universale e particolare
Il tutto e la parte
La distinzione tra un’idea o una cosa universale e un’idea o una cosa particolare, intuitiva nel linguaggio corrente, pone non pochi problemi nella riflessione sulla logica, sulla matematica, sulla conoscenza scientifica, sulla morale. Dato un insieme di numeri, o una figura geometrica, si può distinguere un numero o una figura che è parte dell’insieme. Nella società si distingue un singolo uomo dal gruppo di cui è parte o dall’intero genere umano. In senso morale, si parla di valori universali in opposizione all’interesse particolare
L’antitesi tra universale e particolare ha dato luogo a innumerevoli problemi tra i logici e i matematici, che hanno discusso la relazione fra il tutto e la parte. Ma anche in campo morale questa antitesi è stata spesso utilizzata: per esempio ci si richiama a valori universali ogni volta che si difende la tolleranza religiosa contro l’intolleranza delle varie confessioni, o si fanno proteste contro la pena di morte vigente in molti Stati.
Nell’analisi dei fenomeni sociali si contrappongono l’esistenza e il comportamento del singolo a quelli del gruppo di cui è parte o dell’intero genere umano (l’insieme di cui è membro). Nell’italiano antico un individuo privato si definiva «un particolare», e in francese si dice tuttora un particulier. Nel 15° secolo Francesco Guicciardini distingueva «le cose private e particolari» da quelle «pubbliche o universali». È rimasta proverbiale, come segno di un’epoca e di una mentalità, la sua massima che raccomanda di curare il proprio «particolare», cioè di anteporre oculatamente la sfera dell’interesse privato a quella dell’interesse pubblico.
Socrate argomentava sotto i portici di Atene distinguendo i concetti universali dai concetti particolari: la giustizia in sé e le singole cose giuste, l’umanità e i singoli uomini, e così via. Platone, che lo presentò come protagonista nei suoi dialoghi, aggiunse che le idee universali sono pure forme delle cose, enti simili ai numeri e alle figure della geometria: la mente umana li intravede come ombre riflesse sul fondo di una caverna dal regno supremo della verità.
L’esistenza separata delle idee universali platoniche è all’origine di ogni successiva forma di idealismo.
Aristotele era incline all’empirismo: nel suo Organon, cioè gli scritti di logica premessi a tutta l’enciclopedia del sapere, formulò una specie di paradosso. Se vogliamo conoscere una singola cosa dobbiamo anzitutto vederla, sentirla, toccarla, e non c’è dubbio che la percezione sensibile di un oggetto – la singola sostanza – sia il punto di partenza di ogni conoscenza più generale. Ma, d’altra parte, come si può conoscere in senso proprio un essere particolare e dargli un nome – poniamo, un singolo vivente, un delfino, un uomo – senza distinguerlo da tutti gli altri esseri particolari? È dunque necessario collocare l’individuo entro un preciso quadro di riferimento noto in anticipo, ossia avere già in mente certi concetti universali, come la classe degli ‘esseri viventi’, e la distinzione dei singoli generi e specie, come i mammiferi, in cui rientrano sia il genere umano (i bipedi ‘implumi’), sia la specie acquatica dei delfini, ben distinta dai pesci.
Come si connette, allora, la percezione di una cosa singola a un concetto universale e si pronuncia un giudizio, sintesi di un soggetto particolare e di un predicato universale (per esempio «Socrate è uomo»)? La conoscenza dimostrativa non si ottiene attraverso la sensazione: non è infatti possibile percepire l’universale presente in tutti gli oggetti, cioè un elemento non percepibile, perché se fosse percepibile non sarebbe universale. Donde il rompicapo: da dove proviene il concetto universale? I filosofi medievali discussero per secoli il ‘problema degli universali’, chiedendosi se questi fossero enti a sé stanti, prima delle cose (ante rem), o inclusi nelle cose (in re), o astrazioni mentali (post rem).
In età moderna, gli empiristi hanno concepito gli universali come schemi generali ricavati per induzione dalla ripetizione di esperienze particolari; gli idealisti hanno preferito, con Platone, considerarli assiomi indimostrabili, categorie o princìpi supremi della conoscenza; ma non mancano varie soluzioni intermedie tra le due tesi estreme.