UNIVERSO (XXXIV, p. 735; App. I, p. 1096; II, 11, p. 1064; III, 11, p. 1029)
Le conoscenze relative all'U. hanno finito con l'identificarsi, specialmente in questi ultimi anni, con la cosmologia, intesa come la disciplina che studia la struttura e la storia dell'U. considerato nel suo insieme: essa tende a gravare l'accento sull'aspetto "globale" dei fenomeni celesti (macrocosmo), cercando di smussare, con criteri statistici, tutte le complicazioni particolari e locali, pur riconoscendo nello stesso tempo che ulteriori progressi essenziali alla composizione del quadro macroscopico non possano raggiungersi senza un approfondimento dei fenomeni del microcosmo, atomico e subatomico. D'altra parte, occorre tener presente che molte ricerche fondamentali sul microcosmo ricevono potente stimolo proprio dallo studio dei fenomeni visti "in grande", come avviene, per es., nella ricerca di una spiegazione di taluni comportamenti eccezionali della materia e delle energie in gioco nelle supergalassie o nelle quasar (v. in questa Appendice). Questo intimo collegamento metodologico delle ricerche sul macrocosmo con quelle sul microcosmo è una caratteristica della moderna cosmologia.
Generalmente la connessione tra macrocosmo e microcosmo avviene nello studio di sistemi intermedi, quali galassie, stelle e altri peculiari corpi celesti; è qui infatti che l'uno e l'altro momento dell'indagine concorrono a formare un quadro esauriente dell'oggetto investigato. Per quanto riguarda la parte sperimentale (osservazioni astronomiche), progressi essenziali sono stati effettuati in questi ultimi anni attraverso l'imponente sviluppo della radioastronomia, dell'osservazione degli oggetti celesti da bordo dei satelliti artificiali, dell'impiego sempre più diffuso degli elaboratori elettronici e in generale di tecniche sempre più raffinate. Per l'osservazione ottica (diretta e spettroscopica) continua il sistematico contributo del grande telescopio del Monte Palomar (California), con specchio di 5 m di diametro, mentre un altro grande telescopio, con specchio di 6 m, è appena entrato in funzione presso l'Osservatorio sovietico in Georgia. A sua volta, l'osservazione da bordo dei satelliti artificiali ha consentito di estendere enormemente la nostra conoscenza su tutte le radiazioni, elettromagnetiche e corpuscolari, che sono assorbite del tutto o in parte dall'atmosfera terrestre, e in particolare sui raggi cosmici, sugli elettroni relativistici, sui raggi X e γ emessi dai corpi celesti, mentre per la radioastronomia il più importante, sostanziale progresso è certamente quello raggiunto dalla tecnica interferometrica effettuata su basi intercontinentali, che ha consentito di localizzare forme, dimensioni e posizione delle radiosorgenti discrete, con precisioni veramente eccezionali, dell'ordine di 0,001 secondi di arco, mille volte cioè la risoluzione praticamente ottenibile coi migliori sistemi ottici operanti al suolo (v. radioastronomia, in questa Appendice).
Progressi nella conoscenza della struttura stellare e galattica. - Struttura ed evoluzione delle stelle. - L'impiego sempre più diffuso di elaboratori elettronici di grandi capacità operative ha consentito di dare un quadro della struttura e dell'evoluzione stellare che, pur presentando ancora diverse lacune, può considerarsi in generale assai soddisfacente. Una stella, supposta formata dall'aggregazione di materia diffusa per l'azione delle forze gravitazionali interne, può considerarsi, ai fini cosmologici, come un potente generatore di energia - emessa principalmente sotto forma di radiazioni elettromagnetiche, con uno spettro che, nelle stelle normali, si approssima a quello di un corpo nero - e come origine di flussi corpuscolari quali protoni ed elettroni, con un largo spettro di energie. Contemporaneamente, all'interno della stella hanno luogo le trasformazioni nucleari dalle quali quell'energia deriva: principalmente trasformazioni dell'idrogeno in particelle α (nuclei di elio), e quindi, per successive fusioni di tali particelle, in elementi via via più pesanti, almeno fino all'elemento di peso atomico 40 (calcio). Allorché, per fenomeni esplosivi (stelle supernovae) - che possono verificarsi verso la fine del ciclo evolutivo della stella - la materia stellare viene lanciata nello spazio, ha luogo una modifica della composizione chimica della materia interstellare diffusa, dalla quale possono formarsi nuove aggregazioni e quindi nuove stelle, differenti da quelle originarie perché più ricche di elementi pesanti; queste vengono a costituire una "seconda generazione stellare", nel ciclo eterno della vita e della morte.
La struttura e l'evoluzione delle stelle è studiata teoricamente attraverso la costruzione matematica dei cosiddetti "modelli stellari". La soluzione numerica del modello fornisce i valori delle grandezze fisiche che caratterizzano la struttura interna della stella (distribuzione della temperatura, pressione e densità), nonché il raggio esterno e la luminosità (flusso totale di energia emessa); questi due ultimi sono i parametri - in pratica non essi direttamente, ma altri equivalenti più convenienti, come, per es., la grandezza assoluta e la temperatura effettiva - i quali, essendo a loro volta suscettibili di osservazione, possono essere riportati su un diagramma stellare Hertzsprung-Russell (Ap p. III, 11, p. 1029) per un confronto.
La situazione descritta da un modello può durare, senza importanti variazioni, per un certo numero di anni. La trasformazione chimica che la stella subisce, specialmente in talune sue parti per le reazioni nucleari, tende infatti a portarla in uno stato di equilibrio diverso, con nuovi valori per il suo raggio e la sua luminosità. Si ottiene in tal modo una successione di stati di equilibrio della stessa stella che, rappresentati nel diagramma anzidetto, lo trasforma in un diagramma evolutivo (fig.1).
La costruzione metodica dei diagrammi evolutivi stellari è importante ai fini della rïcerca cosmologica perché, sommando gl'intervalli di tempo nei quali la stella rimane nei vari stadi della sua evoluzione, si determina l'età della stella, dalla sua nascita fino al momento in cui noi la osserviamo. I numerosissimi lavori effettuati in questo campo dimostrano come l'età delle stelle della prima generazione (popolazione II: App. III, 11, p. 1029) sia dell'ordine di 8-10 miliardi di anni, un ordine di grandezza compatibile con l'età stimata dell'Universo. Inoltre, supponendo di assegnare in una nebulosa extragalattica qualsiasi la distribuzione statistica delle masse stellari, è possibile valutare l'apporto delle diverse popolazioni stellari alla luminosità totale della nebulosa, nonché al suo colore (prevalenza di blu o di rosso secondo che prevalgano le giganti blu o rosse nelle rispettive popolazioni). Tale procedimento, introdotto in questi ultimi anni, va sotto la denominazione di "sintesi di popolazione".
La classifica, proposta da W. Baade, delle stelle in due gruppi generali di popolazione I e II rimane ancora sostanzialmente valida in generale, sebbene da taluni autori (A. Blaauw e altri) siano state avanzate proposte di suddivisione delle popolazioni originariamente introdotte in sottogruppi, associando proprietà stellari di diversa natura (composizione chimica, caratteristiche cinematiche, ecc.) con la massa e l'età. Se supponiamo di assegnare per una nebulosa extragalattica la distribuzione delle stelle nelle diverse popolazioni, ciascuna rappresentata in un diagramma Hertzsprung-Russell, il problema teorico essenziale consiste nel determinare lo spettro continuo composito della nebulosa (in pratica, la luminosità in un conveniente numero di bande ristrette di frequenza). In realtà, ciò che, in definitiva, interessa l'astronomo è il problema inverso; supposto dato dall'osservazione lo spettro composito della nebulosa (o un conveniente numero di bande di frequenza) si ricavi la distribuzione delle stelle nelle diverse popolazioni. È chiaro che la soluzione di tale problema, posto in tutta la sua generalità, non può essere univoca, una delle principali difficoltà derivando dal fatto che le stelle meno luminose - che dànno però il maggior contributo alla massa totale della nebulosa - meno contribuiscono invece alla totale luminosità, sfuggendo in un certo senso alla misura. Soltanto parzialmente si riesce ad attenuare la portata di tali limitazioni, introducendo particolari ulteriori ipotesi.
Il procedimento della sintesi di popolazioni trova un rilevante interesse cosmologico nella correlazione che si pone tra l'aspetto morfologico delle nebulose (spirali, ellittiche, ecc.) e la composizione della loro emissione luminosa. Così, per es., nelle galassie di tipo ellittico, colpisce la corrispondenza che si verifica tra la distribuzione spettrale osservata della radiazione e la distribuzione che si ottiene dalla sintesi di popolazione di una singola generazione di stelle di età al di sopra dei 7 miliardi di anni. Difficoltà maggiori sussistono per l'applicazione del procedimento a galassie di altri tipi, e infine alla "luce cosmica" (luminosità di fondo del cielo notturno per le galassie non sufficientemente luminose per essere individuate, depurata dalle radiazioni luminose derivanti dall'atmosfera terrestre, dalla luce zodiacale e dalle stelle), per determinare teoricamente la quale occorrerebbe a rigore conoscere, oltre che la funzione che dà la distribuzione della luminosità locale delle galassie per ciascun tipo - secondo una classifica correlata alla distribuzione spettrale dell'energia e a quella delle popolazioni - anche la funzione di distribuzione dell'energia nel presente e in tutto il passato in ciascun tipo di galassia; un compito imponente, che aumenta l'interesse per il metodo della sintesi di popolazioni.
La questione della luminosità del cielo notturno è legata al cosiddetto "paradosso di Olbers", che porta ad affermare che in un u. infinito, con stelle uniformemente distribuite, ogni pezzetto del cielo notturno dovrebbe mostrare la stessa brillanza del Sole. La presenza del red shift, che limita il contributo delle galassie a quelle con velocità di allontanamento inferiore alla velocità della luce, fa intuitivamente comprendere come la luminosità del cielo notturno, dovuta alle nebulose extragalattiche, si riduca in effetti a una piccolissima frazione di quella che deriva dalle stelle della nostra Galassia.
Struttura galattica. - Indubbiamente il massimo contributo alla conoscenza della struttura e della dinamica della Galassia continua a essere dato dalla radioastronomia, che ha consentito di confermare, precisandoli, i risultati ottenuti da H.I. Even, E.M. Purcell e, successivamente, da J.H. Dort e C.A. Müller (App. III, 11, p. 1029). Secondo le più recenti osservazioni su stelle variabili del tipo RR Lyrae, J.H. Oort e L. Plaut hanno concluso che il Sole si troverebbe a una distanza dal centro galattico di circa 28.380 ± 1960 anni luce.
Oltre alla radiazione di 21 cm dell'idrogeno, dalla quale derivano scoperte galattiche tra le maggiori, altre frequenze radioelettriche di origine interstellare sono state individuate di recente; citiamo quelle dovute al radicale ossidrile, all'idrazina, al vapor d'acqua, alla formaldeide, all'elio e forse anche al carbonio. Sebbene le ricerche in questo campo siano appena all'inizio, non sfuggirà il loro interesse specialmente in relazione al problema dell'origine e della formazione di molecole organiche, intimamente collegato al problema della diffusione della vita nell'Universo. Il gas interstellare, prevalentemente idrogeno e polveri, costituisce circa il 10% della massa totale della Galassia, con spiccato addensamento sul piano equatoriale galattico; alla nota rotazione differenziale del sistema, deve aggiungersi una velocità radiale del gas interstellare, dell'ordine di 70 km/sec, indice di eventi violenti e straordinari in atto, o già avvenuti, al centro della Galassia e non ancora spiegati.
Ma altre importanti componenti vanno sempre più ponendosi in luce nella struttura galattica; accenneremo brevemente ai raggi cosmici galattici, agli elettroni relativistici, ai raggi X e γ, e ai neutroni.
I raggi cosmici galattici sono in prevalenza costituiti da protoni con energie che vanno dai 10 MeV a valori ultrarelativistici di 1014 MeV, la maggioranza con energia dell'ordine di 103 MeV. Essi costituiscono un gas relativistico (cioè con velocità delle particelle prossime a quella della luce) la cui importanza dinamica (con riguardo cioè alla pressione che detti raggi esercitano sul gas interstellare) va comprendendosi solo adesso; la componente dei raggi cosmici che pervade la Galassia ha un comportamento isotropo, con una densità di energia dell'ordine di 1 eV/cm3, comparabile alla densità dell'energia luminosa stellare, dell'energia della turbolenza del gas interstellare e di quella del campo magnetico galattico. Questo accordo nei valori della densità di tali componenti ha assai probabilmente un significato cosmologico, che però ancora ci sfugge nella sua interezza. Quanto all'origine dei raggi cosmici galattici e della loro energia, si propende ad attribuirla principalmente ai fenomeni esplosivi che hanno luogo nelle supernovae oppure al meccanismo delle pulsar (v. in questa App.), mentre le altissime energie che essi portano potrebbero derivare da effetti di sincrotrone.
È interessante notare come la parte non idrogenica dei raggi cosmici, costituita da nuclei di litio, berillio e boro, la cui abbondanza relativamente all'idrogeno risulta milioni di volte più grande di quella che si riscontra in media nei corpi celesti, sembri essersi formata nella collisione di raggi cosmici con gas interstellare, alcuni nuclei del quale potrebbero essersi frantumati con formazione di elementi più leggeri.
Data l'elevatissima velocità, prossima a quella della luce, deve dedursi che la permanenza dei raggi cosmici nella Galassia, a partire dal momento della loro genesi, è relativamente assai breve (3 milioni di anni in media); essi sfuggono perciò presto dalla Galassia per andare a formare una componente fondamentale dell'U. metagalattico.
L'ipotesi dell'origine dei raggi cosmici e della loro elevata energia è suffragata dai fenomeni che avvengono nella Crab Nebula, che rappresenta il più cospicuo esempio di resto di una supernova. Il flusso radioelettrico di questa nebula è tale che la densità del flusso elettronico in essa contenuto dev'essere molto più grande di quello della Galassia nel suo insieme; ciò non solo conforta l'ipotesi che gli elettroni vengano accelerati da un meccanismo di sincrotrone, ma che tale meccanismo sia anche responsabile delle caratteristiche dell'emissione ottica, ovviamente prodotta da elettroni di assai più elevata energia. Questa ipotesi è confortata dal fatto che, come l'emissione radio, anche l'emissione nel campo ottico risulta linearmente polarizzata. La recente scoperta nella Crab Nebula di una pulsar, che presenta una diminuzione del periodo di pulsazione di circa 1,35 • 10-5 sec per anno, porta (nell'ipotesi che la pulsar sia una stella di neutroni, di circa una massa solare, con raggio di 10 km, rotante con un periodo di 33 millisecondi) ad attribuire l'origine dell'energia della radiazione di sincrotrone emessa dalla nebula all'energia perduta dalla rotazione (circa 1038 erg/sec).
Scoperti nel 1961 tramite osservazioni effettuate a bordo di palloni, i flussi di "elettroni relativistici" rappresentano solo una piccola percentuale dei raggi cosmici. Tali flussi sono però importanti in quanto, in presenza di campi magnetici individuati anche per altra via, essi irradiano apprezzabili flussi di onde elettromagnetiche, rivelabili dai radiotelescopi. Poiché sembra lecito presumere che elettroni relativistici si accompagnino a protoni, la loro utilità si manifesta principalmente nell'individuare zone di raggi cosmici e di campi magnetici. Per questi ultimi si può assumere nella Galassia un'intensità e una densità di energia media dell'ordine rispettivamente di 5 • 10-6 oersted e 1 eV/cm3. Il problema dell'origine del campo magnetico galattico rimane ancora insoluto.
Da queste osservazioni è nata l'idea, ancora in via di conferma, dell'esistenza di un "alone di raggi cosmici" tutt'intorno alla Galassia, il quale conterrebbe anche elettroni e altre componenti e avrebbe forma sferica con circa 30.000 anni-luce di diametro. A questo alone si attribuisce l'origine di una debole emissione radioelettrica, pur essa di sincrotrone, che l'osservazione non è in grado ancora di confermare con sicurezza.
Importanza ai fini cosmologici rivestono anche i raggi X e i raggi γ di origine non solare. Dei primi, scoperti intorno al 1962 da R. Giacconi (e altri), si conoscono fino a oggi una cinquantina di sorgenti discrete, quasi tutte situate sul piano della Galassia (tra queste la citata Crab Nebula e altri resti di novae); fanno eccezione la radiogalassia Virgo A, la quasar 3C273 e molte galassie di Seyfert, che sono oggetti extragalattici. Queste sorgenti discrete di raggi X sono sovrapposte a un fondo più debole, generale e isotropo, che potrebbe essere di origine extragalattica. Quanto ai raggi γ, convenzionalmente distinti dai raggi X in quanto provvisti di energia superiore a 100 keV, essi sono stati misurati più recentemente (1968) come un flusso proveniente dal centro galattico e dal disco. La loro origine tuttavia è ancora assai incerta.
Infine, si suppone che debbano esistere nello spazio flussi di neutrini di origine cosmica; ma la rivelazione sperimentale di tali particelle urta notoriamente contro la gravissima difficoltà della debolissima interazione che esse hanno con la materia.
L'Universo metagalattico. - Il contributo delle osservazioni: le radiogalassie e le quasar. - L'accresciuta sensibilità degli strumenti, e specialmente lo straordinario aumento del potere risolutivo delle osservazioni radioelettriche, hanno consentito di compiere, in questi ultimi anni, passi sostanziali nella conoscenza dell'U. extragalattico. Una particolare importanza hanno avuto anche le osservazioni ottiche dirette a cercare una controprova alle osservazioni radioelettriche; si è così potuto accertare come molte delle radiosorgenti coincidano con delle galassie, delle quali è possibile osservare otticamente la luminosità apparente e lo spettro, ricavandone il red shift e quindi la distanza mediante la legge di Hubble (App. III, 11, p. 1031).
In generale, tutte le galassie dovrebbero presentare un'emissione radioelettrica di fondo, di norma assai debole, dell'ordine di 1038 erg/sec contro i 1044 erg/sec dell'emissione ottica; così avviene, per es., per la nostra Galassia e per la nebulosa di Andromeda. Solo per talune, come per es. la radiosorgente Cigno A, si presenta una potenza radio assai superiore, dell'ordine di 1045 erg/sec, un milione di volte più grande di quella di una galassia normale (e 10 volte maggiore della potenza ottica). A tali oggetti celesti si riserva, oggi, il nome di radiogalassie; essi costituiscono, per lo più, la componente più luminosa di un ammasso di galassie. Si tenga presente che la tendenza delle galassie a formare ammassi è stata confermata, mentre è ancora in discussione una tendenza generale alla formazione di gruppi di ammassi (superammassi, superclusters). Secondo G. de Vacouleurs, un superammasso sarebbe quello in direzione della costellazione della Vergine, a 6,2 • 107 anni luce da noi. Secondo A. Sandage, la relazione "distanza-red shift", generalmente applicata a tutte le galassie, è più regolare se limitata soltanto alle radiogalassie. Fino a oggi nessuna spiegazione cosmologica è stata data di questi comportamenti statistici della distribuzione delle galassie nello spazio; ciò non deve meravigliare qualora si tenga presente che ancora non esiste una teoria per spiegare i complessi processi di frazionamento della massa totale dell'U. in frammenti (galassie).
Le radiogalassie, assieme alle quasar, sono certamente due grandi fatti nuovi che hanno più di ogni altro contribuito alla formazione di un quadro aggiornato dell'Universo. Si tratta di oggetti celesti la cui massa, tipica di una galassia, è dell'ordine di 1044 g, nei quali però, per fenomeni esplosivi, una considerevole parte di essa (1039 g o più) può trasformarsi in particelle relativistiche e campi magnetici, per essere successivamente emessa sotto forma di energia radiante elettromagnetica di straordinaria potenza, la cui origine rimane ancora inspiegata.
Fra le radiogalassie citiamo la 3C, detta Cigno A, identificata da R. Minkowski in una galassia posta a mezza via tra due radiosorgenti e con altre due radiosorgenti all'interno, alla quale il red shift misurato assegna una distanza di 170 Mpc; la 3C295, che presenta un red shift pari a 0,461, uno dei più forti osservati delle galassie; le galassie di Seyfert, con un'intensa emissione nell'infrarosso, come per es., la 3C120 con un flusso di energia in questa regione dello spettro di 1046 erg/sec, comparabile con quello delle quasar; la 3C465, multipla, posta in un gruppo di una decina di galassie; la 3C231, corrispondente alla galassia peculiare M82 la quale presenta una struttura filamentosa nelle fotografie in luce d'idrogeno, con una notevole emissione luminosa linearmente polarizzata, spettacolare esempio di un'esplosione in atto.
Nonostante le molte osservazioni, molto poco si conosce ancora sulla struttura e sull'origine delle radiogalassie. Uno dei fatti più salienti è che la maggior parte di esse sono doppie; così la Cigno A si risolve in due componenti poste ai lati della galassia ottica, cosa che conforta l'ipotesi di un fenomeno esplosivo, con lancio nello spazio di gas ionizzati ed elettroni relativistici. Altre radiosorgenti sono disseminate nei gruppi di galassie.
Con la scoperta delle radiogalassie si era già arrivati a scandagliare a fondo l'U. fino a distanze dell'ordine dei 170 Mpc (Cigno A), quando la scoperta delle quasar (v. in questa App.) dette inizio a una nuova era nelle ricerche cosmologiche.
Queste sorgenti radio con aspetto ottico stellare sono i più distanti oggetti che siano stati osservati otticamente. La loro scoperta permise di stabilire tre fatti fondamentali: 1) che si era in presenza di oggetti con velocità radiali elevatissime, fino all'88% di quella della luce; 2) che, applicando a tali oggetti la legge di Hubble, essi risulterebbero collocati a distanze da 8 a 10 miliardi di anni luce; 3) che, comparando la luminosità apparente delle quasar con quella assoluta, è necessario attribuire a esse una potenza ottica eccezionale, dell'ordine di 100 volte quella della più grande galassia conosciuta. Le quasar vanno pertanto considerate come gli oggetti che, al giorno d'oggi, ci consentono di scandagliare nelle più remote regioni dell'Universo.
Il contributo delle osservazioni: le componenti di fondo dell'Universo. - Ma l'apporto più significativo della radioastronomia al problema della struttura e dell'evoluzione dell'U. considerato globalmente è certamente quello di aver messo in evidenza alcuni fatti che si riferiscono direttamente al problema della sua uniformità e della isotropia. Abbiamo già accennato come sembri confermata (App. III, 11, p. 1030-31) l'uniformità "in grande" della densità materiale dell'U. fino a oggi esplorato, mentre per i raggi cosmici e per gli elettroni relativistici intergalattici sembra potersi affermare una generale isotropia; ma certamente la più straordinaria delle scoperte moderne sulla struttura di base dell'U. è quella del "fondo di radiazione di microonde a 3 °K,", della quale sembrò assicurata l'isotropia entro limiti assai stretti, del 3% e forse dello 0,1%; una misura, questa, a ragione ritenuta da alcuni autori come la più precisa mai prima effettuata in campo cosmologico.
Misure recentissime (gruppi di ricerca di Berkeley e di Princeton, 1979) sulle distribuzioni angolari della radiazione in questione hanno però posto in dubbio la sua isotropia. La spiegazione di una componente anisotropa potrebbe essere spiegata con modelli dell'U. nei quali la funzione di scala (v. oltre) sia funzione della direzione oltre che nel tempo; oppure potrebbe condurre (dopo le necessarie correzioni) a una stima della velocità del sistema solare (600 km/sec; diretta verso il punto della sfera celeste di coordinate: ascensione retta = 10h 30m, declinazione = − 20°) rispetto alla radiazione di fondo o, più precisamente, rispetto alla materia, posta alle distanze estreme, da cui quella radiazione trae origine.
La radiazione di microonde a 3 °K era stata prevista teoricamente da G. Gamow, partendo dall'ipotesi che, all'epoca della formazione dell'U., sarebbe stata raggiunta, nella "palla di fuoco" iniziale, una temperatura sufficiente a formare elio dall'idrogeno, in misura del 10% circa. In conseguenza di questa temperatura si sarebbe accumulata una radiazione di corpo nero in equilibrio termico, la quale, con la successiva espansione dell'U., si sarebbe raffreddata fino a 10 oK. La conferma all'ipotesi di Gamow doveva però avvenire molti anni dopo, con la scoperta da parte di A.A. Penzias e R.W. Wilson (1965) di una radiazione "di fondo" a 7 cm di lunghezza d'onda, che superava di un fattore 100 l'intensità ricevuta da tutte le radiosorgenti messe assieme. Le misure ottenute fino a una lunghezza d'onda di 3 mm sembrano indicare (fig. 2) uno spettro di corpo nero di 2,65 ± °K, del quale, sfortunatamente, non si può osservare il massimo (che cade poco al di sotto di 3 mm), a causa dell'assorbimento dell'atmosfera terrestre; sono state iniziate esperienze da bordo di razzi e satelliti, e misurazioni indirette attraverso l'osservazione di talune righe dello spettro del cianogeno (CN) interstellare, che risulta particolarmente eccitato dal campo della radiazione ambientale di 2,6 mm.
Per un osservatore terrestre la radiazione di fondo può essere interpretata come proveniente da materia posta a distanze assai maggiori, per diversi ordini di grandezza, anche delle quasar più lontane; essa avrebbe abbandonato tale materia in epoca assai vicina alla grande esplosione iniziale dell'U., ma già quando la temperatura della materia era discesa sui 3000 °K circa e lo spazio era divenuto trasparente per la scomparsa degli elettroni liberi a causa della loro cattura da parte dei nuclei atomici nella formazione degli atomi neutri, giungendo finalmente a noi come radiazione con temperatura di soli 3 °K, e questo a causa dell'enorme red shift subìto per l'espansione dell'Universo. La radiazione di fondo può perciò fornire una specie di fotografia dell'U. ai suoi primissimi albori, a un'età di solo lo 0,1% dell'età presente.
Ma vi sono altri aspetti della scoperta, di notevole interesse storico e concettuale. La possibilità, che la radiazione di fondo consente, di collegare le osservazioni astronomiche con una materia posta a distanze estreme, ripropone infatti l'antico - ma pur sempre attuale - problema del riferimento nello spazio e nel tempo dei fenomeni fisici osservati; problema che sta a fondamento di ogni speculazione cosmologica.
Il problema della posizione e del moto della Terra nell'U. si pone fin dall'antichità, identificandosi in ultima analisi col problema stesso della cosmologia. Al modello cosmologico tolemaico, che poneva un riferimento spaziale geocentrico privilegiato (o assoluto) solidale con la Terra, succedeva dopo 1300 anni il modello eliocentrico copernicano, concepito anch'esso come assoluto, però con centro nel Sole e solidale con la sfera delle stelle fisse. In questo U. la Terra aveva un moto di rotazione su sé stessa e uno di rivoluzione attorno al Sole. Fu soltanto con Galileo e Newton che il problema cambiò sostanzialmente impostazione e significato; con la fondazione della nuova meccanica infatti e in particolare con la formulazione del principio d'inerzia (che permetteva di riguardare come equivalenti tutti i sistemi di riferimento in moto relativo rettilineo e uniforme tra loro), la disputa Tolomeo o Copernico perdeva significato, ponendosi in sostituzione il vero quesito: se esista in qualche parte dell'U. un sistema di riferimento privilegiato o assoluto. Ora, tutto lo sviluppo successivo della meccanica, della fisica e dell'astronomia fino alla formulazione della relatività ristretta e generale di Einstein permette oggi di confermare anche con maggiore generalità il principio di relatività galileiano, asserendo che tutti i sistemi di riferimento spazio-temporali, comunque situati e comunque in moto tra loro, sono equivalenti ai fini della rappresentazione delle leggi che reggono il mondo fisico.
Tutto ciò non esclude - anzi consente - che, a seconda dei problemi in esame, possa essere più conveniente (o naturale) scegliere un sistema arniché un altro. Così, per es., conviene un sistema eliocentrico per lo studio dei moti planetari; un sistema ancorato al centro della Galassia per i problemi relativi al suo movimento e alla sua evoluzione; un sistema ancorato nel baricentro d'un superammasso per lo studio della distribuzione delle galassie in una certa posizione dell'Universo. Con la scoperta della radiazione di fondo sorge infine la possibilità di un sistema solidale con la materia esistente alle più estreme distanze da noi per lo studio dell'U. nel suo insieme. Si tratta di un riferimento che potrebbe chiamarsi universale, rassomigliante in un certo senso a un riferimento assoluto tolemaico, ma sostanzialmente ben differente, giacché centro di esso può essere un punto qualsiasi dell'U., e rimanendo ogni altro possibile riferimento equivalente a esso.
L'espansione dell'Universo e le ipotesi cosmologiche. - Come già si è accennato, l'ipotesi dell'espansione dell'U. ha trovato, in questi ultimi due decenni, conferme di grande rilievo nella scoperta delle radiogalassie, delle quasar e infine della radiazione di fondo di microonde. Le radiosorgenti e le quasar ci consentono di osservare fenomeni che avvengono a distanze enormi, fino a un ordine di 8 ÷ 10 miliardi di anni luce, e di considerare questi fenomeni distanti da noi nella scala dei tempi di un numero equivalente di anni, come esempi della potenza e della composizione della radiazione emessa da oggetti celesti caratteristici di quell'epoca primordiale e avvicinandoci così di molto a quei 18 miliardi circa di anni fa, allorché si verificò la "grande esplosione" (biq bang) dalla quale l'U. ebbe origine. È questo il modeflo di U. che oggi si assume come modello standard, base di ogni ricerca su problemi cosmologipi. Altri modelli, basati sull'introduzione della costante cosmologica nelle equazioni di campo di Einstein, ovvero il modello della creazione continua di materia dal nulla (steady-state theory) non sembrano poter resistere a critiche approfondite.
Ovviamente, per le grandi distanze, alle quali corrispondono valori assai elevati del red shift, la legge di Hubble non può più considerarsi lineare, ma deve assumere una forma più complicata, che tenga conto non solo dell'effetto di relatività particolare (quando si tratti di oggetti assai veloci rispetto all'osservatore), ma anche delle conseguenze della relatività generale, allorché, proprio attraverso quegli stessi oggetti osserviamo (e quindi veniamo a confrontare) situazioni assai distanti da noi anche nel tempo, quando cioè ben diverse erano le dimensioni, le densità e quindi le proprietà metriche dell'Universo. Queste considerazioni portano a dare alla legge di Hubble una forma del tipo: V = H(t) • D, ove V è la velocità radiale rispetto all'osservatore, D la distanza dell'oggetto osservato e H(t) una funzione che, pur dipendendo dal tempo t, sia la stessa in ogni posto dell'U. e sia legata da una parte a una funzione di scala R(t) - che in un U. uniforme e isotropo rappresenti sostanzialmente la legge di variazione (espansione) della distanza di due particelle ovunque situate - e dall'altra a una costante k che stabilisca la metrica spaziale dell'U.; da ciò dipende che, in ogni assegnata epoca, se l'osservatore (ovunque situato) considera una regione limitata dell'U. che lo circonda, H è la stessa; all'epoca attuale può assumersi H = 100 km/sec per megaparsec (i /H ≈ 1010 anni).
È sempre la teoria della relatività che continua a formare la base teorica delle moderne teorie cosmologiche. Le originarie vedute di A. Einstein, W. de Sitter, A. Friedmann e G. Lemaître (App. III, 11, p. 1031) sono andate però subendo modifiche dipendenti sostanzialmente dal ritorno verso idee concernenti la dinamica newtoniana di grandi nubi gassose già espresse in passato da E.A. Milne e W.H. McCrea, e riprese recentemente, specialmente a opera di H.P. Robertson e A.G. Walker nel campo della cosmologia relativistica. Sia nell'opera pionieristica del Milne, così come in quella degli ultimi autori citati, è fondamentale l'idea di considerare l'U. sufficientemente grande perché tutto ciò che noi possiamo osservare risulti circondato praticamente da una porzione di U. uniforme e isotropa in ogni sua parte. Ogni punto dell'U. (galassia o quasar) può in tal modo essere considerato come "centro"; inoltre, risulta molto semplificato il moto della materia (considerata come una nube gassosa) così come è visto da ogni osservatore che si muova con essa. Il criterio adottato corrisponde a quello che suole chiamarsi il "principio cosmologico perfetto", secondo il quale l'U. "in grande" deve presentare lo stesso aspetto a qualunque osservatore in quiete rispetto alla materia di un suo intorno. Queste considerazioni cinematiche portano subito ad assumere una legge di Hubble del tipo sopra indicato; nella moderna cosmologia relativistica, le ipotesi dell'uniformità e isotropia vengono sintetizzate nell'assunzione di un elemento spazio-temporale ds della forma:
r, θ, ϕ essendo le coordinate polari di un punto dell'U. rispetto a un osservatore generico, e k un parametro che stabilisce la metrica spaziale, rappresentandone la curvatura. L'espressione del ds2 va considerata come condizione da aggiungersi alle equazioni di Einstein di un campo gravitazionale a simmetria sferica (senza la nota costante cosmica).
Tutti i possibili modelli di U. deducibili da questa teoria risultano governati da una funzione di scala R(t) e da una costante k. Il modello con k = 0 (matrice spaziale euclidea) è quello che meglio sembrerebbe adattarsi ai risultati delle più recenti osservazioni; in esso, la velocità di espansione tenderebbe uniformemente a zero, con R(t) ∝ t2/3, mentre risultano stabilite le relazioni:
G essendo la costante gravitazionale di Newton.
Assumendo all'epoca presente 1/H ≈ 1010 anni, l'età dell'U. risulterebbe di t = 6,7 • 109 anni circa, in sufficiente accordo con l'età valutata della Galassia, mentre per la densità media attuale si aviebbe circa 2 • 10-29 g/cm3, valore che supera di un fattore 30 quello dedotto dalla stima della massa delle galassie conosciute. La discrepanza potrebbe essere eliminata da una migliore conoscenza della densità media del gas intergalattico, costituito da idrogeno neutro e ionizzato. Questo è un problema essenziale, sul quale va puntata tutta l'attenzione degli osservatori, giacché una conferma sperimentale della deficienza di densità significherebbe un universo con un k 〈 0 (metrica spaziale iperbolica), con una velocità di espansione tendente a un valore finito, con prevalenza dell'energia cinetica rispetto a quella gravitazionale e un'età maggiore. Ciò prova come la sola conoscenza del red shift senza quella del fattore di scala R(t) non dica molto quando si tratti di proprietà "in grande" dell'Universo.
Chiamando λ e λ0 le lunghezze d'onda di una stessa riga spettrale osservata, rispettivarmente, in un corpo celeste e in laboratorio, il red shift può rappresentarsi con la quantità z definita dalla relazione: λ/λ0 = 1 + z. Interpretandolo come effetto Doppler e calcolando la velocità di recessione dell'oggetto osservato con le formule della relatività particolare, tutto ciò che possiamo dire è che, al tempo t (〈 t0, epoca presente) in cui la radiazione fu trasmessa, l'U. era più contratto di un fattore R(t0)/R(t) = 1 + z, e quindi la sua densità maggiore di un fattore (i + z)3. Per z ≈ 3, oggi considerato un limite superiore per le quasar, si avrebbe un sostanziale rapporto dell'ordine di 64 per la densità.
Non essendo la R(t) determinabile direttamente dalle osservazioni, si possono ovviamente indicare misure di altre grandezze che, aggiunte al red shift, permetterebbero di determinarla indirettamente, per es., cercando di determinare l'età t, oppure attraverso la determinazione di relazioni tra luminosità e distanza, ovvero tra diametri apparenti e red shift di particolari classi di oggetti celesti.
Problemi cosmologici tuttora aperti. - Dei problemi cosmologici che rimangono tuttora aperti, uno dei più importanti è certamente quello, al quale abbiamo accennato, della materia intergalattica; la conoscenza della densità media globale dell'U. è infatti essenziale per la determinazione del modello da utilizzare. Un altro problema con vasti riflessi cosmologici è quello dell'abbondanza nell'U. dell'elio rispetto all'idrogeno ("problema dell'elio"), oggi stimata come minimo di 1 atomo contro 11.
Mentre tutti gli altri elementi chimici possono avere avuto origine nelle stelle o in altri oggetti di maggiore massa in processi avvenuti dopo la formazione delle galassie, solo il 10% circa dell'elio stimato può avere avutò la stessa origine; la maggior parte dev'essere perciò di origine primordiale, e la sua formazione è legata ai processi fisici operanti al momento della "grande esplosione": il fatto più misterioso di tutte le teorie evolutive.
La conferma, che le moderne osservazioni tendono a dare, di un U. uniforme e isotropo in espansione ci riporta alla cosiddetta teoria α-β-γ, enunciata da R. A. Alpher, H. A. Bethe e G. Gamow nel 1946, la quale non rende conto della formazione degli elementi più pesanti dell'elio, ma riesce a giustificare la formazione di quest'ultimo fino a ottenere una proporzione di 1 atomo di elio ogni 12 d'idrogeno. La situazione termodinamica nella quale tale formazione è avvenuta ha lasciato un'indelebile traccia nell'U. attuale proprio nella radiazione di microonde già considerata, che altro non sarebbe che il "residuo fossile " del campo di radiazione originariamente in equilibrio termodinamico a circa 5 • 108 °K.
Ulteriori ricerche e più precise misurazioni sul campo di radiazione delle microonde eseguite in tutte le direzioni, e l'osservazione di quasar con più grandi red shift sono le vie maestre oggi additate agli osservatori. Per i teorici, si accentua il problema fondamentale dello studio della "singolarità" che esiste all'origine dei modelli considerati, e cioè di una densità tendente a valori infiniti per il tempo tendente allo zero (istante iniziale). È stato dimostrato che, anche per u. irregolari, le singolarità non si possono evitare, almeno fin tanto che si rimane nell'ambito della teoria della relatività generale. D'altra parte la fisica stellare ha provato oggi l'esistenza di stelle superdense con raggi fino a pochi km (nane bianche, stelle di neutroni, buchi neri), nelle quali si hanno densità fino a 1018 g/cm3. Le leggi fisiche che governano la materia in queste condizioni critiche sono in gran parte ancora sconosciute; esse potrebbero certamente illuminarci anche sul comportamento di quel proto-universo dal quale l'attuale U. ha avuto origine, rinforzando così quel già esaminato principio dell'intimo collegamento metodologico delle ricerche sul macrocosmo con quelle sul microcosmo.
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