso dei trascendentali, ricavando da essi, e fra questi dall’u., l’essere: «Aristotele, fra gli altri, non ritrovò l’u., non ritrovò lo ente, e non ritrovò il vero, perché non conobbe come u. lo ente» (De la causa, principio et uno, p. 324); e ancora «lo ente, uno e vero son medesimo». Tale unità si trova a ogni istante realizzata e in atto nell’infinità dell’Universo. In tal modo non si parla di vera e propria unità in riferimento alle cose particolari, ma di «moltiformità» dell’unico ente «la quale viene a denominar cosa per cosa». La moltitudine e il numero sono ‘modi’ dell’«u. infinito, immobile che è la sustanza, che è lo ente» (323).
Nel pensiero moderno la riflessione si incentra sull’unità sostanziale, che in Spinoza assorbe l’intero essere entro la sostanza unica divina, mentre in Leibniz si coniuga in chiave monadologica. Il termine stesso adottato da Leibniz si riferisce a un principio di individualità e indivisibilità scevro dalla materialità (anche solo dall’intelligibilità propria del punto matematico euclideo). Tale unità spirituale origina dal rispecchiamento della monade divina secondo una prospettiva peculiare, come avviene nella contrazione delle unità individue, presente già in Duns Scoto. In una prospettiva empiristica, Locke contesta la validità dell’unità sostanziale quale tramite per comprendere le differenti accezioni secondo le quali si danno nell’esperienza i diversi casi di identità riferiti a ‘pretese’ sostanze, non esperibili in quanto tali. Concludendo la dettagliata analisi delle diverse idee di identità, egli sottolinea come sia «l’idea di un corpo che abbia quel certo aspetto e unito a quel certo essere» a conferire l’identità all’idea dell’uomo, e non la possibilità di definirne la sostanza in quanto «essere pensante e razionale» (Saggio sull’intelletto umano, 1690, II, 27, 8). Locke riconduce l’unità alla sensazione più che alla riflessione, nella quale essa è, comunque, riferita a un oggetto, seppur esistente soltanto in quanto idea (II, 7, 7). Leibniz contrappone a tale concezione la priorità dell’unità sostanziale che implica già tutte le determinazioni e tutti i suoi predicati come inerenti. Essa non è ottenuta mediante l’unificazione delle lockiane «collezioni di idee», ma a partire dall’inerire di tali predicati alla sostanza stessa, e si connota come unità «vera e reale» (Nuovi saggi sull’intelletto umano, 1705, II, 27, 4). Tale concezione è ulteriormente sviluppata e sistematizzata in Wolff (Philosophia prima sive ontologia, 1730, § 328). Per Kant l’unità (Einheit) è una delle categorie della quantità (Critica della ragion pura, 1781, Analitica trascendentale, lib. 1°, cap. 1°, sez. 3, § 10) cui corrispondono i giudizi universali. Tale categoria presuppone l’attività unificante o «sintetica» dell’‘Io penso’, ma la sua unità non sorge a sua volta da un’attività unificante, quanto «piuttosto la rende possibile». L’unità «necessaria» del soggetto con il predicato origina dunque dall’«unità necessaria dell’appercezione trascendentale»; essa va infatti cercata in ciò che contiene il fondamento stesso dell’unità di diversi concetti nei giudizi (Analitica trascendentale, lib. 1°, cap. 2°, sez. 2, § 16). Nella riflessione di Schelling il tema dell’u. viene integrato in quello dell’u.-tutto e coincide con il mondo stesso. Hegel invece riflette sia sull’u. sia sull’unità in chiave antisoggettivistica, ossia contro la soggettività trascendentale kantianamente intesa. Nella Scienza della logica (➔) (1812) nella «dottrina dell’essere» egli vede nell’unità il momento della concretezza che si contrappone all’u. come astrazione. L’essere ‘per sé’ comporta necessariamente la contrapposizione dialettica fra l’u. e il molteplice, in quanto è nella natura stessa dell’u. il distinguersi da sé mediante una molteplicità di termini, poi riassorbiti mediante la sintesi dialettica nell’unità. In tal senso Hegel intende l’unità come ‘inseparabilità’ (Scienza della logica, I, lib. 1°, sez. 1, cap. 1). Nell’unità del reale il molteplice appare come astrazione per essere poi riassorbito dialetticamente entro l’assoluto. Già nella Fenomenologia dello spirito (➔) (1807) Hegel parla dell’unità (Einheit) come «l’atto stesso di sdoppiarsi, proprio perché è l’astrazione, proprio perché è uno solo dei due opposti […] l’unità è posta come ciò che ha in sé l’opposizione» (III, 4, a). Tale unità si risolve, nella Scienza della logica, come relazione reciproca dell’attrazione e della repulsione da cui sorgono la quantità, la qualità e la misura. Nel Novecento, Gentile ha corretto in senso spiritualistico tale impostazione identificando la vita dello «spirito in atto», come unità fra spirito teorico e spirito pratico (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916, capp. 3-4), sullo sfondo ‘qualitativo’ dell’unificazione di soggetto, oggetto e sintesi di soggetto e oggetto. Il concetto di u. considerato nella sua inattingibile assolutezza relativamente alla molteplicità empirica del reale, è stato analizzato da Martinetti, sottolineando la separazione del molteplice da Dio, u. assoluto. Per quanto centrale nelle interpretazioni della metafisica antica, principalmente platonica e neoplatonica, condotte alla luce della cosiddetta henologia, su cui ha insistito in numerosi scritti W. Beierwaltes, identificando una direttrice che da Platone giunge fino a Hegel, via Scoto Eriugena, Cusano, Schelling, ecc., la tematica dell’u. ha perso di pregnanza negli indirizzi filosofici attuali, in partic. nell’ambito della filosofia analitica, in ragione di un approccio sostanzialmente convergente con le acquisizioni dell’empirismo moderno di Locke e di Hume.