Una storia dei confini mobili: santi e culti fra universale e particolare
Dal punto di vista cronologico la storia della santità è caratterizzata da un’accentuata diacronia e dalla dialettica fra persistenze e innovazioni, con interessanti forme di circolarità, testimoniate dai periodici revival dei culti dei martiri antichi, come pure dalle sostituzioni o sovrapposizioni, per impulso della pressione esercitata da specifici gruppi (ordini religiosi o comunità ecclesiastiche), volte a rispondere via via alle nuove esigenze della società.
Dal punto di vista geografico il culto dei santi vive della dialettica fra universalità, fondamento del concetto teologico di santità e particolarismi, determinati dal radicamento territoriale in vita, e soprattutto in morte, di ogni santo. Questa dialettica è confermata dalla storia del culto liturgico, che si evolve dai calendari delle singole Chiese proprie dei primi secoli del cristianesimo verso una sempre maggiore universalizzazione a seguito del processo di centralizzazione della Chiesa romana, che dagli ultimi secoli del Medioevo avoca a sé il riconoscimento ufficiale della santità e dopo il Concilio di Trento codifica il processo di beatificazione e canonizzazione, promuovendo l’elaborazione di un calendario universale (realizzato da Cesare Baronio con il Martirologio romano nel 1584), che tuttavia conserva non poche tracce della persistenza dei culti locali.
La mobilità dei confini che caratterizza la storia dei santi riguarda dunque sia la cronologia sia la geografia di tale storia.
Il radicamento cultuale ha le sue origini in quello che si può definire come lo spazio della santità: il rapporto, testimoniato nel corso dei secoli dalle fonti agiografiche, fra esperienza religiosa e luogo scelto da ogni santo per vivere il suo percorso di perfezione. I luoghi sono strumento della santità nel senso che mettono alla prova l’eccezionalità spirituale e sono a loro volta oggetto della santità, riplasmati e trasformati dalla presenza in vita e in morte del santo. Dio avrebbe diviso il mondo fra ‘medici eccellenti’, operanti attraverso il potere insito nelle loro reliquie, secondo un testo agiografico del 5° secolo. Ogni chiesa e ogni monastero venera il proprio santo fondatore, ‘presente’ nelle sue reliquie a fondamento della comunità in senso materiale e simbolico.
Il culto per il santo patrono cittadino è l’espressione più antica e persistente del rapporto fra il santo e il luogo in cui ha versato il suo sangue e di cui spesso è stato anche vescovo, o che ha onorato con la sua vita esemplare e ha protetto dai pericoli spirituali e materiali. Questa devozione al santo patrono caratterizza le città italiane fin dall’età tardoantica e interagisce nel corso dei secoli con la loro storia istituzionale, politica e sociale, oggetto di processi di integrazione o, più raramente, di sostituzione, e persiste ancora, trovando espressione costante nella liturgia ufficiale, come pure nelle manifestazioni della religiosità popolare e nelle feste patronali celebrate in tutti i comuni, anche i più piccoli, assumendo talvolta un eccezionale rilievo turistico-religioso, che supera largamente i confini della città, della diocesi e della regione: la processione con la celebre ‘macchina’ di santa Rosa a Viterbo può essere presa come esempio fra i moltissimi.
Ma la spazializzazione dei culti assume nuove dimensioni, in relazione alla formazione di più ampi contesti territoriali, concorrendo, dalla fine del Medioevo fino all’età contemporanea, alla costruzione di una geografia sacra funzionale ai nuovi assetti territoriali: regionali, nazionali, sopranazionali.
Il panorama religioso dell’Italia si è straordinariamente arricchito per la presenza di molteplici confessioni. In questo contesto il termine santità può assumere diverse declinazioni, su cui è opportuno richiamare preliminarmente l’attenzione. In termini generali la santità può essere definita un’esperienza religiosa che tende all’unione con il divino nel superamento dei limiti della condizione umana. La storia delle religioni offre una vasta gamma di forme di ‘santificazione’ e di ‘divinizzazione’, cui si attribuiscono poteri di mediazione spirituale e materiale fra l’uomo e Dio. Il pantheon greco e quello romano si presentano ricchi di dei, eroi, demoni capaci di intervenire costantemente nella realtà umana. Quanto al monoteismo ebraico, pur riservando a Dio l’attributo della ‘santità’, intesa come separatezza e inaccessibilità, contempla figure di mediatori della parola e del potere di Dio nel corso della sua storia (rabbī, «il maestro»; saddiq, «il giusto»; hakham, «il saggio»). Anche il monoteismo islamico prevede per l’uomo forme di santificazione, largamente diffuse dal Medio Oriente all’Africa settentrionale nel corso di tutti i secoli, che hanno la loro espressione più significativa nella mistica maschile e femminile, e prevedono anche forme cultuali e devozionali nei luoghi santificati da presenze cui in vita era stata riconosciuta la funzione di guida spirituale e di protezione sociale (Saints et sainteté dans le christianisme et l’islam. Le regard des sciences de l’homme, éd. N. Amri, D. Gril, 2007).
Proprio il confronto con le altre religioni monoteiste conferma come il cristianesimo abbia strutturato fin dalle origini il culto dei santi servendosi di una molteplicità di strumenti: teologia, liturgia, agiografia – racconto della vita e dei miracoli compiuti in vita e in morte dal santo –, procedendo poi dal Medioevo con il controllo istituzionale, sempre più accuratamente formalizzato nel corso dei secoli dalla Chiesa cattolica. Si può dire che le esperienze individuali, le esigenze esistenziali, le pratiche devozionali siano state inserite in un orizzonte collettivo, in cui si fondono storia, mito e rito. Realtà e immaginario hanno costruito nel corso dei secoli un pantheon diversificato, capace cioè di rispondere a esigenze diverse di individui e di comunità, come testimoniano l’agiografia, l’iconografia, il folclore (Boesch Gajano 1999).
La santità si presenta nel passato e nel presente come frutto di una costruzione strutturata su tre livelli: esperienza religiosa, consenso sociale, riconoscimento ufficiale. Non mancano tuttavia le variabili. Un’esperienza religiosa, considerata eccezionale per la pratica delle virtù e i miracoli a essa attribuiti, di conseguenza avvertita come protettiva in senso sia spirituale sia materiale e quindi oggetto di una spontanea venerazione, può non ottenere subito il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa, sancito dall’iscrizione del nome del santo nel calendario liturgico. La partecipazione popolare al momento della morte di Caterina da Siena nel 1380 o di Benedetto Giuseppe Labre nel 1783 – quando i romani gridavano «è morto il santo» – o di Giovanni Paolo II – quando la folla gridava «santo subito», mostra come lo spontaneo consenso popolare non abbia effetti immediati sul riconoscimento ecclesiastico. Caterina da Siena dovette attendere fino al 1461 e l’ascesa al trono pontificio del senese Pio II per la sua canonizzazione; Benedetto Giuseppe Labre fu beatificato nel 1860 e canonizzato nel 1881; più rapido, ma rispettoso del normale iter procedurale, il riconoscimento nel caso di Giovanni Paolo II, che si è concluso nell’aprile 2014. Si può dunque parlare di una santità ‘vissuta’, di una santità socialmente ‘riconosciuta’, come pure di una santità ‘negata’ per lungo tempo, come nel caso di Ildegarda di Bingen o di Girolamo Savonarola, o per sempre, come avvenuto per le tante figure soprattutto femminili, la cui eccezionalità spirituale è stata considerata al confine fra ortodossia ed eterodossia, tra santità e stregoneria, fra carità e ciarlataneria, ed è spesso incorsa addirittura nella pena capitale come nel caso di Margherita Porete, morta bruciata a Parigi nel 1310, o di Giovanna d’Arco, morta sul rogo nel 1431, oggetto di un tardivo processo di canonizzazione conclusosi nel 1920, trasformata nell’età del nazionalismo in simbolo della patria.
La storia della santità richiede dunque attenzione per ognuno dei tre momenti: quello del ‘vissuto’, quello della società – intesa come comunità di fedeli o come comunità strutturata, ordine o confraternita, luogo di costruzione della fama di santità che si trasforma in ‘gruppo di pressione’ ai fini del riconoscimento ecclesiastico –, e infine quello della sanzione ecclesiastica. Proprio la progressiva codificazione delle norme per il riconoscimento ecclesiastico ha messo ancor più in rilievo la complessa realtà sottesa al fenomeno indicato con il termine di santità (Woodward 1991).
Dal 12° sec. la Chiesa romana aveva infatti proceduto all’elaborazione dei criteri atti a individuare la ‘vera’ santità e a proclamarne l’esemplarità, mettendo poi a punto, come risposta alle critiche della Riforma, sempre più precise definizioni normative: nel 1588 Sisto V aveva istituito la Sacra congregazione dei riti, nel 1625 Urbano VIII emanava nuovi decreti, seguiti nel 1634 dalla costituzione Coelestis Hierusalem, che sancirono i due livelli della beatificazione e della canonizzazione, l’accertamento dell’ortodossia del ‘candidato’, il concetto di eroicità delle virtù. Questo sviluppo giuridico e istituzionale fu accompagnato dai progressi di un’erudizione, dalla quale nacque una scienza specifica per lo studio della santità e del culto dei santi, l’agiografia critica. I frutti maggiori di questo impegno furono il Martirologio romano di Baronio, pubblicato una prima volta nel 1584 e di nuovo nel 1586, gli Acta sanctorum editi a partire dal 1643 da un gruppo di gesuiti belgi guidati da Jean Bolland (1596-1665) – la Société des bollandistes è ancora la principale istituzione per gli studi agiografici –, le opere dei monaci dell’abbazia di Saint-Maur, il cui più illustre esponente fu Jean Mabillon (1632-1707), fino ad arrivare alla grande codificazione storica e giuridica della santità costituita dal De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione di Prospero Lambertini (1675-1758), divenuto papa Benedetto XIV nel 1740, pubblicata fra il 1734 e il 1738.
A regolamentare nuovamente le procedure interverranno le frequenti modifiche di età contemporanea: nel 1930 con Pio XI, poi nel 1948 con Pio XII, nel 1969 quando Paolo VI istituì la Congregazione per le cause dei santi, e nel 1983 quando Giovanni Paolo II con la Divinus perfectionis magister abrogò le norme precedenti e con il Decretum de servorum Dei causis stabilì che la causa venisse introdotta da un postulatore, dopo cinque anni e non più tardi di cinquanta dalla morte del ‘candidato’ – per diminuire lo scarto cronologico che vanificava il ruolo dei testimoni diretti –, presso il vescovo territorialmente competente per l’indagine sulla vita, gli scritti, i miracoli. Alla beatificazione, procedimento preparatorio con valore concessivo del culto pubblico, fa seguito la causa per la canonizzazione che si svolge nella Congregazione per il culto divino, nella quale opera un collegio di relatori per la preparazione della positio, contenente documenti e commenti, il promotore della fede, l’antico ‘avvocato del diavolo’, i consulenti medici. La proclamazione definitiva spetta al pontefice.
La normativa ha previsto un riconoscimento a posteriori per i tanti santi oggetto di culto fin dalle origini del cristianesimo. Gli apostoli erano stati i primi a rendere testimonianza della resurrezione del Signore fino al sacrificio della vita: da allora il termine martys, ‘testimone’, acquisisce il significato di ‘morto per la fede’. Il culto dei martiri gode di un successo inesauribile nel corso dei secoli fino ai tempi più recenti e si carica di valenze ‘militanti’, diviene strumento di propaganda, emblema di lotta, modello generatore di ulteriori martiri; nello stesso tempo proprio la sua presenza ‘trasversale’ in tutte le confessioni dà al martirio anche una valenza ‘ecumenica’. Ma la rilevanza antropologica e simbolica dell’effusione del sangue fuoriesce largamente dai confini del cristianesimo: tutte le grandi ideologie hanno i loro eroi, che nella morte ricevono il sigillo della loro grandezza (Boesch Gajano 2006). La stessa morte violenta può trasformare la vittima in martire, come prova il caso di Maria Goretti (1890-1902).
Anche se la stagione dei martiri non può mai dirsi conclusa, altre tipologie della santità si succedono nel corso della storia del cristianesimo: una storia lunga (Benvenuti, Boesch Gajano, Ditchfield et al. 2005), che è necessario ripercorrere sia pur brevemente nei suoi lineamenti essenziali, perché segna profondamente la storia delle città e delle campagne dell’Italia fino all’età contemporanea, anche in presenza di sempre nuove esperienze religiose. Finita la stagione delle persecuzioni si sperimentano forme di martirio sine cruore, quelle proprie della penitenza, nelle sue diverse espressioni. L’istituzionalizzazione della religione cristiana comporta l’emergere di una categoria, che viene definita in termini generici come quella dei confessori: in età tardoantica e altomedioevale predominano le figure di vescovi, che in vita e dopo la morte segnarono la storia di quasi tutte le città medievali italiane, cui si affiancano fondatori e fondatrici delle molte congregazioni sorte dal ceppo benedettino; poi dalla fine del 12° sec. i prestigiosi fondatori dei nuovi ordini mendicanti, Francesco (1182 ca.-1226) e Domenico (1172-1221), canonizzati rispettivamente nel 1228 e nel 1234, e ancora i tanti membri di quegli ordini, che hanno goduto già in vita della fama di santità, riconosciuta in genere in tempi rapidi dalla Chiesa: da Antonio da Padova (1195-1231), canonizzato già nel 1232, a Bonaventura (1217-1274), la cui canonizzazione giunse solo nel 1482, poi agli osservanti Bernardino da Siena (1380-1444), canonizzato nel 1450, e Giovanni da Capestrano (1386-1456), canonizzato solo nel 1690, sul versante francescano, al grande teologo Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), ai predicatori Pietro da Verona (m. 1252) e Vincenzo Ferrer (1350-1419) su quello domenicano, canonizzati rispettivamente nel 1323, nel 1253 e 1455.
Ancora in ambito urbano, con larga prevalenza dell’Italia centrale e settentrionale, fra 12° e 14° sec. si assiste all’esplosione della religiosità femminile, caratterizzata dall’esperienza visionaria, mistica e profetica, di cui sono protagoniste Chiara d’Assisi (1193-1253), Margherita da Cortona (1247-1297), Chiara da Montefalco (1268-1308), Caterina da Siena (1347 ca.-1380). All’eccezionalità della loro esperienza non corrispose, con l’eccezione di Chiara d’Assisi, canonizzata già nel 1255, un rapido riconoscimento ecclesiastico: se per Caterina si dovette attendere il 1461, per Margherita da Cortona e Chiara da Montefalco si deve attende fino al 19° secolo. La religiosità femminile, vissuta in forme comunitarie, ma più spesso in forme individuali, spontanee, per così dire autogestite, era destinata a incontrare un persistente successo sul piano sociale, ma a suscitare sempre maggiori sospetti nella gerarchia ecclesiastica. Soprattutto dopo il Concilio di Trento, la Chiesa, tramite l’Inquisizione, mise in atto una politica di controllo e di repressione contro forme di spiritualità accusate di simulazione. Emblematici i due casi napoletani di Alfonsina Rispoli e di Orsola Benincasa, la prima condannata alla prigione a vita nel 1592 dopo la confessione dei suoi mistici colloqui, la seconda, dotata di spirito profetico, che, salvatasi dal processo inquisitoriale, esercitò largo influsso sulla società napoletana fino alla morte avvenuta nel 1618.
Protagonisti della vita della Chiesa durante la Controriforma, come pure nei secoli successivi, furono i fondatori e le fondatrici di nuovi ordini. Il forte accentramento della Chiesa favorì o meglio impose il loro radicamento in Roma, e fece di Roma, dalla fine del 16° alla metà del 18° sec., il centro propulsivo del loro irradiamento istituzionale. Questo facilitò anche nella maggior parte dei casi una rapida canonizzazione, ancora una volta con l’eccezione di una donna, Angela Merici, fondatrice delle Orsoline, morta nel 1540 e canonizzata tardivamente nel 1807. Si possono ricordare, in ordine cronologico rispetto alla data della morte, i personaggi e gli ordini maggiormente legati alla storia dell’Italia: oltre alla Merici, Gaetano di Thiene, fondatore dei Chierici regolari teatini, morto nel 1547; Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, morto nel 1556; Teresa d’Avila, riformatrice del Carmelo, morta nel 1582; Filippo Neri, fondatore dell’Oratorio e protagonista della vita religiosa romana della fine del Cinquecento, morto nel 1595; Francesco Caracciolo, fondatore dei Chierici regolari minori, morto nel 1608; Camillo de Lellis, fondatore dei Chierici regolari per il servizio degli infermi, morto nel 1614. Nel corso del Settecento troviamo Paolo della Croce, fondatore dei Passionisti, morto nel 1775, Alfonso Maria de’ Liguori, morto nel 1787, fondatore dei Redentoristi, che alla riflessione intellettuale in un confronto-scontro con le idee illuministe unì un’attività missionaria che influenzerà profondamente la religiosità delle campagne dell’Italia centromeridionale. Di questo mondo rurale e pastorale, profondamente segnato dalla sofferenza, fu espressione la religiosità di Gerardo Maiella (1726-1755), anch’egli redentorista, la cui fama di taumaturgo esplose già nel corso della sua breve vita. Nella Roma del Settecento, invece, Benedetto Giuseppe Labre reinterpreta l’antica figura del pellegrino penitente, che si carica, subito dopo la morte avvenuta nel 1783, di nuovi valori religiosi e politici, divenendo simbolo della religiosità tradizionale contro la modernità.
Fra Ottocento e Novecento «la risposta della Chiesa cattolica alle nuove condizioni di vita indotte dalla società industriale comportò la creazione di una fitta rete di enti assistenziali, a favore delle vittime della destrutturazione dei rapporti sociali dovuta all’inurbamento di crescenti masse di popolazione» (R. Rusconi, Una Chiesa a confronto con la società, in Benvenuti, Boesch Gajano, Ditchfield et al. 2005, p. 339). È la stagione della ‘santità sociale’, nella quale l’esperienza caritativa si saldò con quella educativa e pastorale, in forme esistenziali e istituzionali innovative, che coinvolsero uomini e donne. Evidente il radicamento nella realtà sociale e politica del Piemonte negli anni dei fermenti unitari e postunitari di personaggi come: Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842), fondatore della Piccola casa della divina provvidenza, finalizzata all’assistenza agli ammalati; Leonardo Murialdo (1828-1900), fondatore della Congregazione San Giuseppe, promotore delle Unioni di operai cattolici, in particolare in Piemonte e Liguria; Giovanni Bosco (1815-1888), fondatore della Società san Francesco di Sales, finalizzata all’assistenza e all’istruzione dei giovani, che seppe mantenersi in equilibrio fra la Chiesa e lo Stato, secondo la formula ‘cittadini di fronte allo Stato, religiosi di fronte alla Chiesa’; Luigi Guanella (1842-1915), fondatore dei Servi della carità e delle Figlie di santa Maria della provvidenza; Luigi Orione (1872-1940), fondatore della Piccola opera della divina provvidenza. Di una generazione successiva fu il lombardo Carlo Gnocchi (1902-1956), cappellano militare, che si dedicò poi ad alleviare le sofferenze degli invalidi. Queste esperienze così importanti per riaffermare la presenza della Chiesa in una società in trasformazione furono riconosciute prima con l’approvazione delle nuove istituzioni, poi con la canonizzazione dei loro fondatori, ottenuta dopo un periodo di anni variabile, ma generalmente non superiore ad alcuni decenni. Per don Bosco al riconoscimento della santità in vita seguì in tempi rapidi anche il riconoscimento ufficiale con la beatificazione nel 1929 e la canonizzazione nel 1934; più lenta quella di Cottolengo, beatificato nel 1917 e canonizzato poi nel 1934, come don Bosco; anche la beatificazione di Murialdo avvenne dopo qualche decennio nel 1963, seguita poi a breve nel 1970 dalla canonizzazione, entrambe a opera di Paolo VI; mentre Guanella fu beatificato nel 1964 sempre da Paolo VI, don Orione nel 1980 da Giovanni Paolo II e don Gnocchi fu beatificato in sede diocesana dal cardinale Dionigi Tettamanzi nel 2009. In questo panorama si colloca anche, ma con una sua specificità di giovane laico, la figura di Pier Giorgio Frassati (1901-1925), di famiglia laica torinese, divenuto militante cattolico impegnato sul piano sociale e politico in senso profondamente antifascista, beatificato nel 1990.
La religiosità femminile trovò ancora in questi secoli forme originali di espressione. Così nell’Ottocento a Roma, negli anni della Repubblica romana, dell’occupazione francese e della Restaurazione, si collocano le esperienze religiose di due donne laiche: Anna Maria Taigi (1769-1837) unì la vita familiare a un’intensa esperienza spirituale segnata da visioni e profezie apocalittiche, in dialogo costante con le alte gerarchie ecclesiastiche, ma la beatificazione nel 1920 trasformò la sua originale esperienza in quella di esemplare madre di famiglia; Elisabetta Canori Mora (1774-1825), anche lei laica e madre di famiglia, mistica e dotata di spirito profetico sulle vicende politiche che coinvolgevano la Chiesa del tempo, dovette attendere il 1994 per vedere riconosciuta ufficialmente la sua santità, ridelineata, anche nel suo caso, secondo i tratti dell’esemplarità matrimoniale. Sempre a Roma sul versante maschile troviamo, negli anni cruciali della metà del 19° sec., il sacerdote Vincenzo Pallotti (1795-1850), fondatore dell’Unione dell’apostolato cattolico, destinata a combattere l’ignoranza e l’indifferenza religiosa, con l’organizzazione di oratori, scuole serali, università di arti e mestieri: un’attività sociale e caritativa che suscitò opposizioni in vita e rallentò il processo di canonizzazione concluso solo nel 1963.
Alle esperienze dedicate all’attività sociale, che si sviluppa prevalentemente nell’Italia settentrionale in ambiente urbano, e a quelle maturate nell’ambiente romano, dominato dai problemi generali della Chiesa e da quelli peculiari di una realtà degradata, fa riscontro, nella stessa congiuntura politica, l’esperienza religiosa dai tratti accentuatamente penitenziali di Gabriele dell’Addolorata (1838-1862), che, pur all’interno di un ordine (quello dei Passionisti), si legò così strettamente al territorio montano del Gran Sasso in Abruzzo da poter essere assimilato ai tanti eremiti di quella regione (Eremi e luoghi di culto rupestri d’Abruzzo, a cura di E. Micati, S. Boesch Gajano, 1996), di cui divenne infatti santo patrono.
Non è il caso di istituire rapporti di causa-effetto fra ambiente e forme della vita religiosa, tuttavia è concreta la possibilità di ricostruire una geografia della santità, dove a un’Italia urbana e industrializzata si contrappone un’Italia rurale e pastorale. Questa può essere emblematicamente rappresentata da Maria Goretti, il cui assassinio, avvenuto nel contesto di povertà delle paludi pontine, da fatto di cronaca nera fu trasformato in martirio per la difesa della verginità, sancito da Pio XII nel 1945 con la beatificazione e nel 1950 con la canonizzazione, e proposto come modello antitetico alla ‘modernità’ introdottasi nei comportamenti femminili del dopoguerra. Ancora in ambiente rurale è nato e vissuto uno dei santi più famosi del 20° sec., il cappuccino padre Pio da Pietrelcina (1887-1968), che, come noto, ebbe in vita molti critici, riguardo sia ai suoi poteri taumaturgici sia alle sue stimmate, e, malgrado la diffusa fama di santità, dovette attendere il 1999 per la beatificazione e il 2002 per la canonizzazione, fortemente voluta dal pontefice Giovanni Paolo II.
La politica della santità dopo la fine del Concilio Vaticano II continua a privilegiare dal punto di vista tipologico i religiosi, soprattutto i fondatori, ma con un forte aumento percentuale dei laici, in particolare per quanto riguarda le canonizzazioni; dal punto di vista della nazionalità si riscontra una netta riduzione dei santi italiani e un incremento dei santi di altri Paesi europei ed extraeuropei, soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II (F. De Palma, La santità postconciliare: considerazioni statistiche, tipologiche e sociologiche per una storia delle canonizzazioni, in Santi del Novecento, 1998, pp. 49-82). Più difficile individuare, nella molteplicità e nelle diversificazioni di beatificazioni e canonizzazioni, che risentono della sempre maggiore spinta alla mondializzazione della Chiesa, ambiti regionali privilegiati per i nuovi santi.
La documentazione pontificia rispecchia invece a partire dalla metà del 20° sec. un’attenzione progressiva ai patronati territoriali.
La santità nella sua dimensione storica si incardina in uno spazio: urbano o anurbano, naturale o socialmente strutturato. I luoghi sono lo strumento per la costruzione della santità, cui segue il rinnovamento del luogo stesso a seguito della presenza santificante del santo, nel corso della vita e dopo la sua morte. Lo spazio va dunque inteso non tanto come ‘paesaggio’, ma come elemento che interagisce con la scelta spirituale, plasmato e trasformato dalla presenza del santo. La dialettica tra esperienza religiosa e sacralità spaziale, intesa nella dimensione geofisica e in quella mitico-simbolica, ha progressivamente conquistato l’attenzione degli storici (Luoghi sacri e spazi della santità, 1990), con un graduale ampliamento degli ambiti tematici, che coinvolge complessivi progetti religiosi, ecclesiastici e politici, particolarmente evidenti nei momenti di grandi trasformazioni, quali l’età della Controriforma e della Restaurazione, e non si arresta neppure di fronte a confini culturali, come provano felici esperimenti comparatistici, volti alla ricerca non tanto di influssi e imitazioni, quanto piuttosto di aspetti morfologici e funzionali comuni (Lieux sacrés, lieux de culte, sanctuaires, 2000).
Ogni chiesa e ogni monastero venera il proprio santo fondatore, martire, vescovo, abate, capace di assicurare protezione alla comunità, ai beni, ai territori posti sotto la sua giurisdizione. Le reliquie, strumento essenziale della diffusione del cristianesimo in tutte le terre di missione, hanno un potere diffusivo e sacralizzante e sono all’origine di una rete di luoghi sacri, che ha avvolto l’orbis christianus nel corso dei secoli: dalle tombe dei martiri nei cimiteri suburbani delle antiche città romane, ai luoghi di sepoltura di grandi protagonisti della vita religiosa, come Francesco ad Assisi e Antonio a Padova, e ancora in età contemporanea, padre Pio a San Giovanni Rotondo; o ancora luoghi consacrati da reliquie apparse miracolosamente come nel caso di Compostela, dove sarebbero approdate le reliquie di san Giacomo, determinando dal 12° sec. l’exploit di un nuovo santuario, meta di continui pellegrinaggi europei.
Nel panorama complessivo della geografia cultuale l’espressione più antica e duratura del legame che unisce un santo e il ‘suo’ territorio è il culto per il patrono cittadino. Intercessore nei confronti di Dio e protettore efficace degli individui e delle comunità contro i pericoli della malattia, della carestia, della morte, il santo acquisisce fin dall’età tardoantica il titolo e le funzioni di patrono, in analogia con quelle esercitate dal patronus romano nei confronti dei suoi clientes, fossero essi singoli o intere collettività. Esso rimane elemento costitutivo dell’identità di ogni singola comunità, strumento essenziale del rapporto che lega coloro che sono emigrati al luogo di origine. Il culto del patrono, espressione di una scelta antica, raramente sostituito, ma spesso integrato con uno o più copatroni ‘moderni’, è stato assunto dalla storiografia come osservatorio privilegiato per la storia delle realtà sociali e istituzionali che lo hanno promosso e sostenuto nel corso dei secoli.
Fra il 1588 e il 1699, per es., nel Regno di Napoli si verificò un fortissimo incremento dei patronati cittadini, sanciti dalla Congregazione dei riti dopo l’elezione fatta dal populus attraverso i suoi rappresentanti (consilium generale), i notabili (officiales), il clero e il vescovo: in queste modalità si rispecchia la visione gerarchica della società e il bilanciamento fra dimensione ecclesiastica e carattere laico della festa patronale. Il santo patrono delle città più importanti diveniva inoltre lo strumento per l’affermazione del proprio potere sulle zone che esse intendevano controllare, con un processo di dilatazione territoriale del culto all’intera diocesi e alla provincia (J.M. Sallmann, Naples et ses saints à l’age baroque (1540-1750), 1994; trad. it. Santi barocchi, 1996). Il concetto di ‘religione civica’, inteso come l’insieme dei fenomeni religiosi – cultuali, devozionali o istituzionali – nei quali il potere civile gioca un ruolo determinante principalmente attraverso l’azione delle autorità locali e municipali, fino a un’autentica ‘appropriazione’ di valori inerenti la vita religiosa da parte di poteri urbani a fini di legittimazione, di celebrazione e di garanzia del bene pubblico, ha messo efficacemente in evidenza, oltre alla dimensione propriamente religiosa, gli aspetti politici, sociali, culturali di una comunità, considerata nelle sue dinamiche interne, anche nei suoi rapporti con il territorio circostante e con le comunità che insistono su uno stesso territorio (La religion civique à l’époque médiévale et moderne, 1995).
La geografia sacra dell’Italia è disegnata, oltre che dai patronati cittadini, dalla rete dei santuari. Tipologicamente essi sono stati distinti in santuari martiriali, dove si venerano le reliquie di un martire, epifanici, sorti a memoria di una presunta apparizione, infine quelli nati a seguito del ritrovamento di un’immagine sacra. Ma ogni tipologia risulta imprecisa di fronte alla grande varietà di luoghi, funzioni, fruizioni. Vi sono grandi santuari urbani – basti pensare ad Assisi –, santuari legati a medie o piccole comunità, ‘microsantuari’ variamente specializzati. Il rapporto con le istituzioni civili e religiose ufficiali determina il collegamento più o meno stretto con le strutture di inquadramento della società o, invece, una più larga autonomia dal controllo ecclesiastico. L’ubicazione dei santuari e la loro diversa funzione mette in luce alcune scansioni proprie della loro storia: dopo la fase tardoantica e altomedioevale, si individuano nuove forme di spazializzazione nel corso dei secc. 12° e 13° – dovute in particolare agli ordini mendicanti – cui segue un ‘logorio’ dei luoghi di culto, che ripropone il tema della persistenza di forme di sacralità ‘naturale’ e quello della dialettica fra luoghi anurbani e luoghi urbani, fino al più noto e studiato sviluppo dei santuari mariani a partire dal 15° sec., prevalentemente in ambiente naturale. La loro collocazione ‘scardina’ le circoscrizioni ecclesiastiche, supera i confini amministrativi e politici, talvolta può ‘marcare’ un territorio dal punto di vista ecclesiastico e politico. La ‘rete’ dei santuari connette città e campagna e può ‘ridefinire’ i confini geopolitici.
L’interazione fra la geografia sacra e l’organizzazione politico-istituzionale dei territori si rispecchia in una specifica tipologia di fonti, quella delle opere che trasmettono unitariamente, pur con finalità che mutano nel corso dei secoli, ‘insiemi’ di testi agiografici. Dai passionari altomedievali, grandi manoscritti a uso liturgico, si passa nel 13° sec. a leggendari di più ridotte dimensioni per le esigenze della predicazione, di cui l’esempio più famoso è la Legenda aurea del domenicano Jacopo da Varazze (1228 ca.-1298). Il successo editoriale di quest’opera permette di cogliere l’avvio del processo di territorializzazione: il panorama della santità universale proprio dell’originale venne infatti progressivamente arricchito e aggiornato, in particolare nelle molteplici traduzioni nelle lingue volgari, con le vite di santi, le cui vicende e il cui culto erano legati a specifiche realtà ecclesiastiche e politiche. Si tratta di un processo destinato ad accentuarsi in età moderna proprio in relazione alla costituzione di nuovi assetti politici: un imponente fenomeno a scala europea che ‘convisse’ con l’impegno universalistico perseguito dalla Chiesa romana a seguito del Concilio di Trento, di cui fu espressione il Martirologio di Baronio, volto a fornire alla cattolicità un pantheon omogeneo, e che pure non riuscì a sottrarsi completamente a spinte particolaristiche. Per quanto riguarda l’Italia:
A partire dagli ultimi anni del XVI secolo e nel corso del secolo successivo un numero sempre crescente di ecclesiastici diffuso su tutta la penisola si cimentò nella ricerca erudita con l’intento di restituire a porzioni di territorio più o meno vaste lo spessore della storia e della storia sacra in particolare. […] È all’interno di questa temperie culturale che sorgono in tutta Italia raccolte agiografiche a carattere territoriale: il luogo santo, con il suo tesoro soprannaturale, rappresenta l’unità primaria per tale produzione storico/agiografica che si prefiggeva il compito di costruire itinerari devozionali collegando tra loro i punti di una topografia sacra puntigliosamente descritta, intrecciando i confini di città, diocesi, regioni, Stati (T. Caliò, R. Michetti, Un’agiografia per l’Italia: santità e identità territoriali, in Europa sacra, 2002, pp. 147-48).
Le raccolte di vite di santi attestano dunque l’esistenza di ‘regioni’ identificate proprio attraverso l’osservatorio cultuale: fra le numerose raccolte a carattere territoriale, si ricordano, in ordine cronologico di edizione, alcune di quelle esplicitamente dedicate a una ‘regione’: quella di Paolo Regio per il Regno di Napoli (1586), di Silvano Razzi per la Toscana (1593 e 1601), di Girolamo Marafioti (1596) e Giovanni Paolo Gualtieri (1630) per la Calabria, di Ludovico Jacobilli per l’Umbria (1647-61), di Ottavio Gaetani per la Sicilia (1657), di Muzio Febonio per la Marsica (1662), rimasta inedita e ripresa nel 1712 da Pietro Antonio Corsignani nella Reggia marsicana edita nel 1738; e ancora le raccolte ‘piemontesi’ di Guglielmo Baldessano (1543-1611) e di Pier Giacinto Gallizia (pubblicata postuma nel 1756-57).
La dimensione territoriale ha un rapporto dialettico con il contemporaneo progressivo accentuarsi dell’attenzione alla dimensione tendenzialmente unitaria dell’Italia a partire dall’età umanistica, sia pure nella varietà delle sue interpretazioni. Lo testimonia la galleria delle carte geografiche del Vaticano, commissionata da papa Gregorio XIII al matematico e cosmografo domenicano Egnazio Dati, completata nel 1583, dove i santi rivestono «una funzione di baluardo dei territori loro affidati» (cfr. T. Caliò, Il regionalismo agiografico in Italia dalle “sacre istorie” al turismo religioso, in Italia sacra, 2013, pp. 3-24). E ancora il Catalogus sanctorum Italiae di Filippo Ferrari (1613), che attraverso il concetto di ‘patria’, il luogo cioè nel quale i santi hanno vissuto e hanno esercitato il loro ministero papale, vescovile, abbaziale, o il luogo della morte o quello in cui era conservato il corpo, recupera all’Italia una quantità di santi illustri, dai più antichi ai contemporanei (S. Spanò Martinelli, Il “Catalogus sanctorum Italiae” di Filippo Ferrari, in Europa Sacra, 2002, pp. 135-45). E ancora l’Italia sacra (1642-62) di Ferdinando Ughelli, che ricomponeva unitariamente la storia delle diocesi italiane, incarnata, per così dire, nei santi vescovi.
Il panorama della storiografia agiografica del 18° sec. è dominato dal già citato De servorum Dei beatificatione et de beatorum canonizatione del cardinale Lambertini, che, informato all’agiografia critica fondata dai bollandisti, ebbe largo influsso sia sull’erudizione ispirata da interessi cittadini, sia per progetti generali come la revisione critica dell’Italia sacra di Ughelli, sotto la guida di Ludovico Antonio Muratori, che tuttavia fallì, malgrado la statura dello studioso.
Nell’Ottocento il panorama della storiografia propriamente agiografica è stato integrato con una produzione erudita di carattere generale, come quella rappresentata dal Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica di Gaetano Moroni, in 113 volumi (1840-61; indice 1878-79), salutato con entusiasmo dalla rivista dei gesuiti «La civiltà cattolica» come opera che poteva essere contrapposta all’Encyclopédie (1751-72) degli illuministi, e allineata alla grande impresa dei loro confratelli di Bruxelles, gli Acta sanctorum. O al contrario con una produzione di carattere fortemente specialistico, come quella legata alla ricerca storico-archeologica, rivolta soprattutto allo studio dei cimiteri paleocristiani di Roma: fra il 1864 e il 1877 fu pubblicata la monumentale opera La Roma sotterranea cristiana: descritta ed illustrata (1864) di Giovanni Battista De Rossi, che fu all’origine di una fitta serie di studi, che progressivamente coinvolse l’agiografia critica negli anni Novanta e trovò in Pio Franchi de’ Cavalieri (1869-1960) il suo maggior rappresentante nel panorama romano.
Ciò che qui più interessa è che dalla metà dell’Ottocento cominciarono ad affiorare i nessi fra produzione storiografica e processi di costruzione politica nazionale. In questa ottica risulta significativa l’opera Le Chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni (1844-70) del veneziano Giuseppe Cappelletti (1802-1876), partecipe delle vicende politiche dei suoi tempi, fautore nel 1848 dell’annessione di Venezia al Regno sabaudo, rimasto al centro della vita politica e culturale veneziana, autore della Storia della Repubblica di Venezia (1850-55) e della Storia di Padova (1874-75). La sua opera maggiore, dedicata a Carlo Alberto, «amantissimo di storie patrie e devotissimo della Santa Chiesa Cattolica», riprendeva l’idea dell’Italia sacra di Ughelli, ma voleva offrire una storia «che sotto ogni aspetto è tutt’affatto religiosa, una storia patria, anzi una serie di storie patrie, quante furono e sono le Chiese d’Italia», riunendole «secondo l’odierna divisione politica degli Stati italiani» (prefazione a Le Chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, p. 8).
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento si apre una nuova stagione. Per valutarla bisogna in primo luogo fare riferimento al pontificato di Leone XIII (1878-1903), il papa della enciclica Aeterni patris (1879), manifesto della restaurazione tomista, in funzione antimodernista, della Rerum novarum (1891) sul versante della dottrina sociale, e sul versante storiografico della Saepenumero considerantes:
Incoraggiando lo sviluppo degli studi storici, Leone XIII sembrava invitare i cattolici ad assumere senza timore gli strumenti conoscitivi ed i metodi critici del mondo contemporaneo nella convinzione che, lungi dal nuocere alla chiesa, essi avrebbero dato un importante contributo alla sua difesa (D. Menozzi, La Chiesa e la storia. Una dimensione della cristianità da Leone XIII al Vaticano II, «Cristianesimo nella storia», 1984, 5, p. 72).
Numerosi gli studiosi, prevalentemente provenienti dalle file del clero, che perseguirono ricerche sistematiche sulle origini cristiane e sullo sviluppo del cristianesimo in relazione a contesti a dimensione geografica variabile, che è quello che qui interessa valutare. Si colloca in questo contesto il nuovo progetto di revisione critica dell’Italia sacra di Ughelli, elaborato dal gesuita Fedele Savio (1848-1916), che assume una strutturazione geografica regionale – «descrivere una per una le varie regioni italiane», si afferma nella prefazione (p. VII) –, presente anche nel titolo: Gli antichi vescovi d’Italia dalle origini al 1300 descritti per regioni, di cui uscirono solo i volumi relativi al Piemonte (1898-1913) e altri due postumi (1929-32) relativi alla Lombardia. Francesco Lanzoni (1862-1929), dopo un lungo e proficuo percorso nella storia ecclesiastica della sua città, della sua diocesi e delle diocesi limitrofe, affrontava la storia delle diocesi italiane, limitandosi alle origini fino agli inizi del 7° sec. (Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII, 1927). Le parole conclusive dell’introduzione portano la traccia di un’idea unitaria dell’Italia, recuperata proprio attraverso la storia delle origini cristiane segnata dal sangue dei martiri, in parallelo e non più in antitesi con l’unità nazionale recuperata attraverso quelli che lui stesso chiama «i fondatori dell’indipendenza»:
E come gli amatori della patria si commuovono e si esaltano davanti ai monumenti, in cui si leggono i nomi dei fondatori dell’indipendenza, e della grandezza del paese, e dei caduti per la sua gloria, con la data del loro eroico sacrificio, così i cristiani si sentiranno infiammati di ammirazione e di entusiasmo, leggendo i fasti dei nostri antichi apostoli e martiri (p. 91).
Proprio nella fase di tensione dialettica fra unità e particolarismi regionali, all’interno del panorama storiografico segnato dalle Società di storia patria e dalle loro riviste, cominciano ad affacciarsi alcuni profili di santi considerati rappresentativi dei caratteri specifici di alcune regioni: Benedetto e Francesco per l’Umbria nella visione del folignate Michele Faloci Pulignani (1856-1940); Celestino V, celebrato nel 1895 dal «Bollettino della Società di storia patria Anton Ludovico Antinori» come figura simbolo della più profonda natura abruzzese (Italia sacra, 2013).
Dopo la città ogni altro spazio politico-territoriale ha trovato nella scelta di un proprio patrono un elemento identitario.
Le norme attualmente vigenti nella Chiesa cattolica in merito ai patroni prevedono la possibilità di ottenere un patronato per luoghi diversi (nazione, regione, diocesi, città, borgo o villaggio, parrocchia), oltre che per famiglie religiose e per altre forme comunitarie di religiosi o di laici. L’elezione del patrono spetta al clero e ai fedeli o a coloro che si pongono sotto la protezione del santo e avviene «per consultationes seu suffragia sive per petitiones seu subscriptiones», ma deve sempre avere l’approvazione delle competenti autorità ecclesiastiche: il vescovo nel caso di una diocesi, la conferenza episcopale per la provincia ecclesiastica, la regione o la nazione, il Capitolo generale nel caso di una provincia religiosa, mentre per tutti gli altri casi, la competenza è della Santa Sede («Acta apostolicae sedis» [d’ora in avanti AAS], 1973, 65, pp. 276-81). La conferma del patronato spetta alla Sacra congregazione per il culto divino, che, sulla base della documentazione pervenuta, comprendente la richiesta delle autorità locali ecclesiastiche, e se del caso anche civili (relazioni, petizioni, testimonianze), emana un decreto e nei casi principali anche un breve apostolico, a seguito del quale è consentita la celebrazione liturgica, distinta in diversi gradi di solennità, da quella riservata al patrono cittadino, a quella riservata a patroni di territori più ampi, o a un patrono di particolare rilevanza.
Queste norme si collocano in una linea di continuità con la prassi canonica di epoca post-tridentina. Urbano VIII nel 1630 emanò un decreto sull’elezione dei santi patroni, affidandone la conferma alla Sacra congregazione dei riti: il decreto rientrava nel quadro giuridico elaborato dal pontefice in merito alle canonizzazioni e al culto dei santi, e risentiva della stessa preoccupazione di controllo dell’identità di ciascun santo, il cui culto doveva essere stato approvato dalla Chiesa nella sua forma più piena: i beati erano, secondo queste disposizioni, esclusi dal patronato, contrastando una prassi diffusa. Qui interessa sottolineare l’attenzione alle diverse dimensioni territoriali del patronato e ai relativi ‘impresari’ del culto: per la città l’elezione spettava al Consiglio generale con il consenso del vescovo e del clero; anche per i regni l’elezione spettava alle singole comunità (populus singularum civitatum provinciae), ma non ai rappresentanti del regno, a meno che non ne avessero avuto speciale mandato e sempre con il consenso del vescovo e delle comunità cittadine. L’intento era quello di «porre fine a elezioni che assecondavano indiscriminatamente preferenze e interessi meramente individuali» (Fusco 2009, p. 425).
La storia del patronato dei santi aveva seguito l’evoluzione delle entità politico-territoriali tra Medioevo ed età moderna (Patriotische Heilige, 2007). L’ideologia dell’Impero cristiano aveva portato a partire dal 10° sec. alla promozione di culti dinastici, fra cui molti esponenti della ‘nuova’ dinastia degli Ottoni. Non per caso Federico Barbarossa nel pieno del conflitto con il papa aveva imposto la canonizzazione di Carlomagno, proclamata dall’antipapa Pasquale III nel 1165. A questa fase aveva fatto seguito quella dei ‘re nazionali’: a partire dall’11° sec. le nuove monarchie dell’Europa centrale e settentrionale avevano fondato infatti sui loro sovrani neoconvertiti, propagatori e talvolta martiri della fede, la loro identità dinastica e insieme territoriale (G. Klaniczay, Holy rulers and blessed princesses. Dynastic cults in medieval central Europe, 2000): Venceslao di Boemia, vissuto agli inizi del 10° sec., Olaf II di Norvegia (995-1030), Stefano I d’Ungheria (975 ca.-1038), Canuto IV di Danimarca (1040 ca.-1086), Eric IX di Svezia (1120-1160). Negli altri regni dell’Europa occidentale vi sono Edoardo il Confessore, morto nel 1066, ma il cui culto si sviluppò nel secolo successivo, e Luigi IX di Francia canonizzato nel 1297. Per l’Italia si ha un fenomeno comparabile nelle ‘pie consigliere dei principi’ del Quattrocento (G. Zarri, Le sante vive, 1990, nuova ed. 2000, pp. 51-85), e nei secoli successivi nei ‘santi dinastici’ dei Savoia (P. Cozzo, Política y devoción en la corte de los duques de Saboya: el papel estratégico de la hagiografía entre los siglos XVI-XVIII, in La corte en Europa: politica y religion (siglos XVI-XVIII), a cura di J. Martínez Millán, M. Rivero Rodríguez, G. Versteegen, 2012, pp. 957-72).
I patronati territoriali si moltiplicarono nel corso dell’età moderna, rispondendo a esigenze di prestigio e potere, che giocarono un ruolo decisivo nei processi di beatificazione e canonizzazione, così da superare anche i divieti canonici come quello relativo all’elezione di beati al ruolo di patroni. È questo il caso della beata Osanna Andreassi, considerata patrona ab immemorabili dell’intero Ducato di Mantova. È ancora questo il caso di Stanislao Kostka, dichiarato nel 1674 patronus principalis del Regno di Polonia e del Granducato di Lituania, quando era ancora beato – la canonizzazione avrebbe dovuto attendere fino al 1726 –, a fianco dei patroni medievali Adalberto e l’omonimo Stanislao. Ancora maggiore estensione assunse il patronato di santa Rosa da Lima, che, pur ancora solo beata, Clemente IX nel 1670 elesse patrona di Lima e del Regno del Perù, estendendo nel 1671 – a seguito della sua canonizzazione e in virtù della grande devozione di cui era oggetto – tale patronato a tutte le province, le isole, e le regioni della terraferma d’America, alle Filippine e alle Indie (Fusco 2009).
La Francia alla fine dell’Ottocento plasmò la santità di Giovanna d’Arco, con un’operazione di ‘recupero’ nazionalistico che portò alla sua canonizzazione. Il franchismo ha avuto nuovi martiri, ma ha anche rimodellato figure del passato adattandole alle necessità politiche del presente: così la grande mistica Teresa d’Avila può divenire la santa nazionale, incarnazione dei valori più puri della tradizione spagnola e cristiana, aggiungendosi al culto per san Giacomo, il santo della Reconquista. La coincidenza fra costruzioni politiche e richiesta di un patronato come strumento di unità territoriale e di identità comunitaria diviene sempre più visibile in Europa dal momento in cui l’ideale di ‘nazione’ sostiene lo scardinamento degli antichi assetti territoriali di tradizione medievale come l’Impero austro-ungarico. Per l’Europa centro-orientale fra 20° e 21° sec., in concomitanza con la definizione di più precisi confini etnici e territoriali, si ha una ‘rinascita’ dei patroni nazionali legati alle origini delle monarchie formatesi nel Medioevo, sopra ricordati (Die Renaissance der Nationalpatrone, 2007).
Per l’Italia fu Pio XII nel 1939 a proclamare Francesco d’Assisi e Caterina da Siena patroni d’Italia: «l’accostamento dei due santi aveva un preciso retroterra ideologico nella coscienza del papato romano e rimandava alle vicende del secolo precedente, quando nell’ultimo decennio si era inaugurato il mausoleo di Pio IX all’interno della basilica cimiteriale di S. Lorenzo fuori le mura», dove campeggiano mosaici raffiguranti Francesco che sorregge il pericolante edificio di San Giovanni in Laterano, e Caterina che riporta il papato a Roma dall’‘esilio avignonese’ (San Francesco d’Italia, 2011, pp. 11-12). Ma questa ‘unificazione’ voluta dall’ideologia pontificia non può nascondere la diversa tradizione cultuale dei due santi. Per il primo si deve ricordare l’investimento ideologico del regime: nel 1925 Benito Mussolini ne parlò come modello ideale del cittadino della nuova Italia, proclamò il giorno della sua morte, avvenuta il 4 ottobre 1226, festa nazionale, sostenne una molteplicità di iniziative che concorsero alla costruzione del mito di Francesco come ‘santo nazionale’, anzi come «il più italiano dei santi, il più santo degli italiani» come fu definito da Pio XII al momento della proclamazione a patrono d’Italia (cfr. T. Caliò, «Il ritorno di san Francesco»: il culto francescano nell’Italia fascista, in San Francesco d’Italia, 2011, pp. 45-65). Anche l’italianità di Caterina da Siena fu costruita con sempre maggiore insistenza dagli anni Venti, superando gradualmente la difficoltà insita nel conciliare sentimento nazionale e universalità della Chiesa. La Conciliazione del 1929 accentuava la fisionomia di Caterina come donna provvidenziale, che aveva restituito il papa all’Italia così come Mussolini aveva riconciliato l’Italia e la Chiesa (A. Scattigno, Decoro della patria: Caterina da Siena patrona d’Italia, in San Francesco d’Italia, 2011, pp. 101-141).
Nel corso del processo di unificazione anche l’Europa ha scelto i propri patroni. Le proclamazioni sono avvenute tra il 1964 e il 1999, ciascuna segnata da una propria valenza ideologica. Il primo patrono è stato san Benedetto, proclamato principalis totius Europae patronus da Paolo VI con lettera apostolica del 24 ottobre 1964, che lo definiva «pacis nuntius, unitatis effector, civilis cultus magister, maximae vero religionis christianae praeco et monasticae vitae in occidente auctor», fautore di un’unità spirituale delle nazioni diverse per lingua, etnia, cultura, già chiamato padre dell’Europa da Pio XII, auspicato da Giovanni XXIII e finalmente dichiarato patrono su invito di vescovi, arcivescovi, cardinali, generali di ordini, per favorire l’unità fra le nazioni europee («AAS», 1964, 56, p. 965-67). Se il patronato di Benedetto era fortemente caratterizzato in senso ‘occidentale’, quello di Cirillo e Metodio, apostoli degli slavi, proclamato da Giovanni Paolo II il 31 dicembre 1980, riequilibrava la geografia europea sulla base della duplice tradizione costitutiva dell’identità europea. Lo stesso pontefice il 1° ottobre 1999 aggiungeva a questi patronati, funzionali alla dimensione religioso-territoriale dell’Europa, tre sante: due mistiche medievali, Brigida di Svezia e Caterina di Siena, e una mistica e martire contemporanea, canonizzata l’11 ottobre 1998, Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein); per esse si può parlare di una prevalente funzione spirituale, che il pontefice doveva ritenere la più appropriata nel contesto dell’acceso dibattito sulle radici cristiane dell’Europa, come pure funzionale a un riequilibrio fra santità maschile e femminile nel contesto del dibattito sul ruolo della donna e dei laici nella Chiesa. Edith Stein assumeva valenze ulteriori: da filosofa a carmelitana, da ebrea a cristiana, diveniva «autentico paradigma della tensione esistenziale cristiana del Novecento», protagonista di un itinerario culturale e di fede, unificante le sue diverse componenti culturali, emblema delle radici giudeo-cristiane dell’Europa, e infine martire, rinnovando l’antico modello agiografico con il riscatto attraverso il sacrificio della violenza che aveva dominato l’età contemporanea (Fusco 2009, pp. 438-39).
La seconda metà del 20° sec. vide la prosecuzione delle profonde trasformazioni dell’ordinamento ecclesiastico territoriale avviate dalla fine dell’Ottocento. Gli interventi pontifici volti alla ridefinizione dei confini diocesani, particolarmente numerosi negli anni 1975-76, sono motivati dalla riduzione della popolazione (per es. nel caso di Numana accorpata ad Ancona: «AAS», 1975, 67, p. 557), come pure dall’intento di far coincidere i confini ecclesiastici con i confini delle regioni civili, come nel caso delle diocesi dell’Aquila e di Rieti («AAS», 1976, 68, pp. 514-15), di Spoleto-Norcia-Narni e di Rieti (pp. 516-17). Questo processo di riorganizzazione e coordinamento trovò una delle sue principali espressioni nelle conferenze episcopali regionali. Nella allocutio del 1986 ai cardinali e vescovi della Conferenza episcopale italiana (CEI) il pontefice fece più volte riferimento alle regioni come dimensione insieme civile ed ecclesiastica: incontri collegiali dell’episcopato dell’intera regione, necessità di studiare gli aspetti salienti della vita della Chiesa nelle varie regioni, insieme alle congregazioni istituite in seno alla CEI («AAS», 1986, 78, 2, pp. 928-34).
Conseguenza della riorganizzazione diocesana è anche la definizione di nuovi patronati diocesani. Qualche esempio. La Costituzione apostolica del 27 marzo 1986, sanciva, sentito il parere della CEI, l’unificazione delle diocesi di Viterbo, Acquapendente, Bagnoregio, Faliscodunensis, Tuscania, e dell’abbazia di San Martino al Cimino, in un’unica diocesi denominata Viterbiensis; poneva la nuova diocesi sotto la protezione della Vergine detta di santa Maria della Quercia, presso cui si trovava il Pontificio seminario regionale; stabiliva i Patroni secundarii, santa Rosa di Viterbo, santa Lucia Filippini, san Bonaventura di Bagnoregio; dichiarava cattedrale quella di Viterbo, e concattedrali quelle delle altre città private della sede vescovile («AAS», 1986, 78, 2, pp. 906-907). La stessa attenzione per l’ordine gerarchico dei patroni e insieme per la salvaguardia dei patronati antichi si riscontra nel caso dell’unione delle diocesi di Bari e Bitonto, resasi necessaria in conseguenza dei mutamenti della società e della cultura: la chiesa cattedrale metropolitana era quella di Bari, mentre la cattedrale di Bitonto assumeva il titolo di concattedrale; i santi patroni delle singole diocesi dovevano essere venerati come patroni della nuova diocesi unificata («AAS», 1987, 79, pp. 662-65).
Per quanto riguarda lo specifico dei patronati regionali non sembra possibile individuare un preciso rapporto di causa-effetto fra innovazioni politico-amministrative e strategie cultuali: al processo di regionalizzazione, che ha, come si è visto, origini antiche e trova la sanzione costituzionale dopo la Seconda guerra mondiale, fa riscontro la ridefinizione territoriale delle diocesi su base tendenzialmente regionale. È all’interno di questo duplice processo che si colloca l’origine dei patronati regionali. Prima di presentare alcuni casi meglio documentati, si può osservare in linea generale che nella scelta del patrono il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche appare largamente prevalente rispetto alle pressioni ‘dal basso’, intendendo con questo il complesso dei fedeli o, forse meglio, della comunità sociale di riferimento, e assente l’intervento delle autorità civili. Si tratta di un elemento di profonda differenziazione rispetto alla tradizione dei patronati cittadini, che, di origine tardoantica e medievale, conservano una persistente vitalità, alimentata dalla Chiesa locale e non meno dalle autorità civili, ma soprattutto dall’intera comunità cittadina. E hanno soprattutto una diffusione capillare sul territorio nazionale, mentre il quadro d’insieme dei patronati regionali è largamente incompleto. Non esiste, per quanto verificato, una lista confermata dalla CEI, e gli elenchi reperibili su Internet sono lacunosi e complessivamente poco affidabili sia per quanto riguarda l’identificazione del patronato, sia per quanto riguarda il riconoscimento ecclesiastico. Malgrado i limiti della documentazione si è cercato di ricostruire un primo parziale panorama corredato da alcune riflessioni soprattutto in merito alla varietà dal punto di vista della cronologia, della tipologia agiografica, del significato religioso, degli esiti devozionali.
Quanto alla cronologia, una precoce proclamazione si ebbe nel 1947 quando Pio XII proclamò Maria Santissima delle Grazie, nota come Madonna di Montenero (Livorno), patrona della Toscana: la lettera apostolica del 15 maggio, dopo avere chiamato in causa Dante per la sua fede nella Vergine e avere ricordato alcuni tratti ‘miracolosi’ della storia del santuario – l’immagine venuta dall’Oriente (e invece di scuola senese) e approdata miracolosamente su quel colle, l’attenzione di Pio VII che nel 1818 aveva concesso al luogo sacro il titolo di basilica minore –, faceva riferimento all’intensa devozione testimoniata dai pellegrinaggi per invocare la protezione contro terremoti, pestilenze e guerre, fino alle solenni celebrazioni tenutesi nel 1945 alla fine della guerra. Così per le preghiere del vescovo di Livorno e degli altri vescovi della Toscana, di Emiliano Lucchesi generale della Congregazione vallombrosana, del priore del santuario, con il parere del prefetto della Congregazione dei riti, dopo matura deliberazione, la Vergine delle Grazie detta di Montenero veniva istituita come «principale e universale Patrona della Toscana» («AAS», 1948, 40, pp. 536-38). Mi pare si possa parlare in questo caso di ‘dilatazione territoriale’ di un culto locale, le cui cause possono forse essere ricercate, oltre che nella pressione delle istituzioni ecclesiastiche locali, nel clima postbellico di una regione fortemente caratterizzata in senso comunista. Ma a questa ‘promozione’ ecclesiastica corrisponde un debole incremento della devozione su scala regionale, che ha le sue manifestazioni nella donazione dell’olio per le lampade d’altare fatta dalle diocesi toscane, come pure alla consegna degli stemmi di singoli comuni in occasione di pellegrinaggi.
L’istituzione di patronati regionali registra un significativo sviluppo durante i pontificati di Giovanni XXIII e Paolo VI, da interpretare alla luce dell’attenzione complessiva della Chiesa verso la società e in particolare alle sue diverse componenti e alle diverse categorie di lavoratori. Qualche esempio: il 12 luglio 1961 san Benedetto era nominato patrono degli enti e sezioni di riforma fondiaria e dei consorzi di bonifica agraria, e di tutti gli italici agricolae, con insistito riferimento alle attività svolte per le campagne in senso spirituale e materiale; il 21 marzo dello stesso anno lo stesso santo era nominato patrono della Federazione nazionale dei Cavalieri del lavoro; il 2 marzo 1962 santa Bona era dichiarata patrona delle hostess (iter facientium adiutrices), su richiesta del parroco di San Martino in Pisa, presso cui Bona era vissuta fra 12° e 13° sec. come devota et soror, non senza compiere pellegrinaggi di devozione: la motivazione in questo caso era l’incremento dei viaggi per lavoro, piacere, devozione, a seguito dello sviluppo tecnologico («AAS», 1962, 54, p. 707). Paolo VI il 1° luglio 1963 eleggeva santa Marta patrona per l’Italia degli albergatori e lavoratori degli alberghi e delle mense; il 27 novembre 1964 san Matteo era scelto come patrono dei lavoratori e appaltatori italiani delle imposte di consumo. Si configura una forma di ‘interventismo’ cultuale, talvolta sollecitato dal ‘basso’, con un’estensione sempre più accentuata a livello mondiale durante il pontificato di Giovanni Paolo II.
Quanto ai patronati regionali, nel 1959 era l’Abruzzo a essere insignito del suo santo patrono: il 10 aprile di quell’anno Giovanni XXIII, su preghiera della congregazione dei Passionisti, con il consenso dei vescovi, proclamava totius regionis Aprutinae praecipuus caelestis patronus Gabriele dell’Addolorata, insistendo sulla devozione diffusa testimoniata da altari e chiese, ma particolarmente viva in quella regione, intorno a Isola del Gran Sasso, dove il santo era vissuto e in cui si trovava il suo ‘bellissimo e celeberrimo sepolcro’. A riprova dell’importanza del luogo sacro si ricordava che Pio XI nel 1929 lo aveva elevato a basilica minore e che esso era meta di pellegrinaggi da tutto l’Abruzzo e da altre regioni («AAS», 1959, 51, pp. 462-63). Il giovane passionista era vissuto dal 1859 al 1862, anno della morte per tubercolosi, nel ritiro di Isola del Gran Sasso, dedito alla penitenza, alla carità, alla devozione mariana, in una difficile contingenza politica, quella che aveva portato all’Unità d’Italia, che impedì il conferimento degli ordini sacri al giovane. Gabriele era stato oggetto in vita e in morte di una devozione diffusa fra le popolazioni abruzzesi, che avevano trasformato il convento montano in un santuario meta di pellegrinaggi. Il processo di beatificazione era stato sostenuto dal generale dell’ordine Francesco Saverio dell’Addolorata, già suo compagno, non senza l’appoggio di una forte devozione popolare, che si era opposta al trasferimento del corpo richiesta dal postulatore della causa, e aveva incontrato anche il favore della Chiesa che aveva visto in lui un modello giovanile di virtù e di sacrificio, non dissimile da quello rappresentato da Luigi Gonzaga. Così Pio X lo proclamava beato il 31 maggio 1908, Benedetto XV lo canonizzava il 13 maggio 1920, Pio XI nel 1926 lo costituiva copatrono della Gioventù italiana di Azione cattolica. Nei decenni successivi, con la crisi dei valori tradizionali, Gabriele «finisce per configurarsi più come un intercessore locale che come modello generazionale, più come il santo dell’Abruzzo che come santo della gioventù» (F. de Palma, in Il grande libro dei santi. Dizionario enciclopedico, 2° vol., 1998, ad vocem). E il santuario di Isola diveniva il santuario per eccellenza della regione.
Si tratta di uno dei pochi casi in cui il patronato appare riassumere l’identità profonda di una regione, che, oggetto di una lunga storia di divisioni interne, dovute alla stessa configurazione corografica, con continue suddivisioni politiche, ritrova un’unità geografica nella centralità del Gran Sasso, come suggeriva Giorgio Manganelli, che si chiedeva: «Ma esiste l’Abruzzo? [...] La mia impressione è che vi sia nella situazione dell’Abruzzo un che di paradossale, forse unico in Italia. L’Abruzzo ha al suo centro non una città, ma una montagna, una grande bellissima, terribile montagna, il Gran Sasso» («Il Messaggero», 27 luglio 1987). Inoltre la regione aveva una sua indiscutibile peculiarità religiosa nella rete di eremi montani (Eremi e luoghi di culto rupestri d’Abruzzo, cit.).
Si potrebbe dire allora che il giovane penitente, che aveva sacralizzato in vita e in morte la montagna come simbolo dell’intera regione, aveva veramente i requisiti idonei per essere scelto come patrono regionale. L’opportunità della scelta viene confermata anche successivamente dall’attenzione rivolta dai pontefici al santo: nel centenario della sua morte lo stesso Giovanni XXIII dirigeva una lettera al padre Malcolm La Velle della congregazione dei Passionisti, datata 27 febbraio 1962, dove ripercorreva i tratti salienti della vita di penitenza condotta da Gabriele, e lo proponeva come esempio ai giovani per servire Dio in letizia, utile come modello al momento del Concilio Vaticano II («AAS», 1962, 54, pp. 160-64). Il santuario ha poi ottenuto l’indulgenza plenaria per il periodo 27 febbraio 2012-22 settembre 2013, ed è luogo privilegiato per incontri quali la conferenza dei vescovi di Abruzzo e Molise e il capitolo generale dei Passionisti nel 2013. Ma è soprattutto luogo di una devozione persistente, che ha il suo momento culminante proprio nella festa del pellegrino, cui partecipano bambini con un abitino particolare e detti per questo ‘gabrielini’, come pure nella cosiddetta festa dei cento giorni (prima degli esami di maturità), che vede affluire al santuario giovani da tutto l’Abruzzo e che prevede, oltre alle normali celebrazioni liturgiche, il rito della benedizione della penna volto a propiziare la buona riuscita della prova.
Il patronato abruzzese si presenta di particolare interesse per via della storia della regione: l’Assemblea costituente aveva prefigurato due distinte regioni, Abruzzo e Molise, come risulta dall’art. 131 della Costituzione italiana, che così rimasero fino al 1963, quando fu istituita la Regione Molise con un territorio comprendente la provincia di Campobasso, mentre la provincia di Isernia fu istituita solo nel 1970. Precedente alla separazione ufficiale del Molise del 1963, il patronato di san Gabriele intendeva forse legittimare un’autonoma identità per la regione. Certo la scelta sminuiva il prestigio di un altro santo, il già menzionato fondatore dell’ordine dei Ministri degli infermi, de Lellis, canonizzato nel 1746. Sembra aver voluto riparare a questa diminutio Paolo VI che con una lettera apostolica del 1° giugno 1964, su richiesta del superiore generale dell’Ordine, con il consenso di cardinali, dodici arcivescovi, e dei vescovi della regione, dichiarava de Lellis patronus totius regionis Aprutinae aeque principalis (rispetto a san Gabriele), facendo riferimento al sacrarium nella città natale, Bucchianico, meta di pellegrinaggi, implicitamente indicato come polo di devozione ‘complementare’ rispetto al santuario di Isola del Gran Sasso («AAS», 1965, 57, pp. 156-8).
Al pontificato di Giovanni XXIII risale anche l’istituzione di un patronato per il Piemonte. Prevalente rilievo ecclesiastico, fondato su una tradizione culturale assai più che cultuale, ha la scelta di Eusebio di Vercelli, vescovo della cittadina piemontese, dal 345 difensore dell’ortodossia contro l’arianesimo, cui la tradizione attribuisce il titolo di martire, ma che è noto soprattutto per il profilo teologico e pastorale. Con breve apostolico del 24 novembre 1961, in risposta alla richiesta dell’arcivescovo di Torino, il cardinale Maurilio Fossati, già vescovo di Nuoro e di Sassari, e con il consenso dei vescovi piemontesi, Eusebio venne costituito patrono principale della regione subalpina e la festa liturgica annuale fu fissata al giorno della sua morte. La Congregazione dei riti con decreto del 4 maggio 1962, ha approvato l’ufficio e la messa propri con le lezioni storiche del secondo notturno (P. Meloni, Eusebio di Vercelli “natione sardus” vescovo, confessore, monaco, in La Sardegna paleocristiana tra Eusebio e Gregorio Magno, Atti del Convegno nazionale di studi, Cagliari 1996, a cura di A. Mastino, G. Sotgiu, N. Spaccapelo, 1999, p. 331-55). I motivi della scelta si possono facilmente comprendere: il riferimento alle origini del cristianesimo nella più antica diocesi subalpina impersonata da un personaggio di grande prestigio storico-culturale – e dunque preferibile rispetto ai santi Ottavio, Solutore, Avventore, antichi martiri di Torino –, un culto già a dimensione territoriale se era stato a lui riconosciuto il titolo di apostolo del Piemonte, confermato il 20 marzo 1898 dai vescovi della Chiesa subalpina (Savio, Gli antichi vescovi d’Italia, cit., p. 420), la maggiore autonomia cultuale rispetto a una tradizione agiografica, che dal 16° sec. era stata fortemente influenzata dalle esigenze politiche della dinastia dei Savoia interessata alla costruzione del suo potere territoriale sul versante italiano delle Alpi, e che aveva fatto di Torino la capitale prima del ducato e poi del regno (Cozzo, cit.). La scelta operata per il Piemonte pone il problema, noto a chi si occupa di agiografia, delle difficoltà dell’aggiornamento cultuale: un antico vescovo, che poco doveva dire ai fedeli del 20° sec., venne preferito ai nuovi santi di età contemporanea, sopra ricordati, nati e vissuti nella regione e rappresentanti di una nuova spiritualità in sintonia con la nuova realtà sociale ed economica. L’omelia del cardinale Tarcisio Bertone del 1° agosto 2012 incardina ancor più territorialmente la figura del santo, che avrebbe portato in Piemonte la devozione alla Vergine Maria, venerata nei santuari di Oropa e di Crea.
Quanto alla Calabria, il 2 giugno 1962 Francesco di Paola (1416-1506) veniva dichiarato «praecipuus caelestis Patronus universalis Provinciae ecclesiasticae Calabriae» («AAS», 1963, 55, pp. 318-19): la richiesta era stata avanzata dai vescovi del Consiglio provinciale, cui era seguito l’assenso dell’arcivescovo di Reggio Calabria. Per il profilo del santo si faceva riferimento alla sua vita, alla devozione di cui era oggetto da parte degli abitanti della regione, alle parole di Leone X in occasione della sua canonizzazione. Si tratta di un territorio definito dal punto di vista ecclesiastico e non civile. Ma la fisionomia del santo costituiva la migliore premessa per un culto a dimensione regionale: Francesco di Paola, fondatore dell’ordine dei Minimi, era stato beatificato nel 1513, canonizzato nel 1519, e godeva di un culto diffuso, di cui erano espressione le basiliche reali a Parigi, Torino, Palermo e Napoli. Quest’ultima, con la sua grande basilica neoclassica, lo onorava copatrono del Regno di Napoli con san Gennaro, patrono della gente di mare, come stabilito dal breve di Pio XII del 1943. E tuttavia Giovanni Paolo II si dimostrò attento a non trascurare altri culti ben radicati: se il 1° giugno 1985 in un discorso ai pellegrini delle chiese di Calabria ricordava, oltre a san Francesco di Paola, san Nilo, san Bartolomeo, san Bruno, il 1° febbraio 1992 nel discorso tenuto a Paola ai vescovi della conferenza episcopale della Calabria, ricordava sì il patrono principale, ma creava intorno a lui una piccola ‘coorte’, formata in primo luogo dalla Vergine invocata in molte località della regione, dai patroni delle diocesi, da tutti i santi e beati originari della Calabria.
Un’analoga attenzione per la pluralità dei culti Giovanni Paolo II l’aveva manifestata per la Valle d’Aosta: il 6 settembre 1986, in occasione della sua visita pastorale aveva pronunciato un’omelia alla presenza delle autorità ecclesiastiche e civili, fra cui il presidente della regione, nella quale ricordava come l’autonomia non fosse stata occasione di isolamento e come lo statuto speciale avesse favorito l’armonia fra le popolazioni di lingua italiana e francese; quanto ai culti, non indicava un patrono, ma un ‘pantheon’ composto da Bernardo di Mentone, patrono degli alpinisti dal 1923, Eustasio, primo vescovo, Grato, già patrono della diocesi (che per questo compare talvolta come patrono regionale), e il più noto Anselmo, l’illustre teologo. Nel caso della Sardegna è stato Benedetto XVI a ricordare, nel discorso tenuto il 7 settembre 2008 ai sacerdoti della Pontificia facoltà teologica, le reliquie dei martiri e dei vescovi conservate nel santuario di Nostra Signora di Bonaria ‘speciale patrona di tutta la Sardegna’.
Il prestigio dei santi antichi, ancora maggiore se si tratta di martiri, sembra ispirare la scelta di molti altri patroni regionali. L’antichità del santo e il prestigio del culto giocano certamente a favore della scelta del patrono dell’Emilia-Romagna. Paolo VI il 5 giugno 1975 («AAS», 1975, 67, pp. 468-69) con lettera apostolica confermava Apollinare patronus principalis dioecesium regionum Aemilianae et Flaminiae, rispondendo alla richiesta avanzata, in virtù del culto tributato al martire dai primordi della Chiesa, dai vescovi delle diocesi delle due regioni, forti del consenso popolare. Vissuto nella seconda metà del 2° sec., sant’Apollinare fu primo vescovo di Classe, e anche primo dei sei vescovi delle altre diocesi della regione storicamente accertati: Apollinare di Ravenna, Vitale, Agricola e Procolo di Bologna, Cassiano di Imola, Antonino di Piacenza. Una passione, erroneamente attribuita a sant’Ambrogio, elaborata alla metà del 7° sec., fa di Apollinare un discepolo diretto di san Pietro al fine di avvalorare l’autocefalia della Chiesa ravennate nei confronti sia di Roma sia di Milano. Il prestigio del culto è testimoniato dall’imponente basilica di Classe consacrata nel 549, che conserva alcune sue reliquie, mentre altre furono traslate nell’11° sec. nella chiesa di sant’Apollinare Nuovo in Ravenna. E sempre Paolo VI con lettera apostolica dell’11 dicembre 1975 confermava Ambrogio, vescovo e dottore della Chiesa, patronus principalis regionis Longobardiae («AAS», 1976, 68, p. 172), su richiesta del cardinale Giovanni Colombo (1902-1992), arcivescovo di Milano e presidente della Conferenza regionale della Lombardia, in attuazione al voto del clero e del popolo, stabilendo secondo la norma la liturgia degli uffici e delle messe proprie. L’antico vescovo aveva surclassato il prestigioso vescovo della Controriforma san Carlo Borromeo, che lo stesso Paolo VI il 6 giugno 1974 aveva eletto patrono dei Carmelitani scalzi della provincia lombarda («AAS», 1974, 66, p. 475).
Per il Friuli Venezia Giulia la scelta dei santi Ermacora (o Ermagora) e Fortunato appare ancora una volta promossa dalla gerarchia ecclesiastica: nel 1999 i vescovi della regione avevano rivolto istanza alla Congregazione per il culto divino, ottenendone la conferma ufficiale con decreto del 12 giugno 2001, cui fece seguito l’annuale celebrazione liturgica solenne nella basilica di Aquileia con partecipazione delle quattro diocesi della regione e delle relative autorità civili. Contrariamente a Eusebio di Vercelli, patrono del Piemonte, l’identità storica di questi martiri è molto sfocata, malgrado una lunga tradizione di studi. Il primo, considerato vescovo e martire di Aquileia del 3° sec., fu oggetto di culto diffuso nell’Italia nordorientale a partire dal 7° sec. quando quella Chiesa volle rivendicare la propria autonomia dalla Chiesa di Roma e, per dare forza a questa rivendicazione, attribuì la fondazione della sede episcopale all’evangelista Marco, che, su invito di san Pietro, avrebbe perseguito l’opera di cristianizzazione della regione, consacrando Ermagora come primo vescovo della comunità. La tradizione cultuale ampliò poi i confini della sua predicazione all’Istria, al Norico, alla Pannonia e altre zone dell’Italia settentrionale, cosicché il suo culto divenne uno dei più importanti di tutta la zona veneto-friulana, come attesta anche l’iconografia. Quanto a Fortunato, il suo nome compare come martire aquileiese in fonti del 5° sec. e godette di culto in età tardoantica, trasformato dalla tradizione agiografica a partire dall’8° sec. come diacono, compagno di martirio di Ermagora e a lui poi frequentemente associato anche nell’iconografia. Forse fu proprio la diffusione del culto in un’area più ampia della singola città a determinare la scelta.
Per la Campania una storia diversa porta a un culto riconosciuto come regionale, ma sempre fortemente radicato nel capoluogo: san Gennaro, vescovo e martire, morto nei primi anni del 4° secolo. Gennaro gode di un culto antico, testimoniato da fonti liturgiche e archeologiche: le sue reliquie dalle catacombe extraurbane di Napoli furono trafugate nel 9° sec. e portate a Benevento – la città ‘rivale’ del culto ianuariano –, poi nel 12° sec. traslate nel monastero di Montevergine, e infine riportate solennemente nel duomo di Napoli nel 1497. Ma già dalla fine del 14° sec. una cronaca dava notizia del ritrovamento di una reliquia del sangue, da cui prendeva origine, nel drammatico contesto delle lotte fra Angioini e Aragonesi aggravato da una terribile carestia, il ‘miracolo’ della liquefazione, diventato l’emblema della protezione del santo sulla città di Napoli, che non cessa di alimentare da un lato la devozione, dall’altro le critiche, e di attirare l’attenzione di storici e antropologi. Se indiscusso si può considerare il patronato cittadino di Gennaro, confermato da monumenti, processioni, festeggiamenti, nei secoli 16° e 17° più complesso fu il ‘salto’ da patrono della capitale a patrono di tutto il Regno di Napoli: Gennaro ebbe infatti un rivale in san Domenico, che, grazie anche al sostegno dell’ordine dei Predicatori, del viceré e di gran parte della feudalità del Regno, il 23 agosto 1640 fu proclamato da Urbano VIII patrono di Napoli e del Regno, con le relative celebrazioni liturgiche rese obbligatorie. Questo patronato ‘abusivo’ ebbe vita breve: forti della devozione popolare, vescovo e nobiltà cittadina rivolsero alla Congregazione dei riti una petizione per assicurare che già anticamente tutte le comunità del Regno avevano richiesto il patronato ianuariano, cui Alessandro VII rispose positivamente nel 1663 riabilitando Gennaro come protettore per eccellenza del Regno. L’antico martire e vescovo gode dunque di una posizione privilegiata, perché fondata su una storia che aveva già dilatato il patrocinio su un intero regno, in forza della eccezionale devozione popolare e del riconoscimento pontificio (San Gennaro nel XVII centenario del martirio (305-2005), a cura di G. Luongo, 2 voll., 2007).
I patronati cittadini sanciti per il Regno di Napoli nel corso dell’età moderna ebbero la tendenza, come si è detto, a estendere il culto a un territorio più ampio, diocesano o provinciale. Si può osservare di conseguenza come le regioni che facevano parte dell’antico Regno di Napoli abbiano una storia cultuale diversificata. Per quanto riguarda la Puglia si può parlare di una prevalenza ‘oggettiva’ di un santo come Nicola di Bari, il cui culto ha una diffusione internazionale, testimoniata dalla letteratura, dall’arte, dal folclore (C.W. Jones, Saint Nicholas of Myra, Bari and Manhattan. Biography of a legend, 1978; trad. it. 1983).
Contrariamente a Napoli, Palermo incontrò maggiori difficoltà nei tentativi di estrendere il culto di santa Rosalia, che nel 1682 non aveva ottenuto neppure l’estensione a tutta la diocesi dell’Ufficio proprio della santa. In questo caso giocò forse la debole identità storica della vergine palermitana, che sarebbe vissuta nel 12° sec., figlia di nobile famiglia, e che avrebbe abbandonato la vita di corte per ritirarsi a vita eremitica fino alla morte sul monte Pellegrino, dove quattro secoli dopo i palermitani ritennero di avere ritrovato il suo corpo. La vergine diveniva oggetto di attenzione solo nel corso del 17° sec. con una agiografia che, in assenza di testimonianze scritte, cercava di ricomporre i lineamenti biografici prevalentemente sulla base di tradizioni orali. Il suo culto esplose nel 1624 quando le fu attribuita la liberazione della città dalla peste. La difficoltà di un culto unitario per la Sicilia è confermata dall’omelia pronunciata a Palermo il 3 ottobre 2010 da Benedetto XVI, dove ricordava Rosalia come patrona di Palermo, e insieme a lei due altre grandi sante dell’isola, Agata e Lucia. Anche in questo caso si può parlare di un patronato condiviso.
A maggior ragione per la regione Trentino-Alto Adige, così diversificata culturalmente, si riscontra la difficoltà di un culto unitario, che inevitabilmente favorirebbe l’una o l’altra provincia. Indiscutibile posizione di prestigio ha Vigilio di Trento, il vescovo evangelizzatore vissuto nel 4° sec., che aveva inviato tre giovani discepoli, Sisinnio, Martirio e Alessandro, nella Val di Non, di cui egli stesso raccontò il martirio. Il culto dei tre martiri anauniensi è rimasto circoscritto alla Val di Non, mentre il culto di Vigilio è fortemente centrato sulla città di Trento, con relativi festeggiamenti sacri e profani, anche se il ruolo di evangelizzatore ha favorito la diffusione del culto, come provano le chiese parrocchiali a lui intitolate, collocate come segno di demarcazione ai confini della diocesi (E. Curzel, Santuari trentini e sudtirolesi. Una storia, in Santuari d’Italia. Trentino Alto Adige-Südtirol, 2012, pp. 17-36), di cui è stato dichiarato a buon diritto patrono. Nel 1964 Vigilio è divenuto copatrono della neonata diocesi di Bolzano-Bressanone, insieme a Cassiano e Genuino, già patroni della diocesi di Bressanone.
Il tema del patrono non deve far dimenticare la complessiva situazione religiosa della diocesi di Trento, alla cui rivitalizzazione avevano contribuito due figure di rilievo come Pier Paolo Rigler (1796-1873) e Antonio Rosmini (1797-1835), con il sostegno dato anche a nuove congregazioni femminili con finalità caritative, assistenziali, educative e catechistiche, mentre nel corso dell’Ottocento la vita religiosa si era arricchita di altre figure, come quella della stigmatizzata Maria Domenica Lazzeri (1815-1848), e di un forte rilancio dei santuari, come quello dell’Addolorata di Cavalese; alla fine dell’Ottocento il santuario di Montagnaga di Piné divenne il santuario mariano per eccellenza della diocesi trentina, ma con irradiazioni al di là dei confini diocesani, dove poi fu costruito nel 1900 il monumento al Redentore (S. Vareschi, La religiosità cattolica in Trentino dall’epoca barocca alla contemporaneità, in Santuari d’Italia. Trentino Alto Adige-Südtirol, 2012, pp. 97-124). I santuari si confermano i luoghi privilegiati per una devozione più direttamente esperita e fruita dai fedeli, mentre i santi patroni, espressione di scelte ecclesiastiche, sono oggetto di un culto liturgico ufficiale e di una ritualità controllata. È un tema su cui si tornerà in conclusione.
Si è già parlato di prevalenza ‘oggettiva’ di un santo e di un culto a dimensione regionale. Il caso più evidente sembra essere quello dell’Umbria, come pare confermare il discorso tenuto il 19 aprile 1986 da Giovanni Paolo II ai vescovi della regione, nel quale ricordava Francesco come patrono d’Italia e insieme a lui i santi più illustri, Benedetto, Scolastica, Chiara e Rita. Francesco d’Assisi ha infatti una dimensione cultuale che non si può restringere né alla città né alla regione né alla nazione, di cui pure è stato proclamato patrono. Il suo irradiamento cultuale ha assunto carattere mondiale e Assisi è uno dei santuari più frequentati d’Italia, divenuto anche centro di incontri interreligiosi. Il suo caso offre allora un tema di riflessione generale: la dimensione ‘sovraterritoriale’ o forse meglio ‘universale’ di molti luoghi sacri, siano essi intitolati a un santo o, più spesso, alla Vergine. Qui si entra dunque nell’ambito della storia dei santuari in Italia, oggetto di una lunga ricerca, arricchita da molteplici riflessioni metodologiche e storiografiche e dai primi cinque volumi regionali dell’opera Santuari d’Italia (2010-13).
Questa storia è iniziata con il problema terminologico. Il termine santuario ha tardato a comparire nel diritto canonico, come osservava nel 1954 Arturo Carlo Jemolo (Lezioni di diritto ecclesiastico, 1954, p. 183) e come ripeteva il Novissimo digesto italiano del 1969: nel diritto ecclesiastico non esiste alcuna norma che delimiti concettualmente la categoria santuari (P.G. Caron, Santuario, 16° vol., ad vocem). Nel 1956 in una lettera della Sacra congregazione dei seminari e delle università degli studi, il santuario veniva definito come «una chiesa o un luogo sacro destinato al culto di Dio, che i fedeli per un particolare motivo di pietà […] hanno costituito meta di pellegrinaggi al fine di impetrare grazie e sciogliere voti» (Leges Ecclesiae post Codicem iuris canonici editae, a cura di X. Ochoa, 2° vol., Leges annis 1942-1958 editae, 1969, nr. 2558, p. 3455), ma solo nel 1983 il Codice di diritto canonico giungeva alla più precisa definizione del santuario come «la chiesa o altro luogo sacro dove i fedeli, per un particolare motivo di pietà, si recano numerosi in pellegrinaggio», con un’aggiunta: «con l’approvazione dell’ordinario del luogo» (1983, p. 212, canone 1230). Si riconosceva così nella devozione dei fedeli l’elemento identitario del santuario riservando all’autorità ecclesiastica una ‘approvazione permissiva’, che tuttavia si è rivelata fondamentale per quanto riguarda le norme per l’amministrazione dei patrimoni messe a punto successivamente (Profili giuridici e storia dei santuari cristiani in Italia, 2004).
Alla ‘debolezza’ storicamente accertata del santuario dal punto di vista dell’identità giuridica corrisponde una straordinaria forza attrattiva per i fedeli, che in quel luogo sacro hanno manifestato e continuano a manifestare la propria devozione in forme più libere rispetto alle pratiche religiose connesse con la liturgia e i riti ecclesiastici ufficiali, gestiti cioè dai ‘professionisti del sacro’. Dal punto di vista dello storico, il santuario, costruito intorno a un oggetto considerato sacro e miracoloso, sia esso una reliquia o un’immagine, è il luogo in cui si esprime una religiosità più spontanea e più direttamente esperita dai fedeli, secondo tempi e riti propri. Sulla base dell’esperienza maturata nel corso della lunga ricerca diacronica sui santuari in Italia, promossa da André Vauchez, il santuario emerge come un elemento che tende a ‘scardinare’ le circoscrizioni ecclesiastiche e a ‘svalicare’ (lo provano i santuari posti in tutte le regioni di confine) i confini politici (Tilatti in Per una storia dei santuari cristiani d’Italia, 2002) come pure quelli amministrativi o diocesani, tanto che si è parlato di «una peculiare difficoltà di una qualche forma di regionalizzazione […] dell’individuazione di una sua eventuale coerenza rispetto a coordinate paesistico-ambientali, viarie e insediative» (Canetti in Per una storia dei santuari cristiani d’Italia, 2002). Si potrebbe parlare di polivalenza del santuario, che, fortemente radicato in un luogo, esercita una doppia azione diffusiva e attrattiva sui singoli e sulla comunità, con la creazione di un proprio ‘spazio della devozione’ potenzialmente illimitato. La fama della sacralità con il conseguente potere taumaturgico permette di conferire a un santuario un ruolo simbolico identitario dell’intera regione, come nei casi già ricordati della Madonna di Montenero e del santuario di San Gabriele dell’Addolorata.
È l’exploit dei santuari mariani, a partire dal Quattrocento, a favorire il processo di ‘scardinamento’ delle circoscrizioni ecclesiastiche e a creare nuovi legami fra mondo urbano e mondo rurale (Prosperi 1984, pp. 615-47). Qui è opportuno ricordare ancora alcuni casi nei quali il santuario assume, oltre a un valore religioso universale, anche una precisa connotazione regionale. Paolo VI il 6 dicembre 1973 dichiarava la Vergine Addolorata detta di Castelpetroso patrona Molisanae regionis, sottolineando la venerazione per la Vergine Addolorata diffusa in tutto il mondo («AAS», 1964, 66, p. 320); questo patronato veniva richiamato da Giovanni Paolo II nell’omelia pronunciata al santuario il 19 marzo 1995 alla presenza delle autorità civili.
Il patronato mariano del Molise era il secondo sancito da Paolo VI: nel 1965 egli aveva ricordato come la Madonna del sacro monte di Viggiano in Basilicata fosse stata «sempre proclamata e venerata Regina e Patrona di tutta la Regione», con riferimento all’incoronazione avvenuta nel 1890 da parte di Leone XIII della ‘Patrona e Regina della Lucania’. Una statua lignea della Madonna con Bambino, che la tradizione dice ritrovata miracolosamente, è oggetto di un culto risalente al sec. 14° e confermato agli inizi del sec. 16° da Giulio II. Il culto si articola fra due poli, un santuario urbano e uno montano costruito nel luogo del presunto ritrovamento, e fra due festività, la prima domenica di maggio quando la statua dal centro di Viggiano sale al monte, e la prima domenica di settembre quando il percorso viene compiuto a ritroso. Al solenne rito liturgico, con la messa pontificale presieduta dall’arcivescovo metropolita di Potenza e concelebrata dai vescovi della regione ecclesiastica, centrato sulla città, fanno riscontro pratiche rituali ormai codificate proprie di una società rurale e pastorale (Con il bastone del pellegrino attraverso i santuari cristiani della Basilicata, a cura di V. Verrastro, 2000, pp. 282-88).
Fra i tanti possibili esempi della dialettica fra localismo e universalismo propria della storia d’Italia, si sceglie qui il caso più emblematico, Loreto, esito di una storia complessa, fondata sulla controversa leggenda del trasporto ‘angelico’ della santa Casa di Nazareth presso Recanati nelle Marche. Dal 12° sec. esisteva una chiesa dedicata alla Madonna, che fra i secc. 13° e 14° «assunse una funzione speciale, divenendo meta di pellegrinaggi inizialmente regionali […] e poi da ogni dove» (G. Cracco, Alle origini dei santuari mariani: il caso di Loreto, in Loreto crocevia religioso tra Italia, Europa e Oriente, a cura di F. Citterio, L. Vaccaro, 1997, pp. 97-164), come provano i salvacondotti per i pellegrini. Dalla fine del 14° sec., e poi sempre più accentuatamente dagli inizi del 15°, Loreto non solo continua ad accogliere pellegrini, ma attira l’attenzione crescente dei pontefici, come Niccolò V e Pio II, e di altri potenti. Interessante qui ricordare che Biondo Flavio nella sua Italia illustrata (1474) ricorda Recanati come centro celeberrimo per il sacellum della Vergine, pieno di doni ex voto preziosi. Ma la fama universale aveva sottratto il santuario alla dimensione cittadina locale, creando un nuovo altro polo sacrale per la cristianità dopo Gerusalemme, Santiago di Compostela, Assisi. La ‘dilatazione’ del santuario di Loreto dalla seconda metà del sec. 15° da locale a universale accentuò tuttavia i problemi della gestione ecclesiastica e amministrativa fra vescovo e comune di Recanati, in cui si inserì la sempre più forte presenza dei pontefici che, con Giulio II nel 1507, sancirono Loreto come santuario mariano della cristianità e ne rivendicarono il governo attraverso un proprio statuto e un vicario. Ma Loreto ha perso così la sua identità territoriale? Certamente no: Loreto potrebbe essere definita la capitale religiosa delle Marche.
Il panorama delineato propone alcuni temi di riflessione. Su tutto il territorio nazionale si osserva la persistenza dei culti collettivi tradizionali tributati ai santi patroni cittadini, sostenuti dal ruolo delle confraternite e di altre associazioni religiose, culti nei quali la dimensione liturgica si compone con la dimensione festiva e spettacolare. Non sembra si possa constatare nessun contraccolpo a livello locale a causa dell’entrata in scena di patronati regionali, promossi in larghissima prevalenza dalle istituzioni ecclesiastiche locali o dagli ordini religiosi. Questa diffusa ‘indifferenza’ religiosa per i santi patroni delle regioni può essere una conferma della difficoltà di affermazione della più recente struttura amministrativa pur contemplata dalla Costituzione, ancora percepita come lontana dalle esigenze dei singoli e delle comunità: una superfetazione burocratica, capace solo di drenare soldi pubblici. Una difficoltà che si riscontra anche sul versante ecclesiastico, dove rimane fortissimo l’attaccamento ai culti delle singole diocesi.
Si conferma inoltre la lenta e difficile affermazione cultuale, pur in presenza del riconoscimento da parte della Chiesa, dei ‘nuovi santi’, di coloro che hanno reinterpretato la vocazione religiosa in funzione delle nuove esigenze della società. E questo anche nella sfera della devozione privata o individuale, quella legata all’‘intimità’ con il santo e alla fiducia nel sua protezione spirituale o materiale, che si rivolge prevalentemente, salvo poche eccezioni – si può citare padre Pio –, a santi del passato con una consolidata fama di taumaturghi del corpo, dello spirito, come pure della società, con riferimento al titolo del volume di Pasquale Palmieri (I taumaturghi della società. Santi e potere politico nel secolo dei Lumi, 2010), e soprattutto alla Madonna, il cui successo devozionale si perpetua nei secoli, forte dell’incondizionato appoggio dei pontefici: basti ricordare la sollecitudine di Giovanni Paolo II verso i luoghi di culto mariani in Italia e nel mondo. Il culto mariano riunisce infatti i due poli segnalati come fondamentali per la storia religiosa: l’universalità intrinseca alla sua figura e la capacità di ‘adattamento’ geografico e cultuale in funzione di specifiche esigenze religiose, sociali, ecclesiastiche e politiche.
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Si ringraziano per le notizie e le informazioni bibliografiche: monsignor Ugo Dovere, padre Corrado Maggioni e Roberto Fusco per il reperimento di fonti ecclesiastiche; Maria Rita Berardi per le informazioni relative all’Abruzzo; padre Gerardo Cioffari e Angela Laghezza per quelle sulla Puglia; Paolo Cozzo per quelle sul Piemonte; Emanuele Curzel per quelle sul Trentino-Alto Adige; Giuseppe Cuscito per quelle sul Friuli Venezia Giulia. Un ringraziamento particolare a Tommaso Caliò per i consigli, le informazioni bibliografiche e la lettura del testo.