UNIVERSO (XXXIV, p. 735; App. I, p. 1096; II, 11, p. 1064)
Il progresso, in questo ultimo decennio, nella conoscenza dell'U. è stato veramente importante, sia nel campo sperimentale per l'apporto di nuovi dati forniti dal grande telescopio da 5 metri del Monte Palomar (California, S. U. A.) e dalla nuova tecnica della radioastronomia (v., in questa App.), sia nel campo teorico, per una più approfondita conoscenza dei fenomeni atomici. È un progresso che non accenna a diminuire, poiché il contributo dei nuovi mezzi è appena all'inizio e altre tecniche sempre più potenti vanno preparandosi, specialmente quelle che ci permetteranno di osservare i corpi celesti al di fuori della nostra atmosfera, in osservatorî funzionanti su satelliti artificiali terrestri. In particolare, sarà possibile misurare tutta la banda della radiazione stellare che cade nell'ultravioletto (lunghezze d'onda inferiori ai 2900 Å circa), che fino ad oggi sfuggiva ai nostri strumenti di misura perché assorbita dall'atmosfera terrestre; sarà inoltre possibile una più precisa conoscenza delle condizioni fisiche degli altri pianeti del sistema solare e infine della radiazione cosmica primaria (v. radiazione cosmica, in questa App.), la quale, assieme alla materia diffusa interstellare, gioca nella costituzione e nella evoluzione dell'U. un ruolo che, sebbene di primo piano, sfugge ancora quasi completamente alla nostra comprensione.
Nuove ricerche sulla struttura della Galassia. - Le popolazioni stellari di Baade. - Ricerche effettuate intorno al 1942 col telescopio di 2,5 metri del Monte Wilson portarono W. Baade alla scoperta di stelle giganti rosse nel nucleo della nebulosa di Andromeda, al contrario di quanto si poteva riscontrare nelle braccia della stessa nebulosa, ove predominano le giganti blu. Queste sono dello stesso tipo di quelle che si trovano in vicinanza del Sole, ed hanno una luminosità che può essere anche più di 100 volte maggiore delle giganti rosse. Baade fu così portato a classificare le stelle in due gruppi generali, che egli chiamò Popolazione I e II. Tra le prime vanno annoverate le stelle giganti blu ed altre che si trovano normalmente nelle braccia delle nebulose extragalattiche; esse abbondano perciò anche sul piano centrale e alla periferia della nostra Galassia, e sono generalmente frammiste a nubi brillanti ed oscure di gas e di polveri. Tra le stelle di Popolazione II vanno invece annoverate le giganti rosse e le stelle che formano i nuclei delle nebulose extragalattiche e degli ammassi globulari. In generale, negli agglomerati di stelle di Popolazione II manca, o è scarsa, la materia interstellare. Meno luminose delle stelle di Popolazione I, quelle di Popolazione II sembrano costituire la maggioranza delle stelle, forse il 90% del totale. La caratteristica fondamentale, che ha permesso la classificazione delle popolazioni stellari, è tuttavia la diversa posizione che le stelle delle due categorie occupano nel diagramma di Hertzsprung-Russell (fig.1). Tra le stelle caratteristiche di Popolazione II sono da segnalare le variabili del tipo RR Lyrae. Dal punto di vista dell'evoluzione stellare, gli astronomi propendono, allo stato attuale delle nostre conoscenze, a ritenere le stelle di Popolazione II più antiche di quelle di Popolazione I, la formazione delle prime risalendo all'epoca della formazione della Galassia, mentre le altre si sarebbero formate in tempi successivi, e forse vanno ancora formandosi, dalla materia interstellare presente nelle braccia.
La stretta connessione tra le supergiganti blu e le nubi di gas caldo o freddo delle braccia delle nebulose, evidente nella nebulosa di Andromeda ove tali stelle appaiono circondate da immense aureole di idrogeno allo stato fluorescente e ionizzato, hanno suggerito a W. W. Morgan un metodo per ricostruire il percorso delle braccia della nostra stessa Galassia attraverso lo studio della distribuzione delle regioni di gas caldo (regioni di idrogeno II) e di gas freddo (idrogeno I). Le stelle blu associate alla loro nebulosità sembrano essere distribuite secondo linee parallele al piano galattico, dimostrando in tal modo la presenza di una struttura spirale. Questi risultati sono stati confermati dalle ricerche di G. Münch sulle velocità radiali delle nubi interstellari, dedotte dall'effetto Doppler delle righe di assorbimento che la materia interstellare fa comparire su spettri di stelle lontane.
L'apporto della radioastronomia alle ricerche galattiche. - Un fondamentale passo avanti nella conoscenza dell'U. galattico, compiuto in questi ultimi anni, si deve alla radioastronomia, specialmente con l'osservazione dell'emissione o assorbimento da parte dell'idrogeno freddo interstellare della radiazione di 21 cm di lunghezza d'onda. L'idea di usufruire di questa radiazione si deve a J. Van De Hulst (1944), ma la prima applicazione pratica dell'idea è di H. I. Even e E. M. Purcell (1951), con risultati confermati successivamente da J. H. Oort e C. A. Müller. La radiazione radioelettrica galattica presenta un fondo continuo che, su onda di 14,6 m era stato scoperto da K.G. Jansky fin dal 1932; le prime ricerche rigorose in questo campo sono peraltro quelle di G. Reber (1940), effettuate su diverse lunghezze d'onda.
La radiazione di fondo continua è presente su tutte le frequenze osservabili; non è generalmente localizzata ed ha un'intensità crescente con la lunghezza d'onda, più alta in corrispondenza della Via Lattea. Percorrendo l'equatore galattico si osserva, su onde dell'ordine di 1,2 m, un massimo di intensità a 50° di longitudine galattica, in corrispondenza della costellazione del Cigno, ove è probabilmente presente un addensamento di idrogeno in un braccio di spirale. Un minimo della radiazione di fondo si verifica invece a 190° di longitudine. Per lunghezze d'onda relativamente corte, dell'ordine dei cm, le uniche regioni emittenti sono quelle del Cigno e del Sagittario; per lunghezze d'onda maggiori la zona emittente si allarga via via fino ad invadere tutto il cielo, sempre però con una banda più intensa sulla Galassia e con punte di massimo nelle due regioni indicate. Questo alone diffuso della radiazione su onde metriche, che sembra circondare la Galassia e che è stato osservato anche nella nebulosa di Andromeda, trae probabilmente origine da una specie di "radio-corona" circondante la Galassia, analoga a quella che, in scala assai minore, si osserva attorno al Sole.
Sul fondo continuo della radiazione galattica sono riconoscibili numerose sorgenti discrete, chiamate radiosorgenti (o, impropriamente, radiostelle), sufficientemente localizzate, dalle quali proviene una radiazione più intensa; esempî tipici sono le zone in Cassiopea e nel Cigno. Complessivamente se ne conoscono circa 3000 e sembrano associate talune a stelle, altre a nebulose galattiche (per es. la Crab Nebula, che sembra essere il risultato di una esplosione stellare), altre infine a nebulose extragalattiche (per es. la galassia doppia NGC 1275, coincidente con la radio sorgente A del Cigno e che sembra costituire un esempio di due galassie in collisione).
L'osservazione dell'emissione radioelettrica su 21 cm di lunghezza d'onda (frequenza 1420, 405 MHz) ha consentito di determinare la struttura spirale della Galassia. Il metodo è basato sulla determinazione delle velocità radiali del gas interstellare attraverso la misurazione dell'effetto Doppler e l'esame del profilo della riga di 21 cm in ogni direzione galattica. È stato così possibile individuare le velocità radiali delle grandi masse idrogeniche che si trovano a enormi distanze, fino a 50.000 a. l. (anni luce) ed oltre. Poiché le nubi cosmiche sono praticamente trasparenti per le radio-onde è stato inoltre possibile osservare la zona centrale della nostra Galassia, quasi inaccessibile alla normale osservazione ottica perché oscurata dalle nubi cosmiche della costellazione del Sagittario.
A causa della rotazione differenziale della Galassia si può stabilire una relazione teorica tra la velocità radiale di una massa gassosa in ogni direzione e la sua distanza dall'osservatore. La determinazione sperimentale della velocità radiale, effettuata dall'esame della riga di 21 cm, permette perciò di localizzare le sorgenti e di ricostruire la distribuzione nel piano galattico delle masse gassose (fig. 2).
Se ω(R) è la velocità angolare di rotazione galattica in un punto P a distanza R dal centro galattico, e se ω è la velocità angolare di rotazione del Sole alla distanza R0 dal centro, la velocità radiale, relativa al Sole, del gas in P è data da:
essendo l′ la differenza tra la longitudine galattica di P e quella del centro galattico. Indicando con nH(r) la densità degli atomi di idrogeno nel punto P situato alla distanza r dal Sole, il numero &out;n(Vg) degli atomi contenuti in una colonna di 1 cm2 di sezione e altezza dr, compresi in una unità di intervallo di Vg, sarebbe dato, in assenza di moti casuali dalla relazione:
In realtà le velocità radiali sono disperse attorno a un valore medio secondo una legge casuale, con funzione di frequenza ϕ(v), e il numero N degli atomi con velocità radiale h contenuti nella suddetta colonna risulta essere:
Poiché dal profilo della riga spettrale di 21 cm è possibile ricavare la funzione N(V), ne consegue che se si conosce anche la funzione di distribuzione ϕ(v), la risoluzione dell'equazione integrale [3] permette di calcolare &out;n(Vg). E poiché ω(R), R0 ed ω0 possono considerarsi conosciute dalla teoria della rotazione differenziale della Galassia ed R può esprimersi in funzione di r, la [1] dà per ogni valore della longitudine l′ la relazione tra Vg ed r; è quindi possibile ricavare da essa la dVg/dr ed infine dall'equazione [2] la nH(r), ossia la distribuzione lungo la visuale prescelta della densità dell'idrogeno interstellare.
Il risultato ottenuto dalle osservazioni radioelettriche conferma i risultati ottici di Morgan e Münch, sebbene questi ultimi siano limitati a distanze inferiori ai 15.000 a. l. Le principali braccia della Galassia individuate con l'osservazione radioelettrica sono: il braccio di Orione (che comprende anche il Sole e la costellazione di Orione) con uno spessore di circa 1.500 a. l., il braccio di Perseo e quello del Sagittario. Inoltre rimane confermato che il senso di rotazione della Galassia è quello orario rispetto ad un osservatore col capo rivolto verso l'emisfero boreale.
Nel 1959 J. H. Oort annunciò la scoperta del nucleo galattico, le cui dimensioni furono da lui valutate sempre con metodi radioelettrici, a 2000 (diametro equatoriale) × 1000 (diametro polare) a. l., assai più piccole quindi di quanto si riteneva fino ad allora (15.000 × 5.000 a. l.); la densità del nucleo si aggirerebbe intorno a 500 ÷ 1000 volte quella dell'intorno del Sole.
In conclusione, sulla base delle determinazioni radioelettriche la Galassia risulterebbe così formata: il nucleo suddetto compatto, circondato da una regione di idrogeno in espansione; a 8000 a. l. dal centro galattico si svolge il primo braccio delle spirali (quello del Sagittario), seguito, nell'ordine, dai bracci di Orione e di Perseo e da un ultimo braccio esterno a 50.000 a. l.
Nel suo insieme, la Galassia risulta più piccola di quanto si riteneva nel passato, le sue dimensioni rientrando ormai tra quelle di una galassia normale. La Galassia ruota su se stessa con velocità angolare decrescente dal centro alla periferia; il nucleo compirebbe una rivoluzione in soli 7 milioni di anni, mentre le zone poste ad una distanza dal nucleo pari a quella che ha il Sole (27.000 a. l.), impiegherebbero 200 milioni di anni per compiere un giro completo. Il confronto di questo modello con quello ottenuto dai classici metodi ottici lascia ancora aperte molte questioni.
Per quanto riguarda la massa totale dell'idrogeno freddo interstellare, dall'intensità della radiazione di 21 cm essa può valutarsi a circa il 2% della massa totale della Galassia. Ne consegue che il contributo del gas interstellare (per la grandissima parte costituito da idrogeno) alla massa totale della Galassia sembra doversi stimare sensibilmente inferiore a quanto supposto nel passato.
Universo metagalattico. - Sebbene appena all'inizio della sua prestazione, il nuovo telescopio del Monte Palomar ha portato subito un importante contributo alle nostre conoscenze sul sistema metagalattico. È noto come tutti i sistemi galattici conosciuti sembrassero notevolmente più piccoli della nostra Galassia, che fu anzi classificata come una super-galassia. Ma già le misure fotoelettriche di J. Stebbins e di altri avevano provato che le dimensioni delle galassie esterne erano in realtà maggiori (almeno doppie) di quanto si era dedotto dalle misure fotografiche. Nel 1952 W. Baade, col 5 metri del M. Palomar, riuscì a provare che lo splendore intrinseco di alcune stelle variabili del tipo Cefeidi della nebulosa di Andromeda doveva essere almeno quadruplicato rispetto alla stima fatta nel passato, onde la loro distanza dovrebbe essere almeno raddoppiata. Si raggiungevano in tal modo due risultati di primaria importanza: 1) che le dimensioni della nebulosa di Andromeda divenivano comparabili a quelle della Galassia, la quale cessava così di apparire come un sistema privilegiato; 2) che tutte le distanze degli oggetti extragalattici andavano in media raddoppiate, e forse quadruplicate. Ricordiamo che la distanza della nebulosa di Andromeda era stata valutata da E. Hubble a 750.000 a. l., usando il telescopio 2,50 m del M. Wilson. Nel 1952 W. Baade portò tale distanza a 1.500.000 a. l., e successivamente R. A. Sandage, con una nuova revisione del lavoro di Baade, a circa 2 milioni di anni luce.
Circa la distribuzione spaziale delle Galassie non vi è, secondo F. Zwicky, alcun accenno a una diminuzione di esse con la distanza; fino ai limiti raggiungibili dal telescopio del Monte Palomar (circa 2 miliardi a. l.) l'U. sembra, in media, uniforme.
Sebbene distribuite, in media, uniformemente nello spazio, sembra tuttavia confermato il fatto che, localmente, le galassie appaiono organizzate in gruppi o ammassi di galassie. Secondo F. Zwicky, la tendenza delle galassie a formare gruppi è la regola. Gli ammassi di galassie sono particolarmente importanti perché servono come base di studio per la determinazione delle distanze cosmiche. Anche la Galassia fa parte di un ammasso, peraltro modesto, che comprende una ventina di membri, tra i quali le nebulose extragalattiche di Andromeda, del Triangolo ed altre minori, per lo più del tipo ellittico. Altri ammassi però possono comprendere migliaia di Galassie, come quello della chioma di Berenice che ne comprende oltre 10.000. Sembra invece che debba escludersi la formazione di raggruppamenti di ammassi, ossia di super-ammassi di galassie.
Assumendo come raggio dell'U. osservabile la quantità R = c/vr, c essendo la velocità della luce e vr la velocità di recessione della galassia per unità di distanza (v. oltre), si otterrebbero per l'U. i seguenti dati: raggio = 3,2 × 1027 cm = 1040 Mpc (i Mpc [megaparsec] = 3262 a. l.); volume = 1,4 × 1083 cm3 = 5 × 109 Mpc3; densità media = 10-29 g cm-3; mtmero delle galassie = 1010; massa totale = 1054g.
Osserviamo che il valore della densità media potrebbe essere notevolmente modificato qualora si ammettesse la presenza di materia diffusa intergalattica, come recenti ricerche di F. Zwicky sembrano indicare.
Espansione ed età dell' Universo. - Dopo i lavori di W. Baade sulle distanze extragalattiche, la velocità di recessione delle nebule deve essere portata sulla base dei 290 km/sec per Mpc di distanza di fronte all'antico valore, 560 km/sec., assegnatole da Hubble. Una delle più gravi obbiezioni contro l'interpretazione del "red-shift" come dovuto ad effetto Doppler, basata sul fatto che questa interpretazione conduceva ad assegnare un'età troppo piccola (circa 2 miliardi di anni) all'U., rimane perciò assai indebolita, giacché con l'anzidetta revisione delle distanze quell'età può essere portata da 4 a 7 miliardi di anni, e forse anche più. Al limite di 2 miliardi di anni luce la velocità di recesso è stata valutata a circa 65.000 km/sec, cioè 1/5 di quella della luce. Il nuovo valore dell'età dell'U. va così avvicinandosi a quello della Terra (da 3,4 a 5 × 109 anni), delle famiglie radiattive naturali (da 5 × 109 a 1010), dei meteoriti (da 4,5 a 5 × 109), degli ammassi globulari (da 2 a 5 × 109) e infine a quello che sembra potersi dedurre dall'evoluzione stellare sulla base dei modelli stellari costruiti dopo la scoperta della reazione termonucleare dell'idrogeno quale sorgente dell'energia stellare.
Poiché dal calcolo di tali modelli può valutarsi la percentuale annua di trasformazione dell'idrogeno in elio, il confronto con le percentuali dei due elementi attualmente osservate nelle atmosfere stellari permette di assegnare un ordine di grandezza all'età delle stelle che compongono la Galassia.
Per quanto riguarda poi la questione se la legge di Hubble-Humason, che lega la distanza delle nebulose extragalattiche alla velocità radiale, sia ancora lineare alle grandi distanze, oppure se intervenga, come era stato supposto da qualcuno, un termine quadratico che renda la velocità di recessione minore ad una distanza superiore al mezzo miliardo di anni luce, essa non può dirsi ancora sperimentalmente risoluta, ed occorreranno molti anni di osservazioni prima di poter pronunciare un giudizio fondato su dati di fatto. Una risposta però potrebbe venire da altre fonti, per esempio dalle osservazioni radioelettriche della riga di 21 cm dell'idrogeno. Le osservazioni effettuate in questo campo non sono ancora determinanti; esse tendono a confermare la teoria della espansione, sia per la coincidenza della velocità di recesso della nebula dedotta radioelettricamente con quella dedotta spettroscopicamente, sia per la riscontrata proporzionalità dell'effetto di spostamento della riga spettrale con la lunghezza d'onda (otticamente misurato con le righe del calcio ionizzato di 3.933 e 3.968 Å e radioelettricamente con la riga di 21 cm dell'idrogeno). Ma non è d'altra parte impossibile pensare alla costruzione di radiotelescopî maggiori di quelli esistenti; si stima che con un paraboloide di 180 m di diametro (uno strumento del genere è in progetto negli S. U. A.) sia possibile misurare l'effetto Doppler su galassie situate a 2,5 miliardi di anni luce, per fotografare lo spettro delle quali occorrerebbe un telescopio con specchio di non meno di 40 m di diametro.
La distanza D di una nebulosa extragalattica, che presenti uno spostamento relativo δ = Δλ/λ della lunghezza d'onda λ di una riga spettrale, è data dalla relazione di Hubble generalizzata:
essendo c la velocità della luce in parsec/sec e hs un coefficiente dipendente dalla grandezza assoluta M che si assegna alla nebulosa secondo la tabellina seguente (G. Mc Vittie). Il valore negativo del termine quadratico in δ
starebbe ad indicare che l'espansione tende a ritardare col crescere del "red-shift". Osserviamo come un'incertezza nella assegnazione di M dell'ordine di quella della tabellina possa già portare, per un δ dell'ordine di 0,20, una indeterminazione in D da 150 a 240 Mpc (corrispondenti circa a 500 ÷ 800 milioni a. l.). Oltre questo valore del "red-shift" la formula non può essere accettata senza gravi riserve; per δ > ~ 0,23 (valore che rende massimo D), la distanza comincerebbe addirittura a decrescere coll'ulteriore aumento del "red-shift", ciò che sta a indicare la necessità di prendere in considerazione, nella formula citata, termini in d di ordine superiore al secondo. Ma su questo punto l'osservazione non è in grado di fornire dato alcuno.
Osserviamo infine che il problema delle distanze cosmiche su larga scala è complicato dalle conclusioni alle quali giunge la relatività, ristretta e generale. Nello spazio-tempo pseudo-euclideo della relatività ristretta (o in quello non euclideo della relatività generale) distanze e tempi dipendono dalle circostanze delle misure, essendo queste ultime affette dalle velocità relative dei sistemi di riferimento rispetto ai quali esse vengono eseguite. Ne consegue che, di fronte ad uno spostamento δ osservato della riga spettrale, differenti possono essere i modi di correlazione di esso con la distanza, la cui definizione, dipendendo da una operazione fisica, può essere diversa da caso a caso, e differenti appaiono perciò i risultati in correlazione col "red-shift". A rigore, una relazione tra distanza e "red-shift" ha senso soltanto se si precisa l'operazione con la quale si intende definire la prima di queste due entità. Così nella formula di Hubble, la distanza va intesa come quella relativamente alla quale l'intensità luminosa di una sorgente sta in rapporto inverso a D2.
Ritornando alla questione dell'età dell'U. dedotta dalla espansione, essa suole essere comunemente assunta dagli astronomi come l'inverso della costante h1 della formula di Hubble, cioè tra i 4 e i 7 miliardi di anni. Anche questa interpretazione va presa con le dovute riserve, giacché essa presume come costante nel passato la velocità di recessione delle galassie; ipotesi, questa, che non trova una sufficiente giustificazione teorica.
Nuove vedute cosmologiche. - Ogni teoria cosmologica moderna deve tener conto di alcuni fatti: 1) l'universale preponderanza dell'idrogeno, che è anche l'elemento chimico più semplice, rispetto a tutti gli altri elementi; 2) l'origine nucleare dell'energia stellare; 3) l'espansione dell'U., che rimane sempre la più plausibile interpretazione del "red-shift", osservato negli spettri delle nebulose extragalattiche; 4) la concordanza delle diverse determinazioni dell'età di diversi oggetti celesti che porta ad assegnare all'U. un'età dai tre ai dieci miliardi di anni (scala corta dei tempi di fronte alla ormai abbandonata scala lunga in auge fino al 1932 circa, la quale assegnava all'U. un'età dell'ordine di mille miliardi di anni); 5) infine, sebbene con qualche riserva, i risultati delle analisi chimiche dei diversi oggetti celesti, che sembrano concordare nella conclusione di una composizione chimica in media uniforme in tutto l'U., ad eccezione del contenuto di idrogeno ed elio nelle stelle, che può variare col grado evolutivo.
Per quanto riguarda le basi teoriche della moderna cosmologia, nessun risultato definitivo è riuscito ancora a modificare, sostanzialmente, i risultati raggiunti tra il 1917 ed il 1931 da A. Einstein, da w. de Sitter, da A. Friedmann e da G. Lemaître. Possiamo anzi dire che l'insieme dei fatti sopracitati tende a confermare le vedute conclusive dell'abate Lemaître, di un U. cioè che, partendo dalla forma di Einstein, tende, espandendosi, a quella di De Sitter.
All'origine, esisteva un nucleo primordiale (proto-universo), formato di protoni ed elettroni, di raggio dell'ordine di 0,1 pc (50 volte circa il diametro attuale del nostro sistema solare) e densità dell'ordine di 107 volte quella dell'acqua. Il proto-universo sarebbe stato costituito, anziché di protoni ed elettroni, da neutroni liberi (G. Gamow), oppure (V. A. Ambartsumyan ed altri autori) da una proto-materia originaria diversa da ogni elemento chimico conosciuto, dalla quale si sarebbero poi formate le particelle elementari oggi esistenti. È stata anzi avanzata l'ipotesi che residui di questa proto-materia esistano ancora in alcune regioni della nostra Galassia, ove nuove stelle verrebbero ancor oggi formandosi (associazioni stellari di tipo O e T). Comunque, a un dato istante (origine della scala dei tempi) avrebbe avuto luogo un evento eccezionale: l'esplosione del nucleo primordiale, con la formazione, nel giro di qualche decina di minuti, degli elementi chimici più leggeri fino al numero atomico 40 circa e nella proporzione attualmente presente nell'U. La temperatura dell'esplosione sarebbe stata, secondo S. Chandrasekhar, dai 5 ai 10 miliardi di gradi.
La rapida espansione, seguita all'esplosione, del proto-universo ridusse rapidamente la densità media fino al punto che l'U. poté configurarsi secondo il modello di Einstein. In questo modello la materia è in equilibrio in uno spazio sferico il cui raggio di curvatura è determinato dalla densità. Si tratta però di un equilibrio instabile sotto l'azione di due forze: una attrattiva gravitazionale, che agisce in ragione inversa del quadrato della distanza, l'altra repulsiva che opera invece in ragione diretta della distanza stessa. Esiste un valore critico μ della densità per il quale le forze antagoniste si fanno esattamente equilibrio; il raggio di curvatura R dell'U. è allora dato dalla relazione:
f essendo la costante attrattiva. È appunto durante la prima fase di espansione, quella che portò la densità media dell'U. al valore critico di un universo di Einstein, che si sarebbero formate, per condensazioni locali, le galassie e le stelle, ad un'epoca che può presumersi dai 3 ai 4 miliardi di anni fa. Da quel momento, una ulteriore espansione cominciò a determinare una crescente diminuzione della densità media, con prevalenza sempre maggiore della forza repulsiva. Il modello dell'U. tende perciò ad avvicinarsi sempre più al modello di de Sitter, che è un U. privo di materia. Nella fase attuale, per una densità media dell'ordine di 10-29 gr cm-3, il raggio di curvatura sarebbe dell'ordine di 1010 anni luce.
Lo schema evolutivo ora accennato rende conto abbastanza bene di diversi fatti sperimentali, ma fallisce nella spiegazione della formazione degli elementi chimici più pesanti. Su questo punto cruciale sono state prospettate diverse ipotesi; l'idea più semplice è quella di supporre ancora maggiore la densità del proto-universo, addirittura la massima possibile, che si potrebbe ottenere allorché i nuclei atomici fossero portati a contatto l'uno con l'altro. Il valore di tale densità è I0I2 volte quella dell'acqua, e l'intero U. avrebbe dovuto essere ridotto ad una sfera di raggio pari a quella del sistema solare. Secondo altri autori, invece, gli elementi più pesanti si sarebbero formati in seguito nell'interno delle stelle per eventi eccezionali, quali le esplosioni delle supernovae. Si tratta però di un campo ove, fino ad oggi, si hanno pochissimi elementi per un giudizio obbiettivo.
Questo schema evolutivo dell'U., sebbene tracciato sulla base di fatti e congetture plausibili, pure presenta il punto debole di assumere come postulato una fase iniziale, che esperienze eseguite nello stato presente non permettono in nessun modo di controllare e tanto meno di oltrepassare. È naturale perciò che da parte di taluni autori vi siano stati tentativi in più direzioni di prospettare schemi evolutivi diversi, nei quali un inizio e una fine dell'U. non fossero necessarî, sia per un succedersi a cicli delle ere cosmiche, sia per una evoluzione continua. Sebbene nessuno di questi schemi possa dirsi fino ad oggi suffragato da argomenti sperimentali di sufficiente consistenza, pure non può negarsi che essi rispondano ad una esigenza intima del pensiero e costituiscano uno stimolo continuo verso una maggiore comprensione del mondo della natura.
In particolare sono da segnalare i tentativi (ricollegantisi a studî di P. A. M. Dirac e di P. Jordan) di H. Bondi, T. Gold e F. Hoyle, di costruire modelli di U. di massa variabile col tempo. In questi modelli la massa è crescente e decrescente la costante gravitazionale. Tentativi (E. Teller) di provare sperimentalmente la variazione della costante gravitazionale non hanno portato però a conclusioni attendibili.
Questi modelli mirano, essenzialmente, ad evitare la necessità di uno stato iniziale e uno finale nell'U.; la introduzione continua di materia, oltre che compensare la rarefazione prodotta dall'espansione (in modo che, in media, l'U. rimanga invariato nel tempo), compenserebbe anche la degradazione termica, ripristinando continuamente il valore primitivo dell'entrop ia.
Sulla via maestra dell'unificazione relativistica dei principî della fisica e nel campo della cosmologia vanno segnalate le ultime ricerche di A. Einstein sulla teoria del campo unificato (v. unitarie, teorie relativistiche in questa App.). Infine va ricordato il tentativo di L. Fantappiè di una relatività nella quale, anziché modificare (come nella relatività generale) l'elemento lineare ds in modo da passare da uno spazio-tempo pseudo-euclideo a uno riemanniano, si indaga se non sia prima opportuno perfezionare il gruppo delle trasformazioni di Lorentz in un nuovo gruppo che lo contenga come un caso limite (così come il gruppo di Lorentz perfeziona e contiene a sua volta il gruppo di Galileo). Il gruppo di Fantappiè che si ottiene è a 10 parametri e deve operare in uno spazio a 4 dimensioni; esso risulta un gruppo semplice e non può essere a sua volta caso limite di altri gruppi a 10 parametri operanti in spazî a 4 dimensioni, donde il nome di gruppo finale e di relatività finale alla teoria che ne deriva. Nel compiere il passo che doveva condurlo alla relatività generale, Einstein anziché insistere sull'idea del gruppo, preferì ricercare una espressione più generale del ds e quindi dello spazio-tempo. Al contrario, Fantappiè parte dalla constatazione che in ogni processo di unificazione della fisica quel che conta è il gruppo base, che assicura l'invarianza delle leggi fisiche e che deve bastare a definire implicitamente tutti i caratteri essenziali del nostro U. Il problema della unificazione dei campi fisici si riduce perciò alla ricerca del gruppo base di più estesa validità. Tentativi di dare un contenuto fisico ai risultati del Fantappiè appaiono assai promettenti.
Bibl.: Handbuch der Physik, vol. LIII (Astrophysik, IV: Sternsystem), Berlino 1959, in particolare gli articoli di B. Lindblad (Galactic dynamics); J. H. Oort (Radio-frequency studies of galactic structure); B. Y. Mills (Radio-frequency radiation from external galaxies); F. Zwicky (Clusters of galaxies); G. C. McVittie (Distance and time in cosmology); O. Heckmann e U. Schuking (Newtonsche und einsteinsche Kosmogonie). Vedi inoltre: W. Baade, in Astroph. Journal, C (1944); P. Couderc, L'expansion de l'Univers, Parigi 1950; A. Einstein, Il significato della relatività, trad. it., Torino 1950; G. Arcidiacono, La teoria degli Universi fisici, Roma 1951; L. Fantappiè, I fondamenti gruppali della fisica, in Rendiconti circolo matematico di Palermo, 1950; id., Su una nuova teoria di relatività finale, in Rendiconti Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1954, n. 5; J. L. Pawsey e R. N. Bracewell, Radio astronomy, Oxford 1955; H. Shapley, The inner metagalaxy, New Haven 1957; C. W. Allen, Astrophysical quantities, Londra 1955; R. H. Brown, A. C. B. Lovell, The exploration of space by radio, Londra 1957; F. Zwicky, Morphological astronomy, Berlino 1957; Radioastronomy: Symposium n. 4 of the I. A.U., Cambridge 1957; Stellar populations, in Proceedings of the Conference sponsored by the Pontifical Academy of Science, a cura di D. J. K. O'Connel S. J., Osservatorio Vaticano, Roma 1958; Paris Symposium on radio astronomy, Stanford (S. U. A.), 1959; F. Hoyle, Frontiers of astronomy, Londra 1958.