Un altro Costantino: la testimonianza della storiografia profana
Quando Costantino I muore il 22 maggio 337 a Nicomedia, la versione agiografica del suo regno è già definita, specialmente grazie a Lattanzio, agli autori dei cinque panegirici latini di cui egli è l’eroe e a Eusebio di Cesarea. Contrariamente a quello che si è verificato per un buon numero di imperatori romani, per Costantino lo stato di grazia (de mortuis nihil nisi bene) si è prolungato attraverso i suoi figli fino alla fine del 361, quando viene a mancare Costanzo II, l’ultimo dei tre a morire. Subito dopo prende il via un processo che elabora progressivamente l’immagine di un altro Costantino, molto diverso da quello della versione ufficiale che aveva prevalso fino ad allora. Quest’altro Costantino emerge essenzialmente, ma non esclusivamente, nelle fonti storiografiche che è opportuno chiamare profane più che pagane. Certamente, alcuni tra i loro autori sono pagani dichiarati, ma il loro comune tratto specifico è soprattutto che essi divergono dagli storici ecclesiastici, i quali perpetuano con varianti e abbellimenti la vulgata eusebiana1.
Il primo ad affrontare il convitato di pietra non è altri che un nipote del grand’uomo, il figlio di un fratellastro di Costantino I, Giulio Costanzo: l’imperatore Giuliano. Questi aveva eccellenti motivi per nutrire un affetto modesto verso la sua famiglia. A soli sette anni era stato testimone del massacro di tutti i suoi parenti, tra cui suo padre, e aveva avuto salva la vita solo grazie alla sua giovane età. La sua infanzia e la sua adolescenza erano state simili a quelle di un prigioniero, sotto lo sguardo diffidente di suo cugino Costanzo II. Una concatenazione di eventi sorprendenti aveva fatto di lui prima un Cesare sempre tenuto sotto controllo, poi un Augusto per usurpazione, e infine il solo padrone dell’Impero. In qualità di Cesare aveva dovuto contribuire all’agiografia imperiale facendo l’elogio forzato del suo odiato cugino Costanzo II. Alla fine, reso libero dalla morte di quest’ultimo, egli poté esprimere i suoi veri sentimenti. I suoi scritti segnano la prima tappa dell’apparire di un altro Costantino. Ciò emerge innanzitutto nel Contro Eraclio il Cinico, che data senza dubbio all’inizio della primavera del 3622. Giuliano vi mette in scena, sotto forma di mito, un uomo ricco sotto i tratti del quale si cela Costantino. Questi ha cercato di arricchirsi con ogni mezzo e non si è preoccupato degli dei. Ha educato molto male i suoi figli, che si spingono ancora più lontano rispetto a lui nel disprezzo della religione degli antenati. Ma Zeus e Elios prendono sotto la loro protezione un bambino, rampollo trascurato dall’odiosa famiglia dell’uomo ricco, che è evidentemente Giuliano stesso3.
Costantino, con il suo vero nome, gioca un ruolo più importante nella strana satira scritta verso la fine del 362 e conosciuta con il tradizionale titolo di Cesari4. Gli imperatori romani defunti, invitati a un banchetto, vengono presentati al momento del loro ingresso. Gli ultimi a entrare sono Costantino e i suoi figli5. I migliori tra loro sono chiamati a concorrere per essere ammessi nel novero degli dei; in questo novero Costantino è identificato come amante dei piaceri6. Ciascuno degli imperatori è chiamato a perorare la propria causa, per ultimo Costantino. Cosciente che le vittorie che ha riportato sia contro i suoi concorrenti per il potere supremo sia contro i nemici esterni non sono di natura tale da valergli molti consensi, non ha occhi che per la sua dea preferita, la Mollezza (Τρυϕή), e si difende maldestramente fino a che Silene gli fa comprendere bruscamente che i suoi successi non sono stati che effimeri7. Da ultimo, Ermes domanda a ciascun candidato quale sia stato il proprio ideale. Costantino, l’ultimo a rispondere, dichiara: «Accumulare molto… spendere molto per appagare i miei desideri e quelli dei miei amici»8. Marco Aurelio è proclamato vincitore. Ciascun concorrente è invitato a scegliersi una divinità tutelare. La satira si conclude con un violento attacco a Costantino. Questi si rifugia nelle braccia della Mollezza, che lo conduce verso la Dissolutezza (ἀσωτία) la quale gli fa scoprire Gesù, che «gridava a chiunque: “Che ogni seduttore, ogni omicida, ogni uomo colpito dalla maledizione e dall’infamia si presenti con fiducia. Bagnandolo con questa acqua, io lo renderò subito puro, e se ricadrà negli stessi errori, quando si sarà battuto il petto e percosso il capo, io gli accorderò di ridivenire puro”. Felicissimo di questo incontro», Costantino si ritira ma è perseguitato insieme ai suoi figli dai demoni a causa del loro ateismo e dei loro crimini (l’assassinio di Crispo e di Fausta, il massacro del 337). Alla fine è risparmiato nel nome di Claudio II e di Costanzo Cloro9.
Uno dei paradossi di cui la storia abbonda è che tutti i principali temi della polemica anticostantiniana siano stati formulati senza indugio dall’ultimo superstite maschio della dinastia fondata da Costanzo Cloro: mollezza, dissolutezza, avidità, prodigalità, omicidio, che si sommano ai motivi più specificamente ostili al cristianesimo, cioè l’ateismo e le interpretazioni tendenziose dei sacramenti cristiani del battesimo e della penitenza.
Gli epitomatori latini della seconda metà del IV secolo costituiscono i più antichi testimoni storiografici profani, posteriori alla morte di Costantino, che si siano conservati. Il Liber de Caesaribus di Aurelio Vittore è pubblicato verso l’estate del 36110, quando Costanzo II è ancora in vita. Conformemente alla tradizione, il suo racconto non dice niente della politica religiosa di Costantino. Aurelio Vittore è dunque indenne dall’agiografia eusebiana ma, per un motivo più che comprensibile, abbozza un ritratto globalmente molto positivo dei sovrani della dinastia costantiniana, e in particolare del suo rappresentante più illustre. La condanna a morte di Crispo, non nominato esplicitamente, è riportata senza commenti in una riga e mezza11. Non ci sono ragioni per soffermarsi qui sull’Origo Constantini (prima parte dell’Anonimo Valesiano). Questo testo anonimo, difficilmente databile con precisione12, è breve, limitato al racconto degli eventi e neutro, fatta eccezione per qualche allusione alle persecuzioni, alla conversione di Costantino e al paganesimo di Giuliano, che sono dei frammenti estratti da Orosio inseriti nel testo in un secondo tempo. Anche il Breviarium di Rufio Festo può essere tralasciato in questa sede: esso non contiene che una breve nota sulla ripresa della guerra contro i persiani progettata da Costantino. Un altro tono si manifesta per la prima volta nel Breviarium di Eutropio, redatto prima del 36913. Dopo il racconto neutro dell’origine del regno appare la prima critica, secondo la quale Costantino attacca Licinio per assicurarsi il potere su tutto l’Impero14. Il successo cambia il suo carattere. Per la prima volta, le vittime dei suoi omicidi sono menzionate: suo figlio (Crispo), sua moglie (Fausta), numerosi amici15. Giunge allora un giudizio globale sul suo regno: «quest’uomo può essere paragonato, nella prima parte del suo regno ai migliori principi, nell’ultima parte ai principi mediocri». Un giudizio che è sviluppato e giustificato nelle righe che seguono. La maggior parte dei tratti rilevati è positiva, due sono negativi: talvolta egli fu poco fedele in amicizia e la maggior parte delle sue leggi è stata superflua16. Conformemente alle leggi della storiografia profana, la conversione al cristianesimo e le sue conseguenze non sono menzionate. Il tema degli omicidi e quello di un degrado progressivo del regno invece sono destinati a conoscere importanti sviluppi.
L’Epitome de Caesaribus, che circolava sotto il nome poco adeguato di Pseudo-Aurelio Vittore, termina con un elogio di Teodosio I e menziona in conclusione la sua sepoltura a Costantinopoli. Essa è dunque posteriore alla fine del 395. La condanna a morte di Licinio, quando invece Costantino gli aveva promesso salva la vita, è riportata senza commenti17. In termini molto prossimi a quelli che si ritroveranno in Zosimo – fatto che implica una stretta vicinanza tra le fonti – l’Epitome stabilisce una relazione di causa-effetto tra la vittoria finale di Costantino su Licinio, che gli assicura il dominio totale dell’Impero, e gli omicidi di Crispo e Fausta, qui indicati per la prima volta con i loro nomi18. Il giudizio finale rileva un buon numero di tratti positivi, ciononostante esso è globalmente severo. È censurato l’amore eccessivo di Costantino per la gloria19, inoltre «egli era più sarcastico che adulatorio, da qui deriva il soprannome di Trachala che gli attribuisce un proverbio popolare»20. Il significato di questo appellativo è oscuro, esso nasconde probabilmente un’orgogliosa rigidità: una sorta di ‘uomo tutto d’un pezzo’, per dirla con un’espressione colloquiale21. Soprattutto, è interessante vedere ripresi in conclusione i motivi del declino progressivo del regno, non più in due tappe come in Eutropio, ma in tre: «per dieci anni, lo si chiamava l’incomparabile, nei dodici seguenti il ladro, negli ultimi dieci il pupillo in ragione delle sue prodigalità senza limiti»22.
Si constata dunque presso gli epitomatori latini, nei decenni che seguono la fine della dinastia costantiniana, la costituzione assai rapida di una specie di vulgata negativa con elementi ricorrenti. La portata di questa osservazione deve essere tuttavia sfumata, in quanto il binomio avidità-prodigalità è un elemento topico nel ritratto passe-partout del cattivo imperatore. È opportuno tuttavia notare che, in questo periodo, l’evoluzione negativa del regno non è segnalata come una conseguenza specifica della conversione al cristianesimo, sebbene non si debba dimenticare che il silenzio convenzionale su questo punto non esclude la presenza di una relazione causale nascosta.
La presenza del grande storico in questa rassegna potrà sembrare a prima vista insolita: i primi tredici libri della sua opera (redatta per lo più negli anni 380-395) non si sono conservati, e i diciotto che sono sopravvissuti non riguardano che gli anni 353-375/378, talché il suo racconto del regno di Costantino ci è sconosciuto. Ciononostante, nei libri che possediamo, vi è più di un’allusione a questo imperatore, e sebbene molte di queste siano banali, ve ne sono alcune che rivelano – o almeno sembrano rivelare – la natura del giudizio che Ammiano ha dato su di lui. Lo storico pratica in effetti l’arte della sottile insinuazione, come colui del quale egli ha apparentemente l’ambizione di proseguire l’opera, Tacito, cominciando il suo racconto «a principatu Caesaris Nervae»23. Al passo XXI 10,8, Costantino è accusato di aver sconvolto l’ordine stabilito, le leggi antiche e la tradizione, e di essere stato il primo ad aver lasciato che i barbari accedessero al consolato. Questo rimprovero è tuttavia attribuito a Giuliano, il quale lo avrebbe formulato in una lettera indirizzata al Senato. Giuliano è subito criticato da Ammiano per aver scioccamente censurato il suo predecessore, dato che egli stesso avrebbe, in seguito, promosso alla stessa carica un brutale germanico (rimprovero ripetuto a XXI 12,25). Lo storico, tuttavia, non rivela la sostanza del suo pensiero: se la prende solo con l’incoerenza di Giuliano, che rimprovera a Costantino quello che lui stesso farà poco dopo, o forse Ammiano disapprova anche la stessa iniziativa di Costantino? In realtà, Costantino non ha mai promosso dei barbari al consolato24. Ma ci si può anche domandare se Ammiano – di cui peraltro si sa che deplorava il ruolo sempre più importante rivestito dai barbari nell’Impero – ne fosse consapevole. Inoltre, la frase è formulata in modo tale da lasciare sospesa la possibilità di sapere se la promozione di un barbaro al consolato sia la sola innovazione di Costantino alla quale pensi Ammiano. Se ne può legittimamente dubitare, in quanto c’è una singolare sproporzione tra il carattere molto generale del rimprovero e la relativa innocuità del caso specifico riportato. Il lettore è così invitato a leggere tra le righe e pensa evidentemente in primo luogo alla conversione al cristianesimo25.
Un altro motivo anticostantiniano già sostenuto da Giuliano è a ogni modo chiaramente presente in Ammiano, quello dell’avidità e della prodigalità. Parlando del saccheggio delle province intrapreso da Costanzo II, egli precisa che prove certe attestano che Costantino, primo fra tutti, «aprì le fauci» («fauces aperuit») dei suoi familiari26. Lo stesso sentimento si manifesta in un passo che, senza il parallelo di un cronachista bizantino, resterebbe per noi sibillino. Si tratta di un rinvio fatto dallo storico a un passo precedente della sua opera che non si è conservato, citato a proposito di una precisazione apologetica in favore di Giuliano: non è quest’ultimo ma Costantino ad aver risvegliato l’ardore guerriero dei persiani contro i romani, dal momento che aveva creduto alle bugie di Metrodoro, «così come abbiamo riportato in dettaglio in precedenza»27. La chiave del mistero ci è fornita da Cedreno28: il persiano Metrodoro si reca, con il pretesto di praticare la filosofia, in India e dai bramini. Egli suscita la loro ammirazione grazie alla sua vita ascetica e facendo loro conoscere tecniche idrauliche che essi ignoravano (mulini, vasche). Ammesso nel loro tempio, si impadronisce di pietre preziose in gran numero e ne riceve altre dal re degli indiani, con la missione di consegnarle a Costantino. Rientrato a Costantinopoli, le offre all’imperatore come se si trattasse di un regalo offerto da lui stesso, e aggiunge di averne inviate altre in un precedente convoglio, ma che i persiani se ne erano impossessati. Costantino scrive una lettera perentoria a Shabur per reclamarle. Non ottenendo alcuna reazione da quest’ultimo, egli rompe la pace conclusa con i persiani nel 298. L’autenticità di questa storia è stata variamente discussa, e le sue eventuali conseguenze politiche senza dubbio non sono state così semplici e drastiche come afferma Cedreno. L’allusione che vi fa Ammiano, e le sue parole, «Metrodori mendaciis auidius adquiescit», bastano tuttavia a provare che egli, per quanto gli compete, dà ampio credito all’accusa di avadità propria della propaganda ostile a Costantino29.
Libanio, l’illustre retore d’Antiochia, è quasi contemporaneo di Ammiano. Pagano convinto, egli adotta ovviamente l’interpretazione negativa del regno di Costantino. Probabilmente nel 38630, egli si rivolge all’imperatore Teodosio per rivendicare un minimo di tolleranza nei riguardi dei pagani, nel suo trentesimo discorso intitolato In difesa dei templi. Libanio evoca la conversione di Costantino al cristianesimo e afferma che questi utilizzò i tesori confiscati dai templi per costruire la sua nuova capitale sul Bosforo31. Più in là, in una frase un po’ sibillina, egli aggiunge che Costantino fu severamente punito per queste confische, prima attraverso un castigo che gli venne inflitto direttamente, più tardi con un altro che subì dopo la sua morte. Inoltre, a eccezione di qualche raro privilegio, tutti gli abitanti della sua nuova capitale, ridotti all’indigenza a causa della sua prodigalità, lo maledicono32. Si concorda nel vedere nel primo castigo un’allusione agli omicidi di Crispo e Fausta, nel secondo il massacro dei suoi fratellastri, avvenuto poco dopo la sua morte. Nel quarantanovesimo discorso, posteriore di qualche anno33 e intitolato In difesa delle curie municipali, egli riprende il motivo dell’impoverimento della classe dei membri delle curie municipali, un tempo fortunate, ma poi rovinate da varie decisioni di Costantino, in particolare dalla costruzione della sua nuova capitale, che li obbligò a vendere le loro proprietà fondiarie. A questa prima accusa egli aggiunge quella di aver seminato i germi di una nuova guerra contro i persiani, chiara allusione alla storia delle bugie di Metrodoro34. Si riscontra dunque che Libanio si appropria dei motivi, ormai consolidati, degli omicidi, dell’avidità e della prodigalità, considerati quali conseguenze della conversione.
L’Anonymus de rebus bellicis è una breve e insolita opera di poco più di quindici pagine: si tratta di un progetto di riforma indirizzato a due imperatori non citati, un’opera che tratta soprattutto di macchine da guerra e di qualche altro problema militare, ma anche di questioni economiche e sociali: giustizia, fiscalità, circolazione della moneta. Pochi testi sono stati oggetto di interpretazioni più divergenti: esso è ritenuto ora geniale, ora banale, e datato agli anni 340, 370, o alla metà del V secolo35. Le risposte date a tali controverse questioni non interessano molto in questa sede, poiché la teoria monetaria che sviluppa l’autore, vera o falsa che sia, geniale o sciocca, si inscrive in un caso come nell’altro nel contesto della leggenda nera di Costantino. Essa parte dalla constatazione di una massiccia messa in circolazione di monete d’oro che avvantaggia i più ricchi e opprime i più poveri, le cui entrate sono essenzialmente rappresentate da monete in rame oggetto di una svalutazione progressiva rispetto a quelle d’oro. Ecco la traduzione delle righe iniziali del capitolo in questione: «All’epoca di Costantino, una messa in circolazione smisurata fece sì che l’oro rimpiazzasse il rame – considerato prima come prezioso – nelle piccole transazioni. Ora, si pensa che l’origine di questa avidità sia stata la seguente. Una grande quantità di oro, di argento e di pietre preziose un tempo conservate nei templi furono in effetti messe in circolazione, questo fenomeno accese in tutti il desiderio di spendere e acquistare»36. L’autore sembra descrivere un processo inflazionistico dovuto alla confisca dei tesori dei templi pagani, conseguenza della conversione di Costantino: la messa in circolazione di un abbondante conio in metallo prezioso non accompagnato da un aumento dei beni e dei servizi provoca un innalzamento dei prezzi calcolati in monete di rame. Ci si può domandare se non sia opportuno mettere in relazione questo fenomeno con l’istituzione, a opera di Costantino, di un’imposta dovuta in metalli preziosi, detta chrysargyron, che colpiva i beni mobiliari e i servizi delle popolazioni urbane che non possedevano ricchezza immobiliare: imposta severamente censurata, nel contesto della sua polemica anticostantiniana, da Zosimo37.
La Historia Augusta, una collezione di biografie imperiali da Adriano a Caro, con una lacuna per gli anni 244-260, è al centro di una polemica che dura da più di centoventi anni: le Vite, presumibilmente redatte da sei autori differenti all’epoca di Diocleziano e di Costantino, sarebbero in realtà – secondo l’opinione oggi dominante – l’opera di un solo anonimo che scrive alla fine del IV secolo38. Il regno di Costantino non vi è incluso, ma sei delle trenta biografie sono dedicate all’imperatore: Clodio Albino, Geta, Eliogabalo, Alessandro Severo, Massimo e i tre Gordiano. Queste dediche implicano teoricamente una redazione contemporanea a Costantino. I numerosi anacronismi, e specialmente il modo in cui Costantino vi è presentato, espressamente o per allusioni, avvicinano cronologicamente la testimonianza della Historia Augusta a quelle di Ammiano e Libanio, vale a dire a una vulgata anticostantiniana diffusa negli ultimi due decenni del IV secolo. Oggi è generalmente ammesso che le due biografie più importanti dedicate a Costantino, cioè quelle di Eliogabalo e di Severo Alessandro, sono tali per effetto di una crudele ironia, in quanto questi due principi di origine siriaca che si succedono l’uno all’altro sono delineati in un dittico fortemente in contrasto, il primo come il principe più abietto, il secondo come il più ammirevole; il primo come una prefigurazione di Costantino, il secondo come una prefigurazione del suo contrario, Giuliano. Il primo ha soppresso i culti tradizionali romani, ha imposto dappertutto il suo dio come sola divinità, ha profanato i luoghi di culto, ha violentato una vestale, ha voluto spegnere il fuoco eterno39. Su due aspetti, un parallelismo sembra evidente. Eliogabalo si rifiuta di salire al Campidoglio per celebrarvi un sacrificio40 come farà più tardi Costantino secondo Zosimo41. Egli fa distruggere dei sepolcri pagani sul colle Vaticano per sostituirvi delle quadrighe di elefanti42, proprio come farà più tardi Costantino per costruirvi la basilica di San Pietro43. D’altra parte, Eliogabalo rappresenta Costantino anche per la sua inclinazione all’accidia e al lusso. Al contrario, Severo Alessandro è il paradigma di tutte le virtù, attento alla giustizia, ostile alle spese eccessive, preoccupato di non opprimere le province con le imposte per favorire i cortigiani indegni44. Egli avrebbe voluto essere considerato un vero romano45, manifestando a titolo privato la tolleranza più largamente sincretista46. Severo Alessandro aveva saputo circondarsi di amici fedeli e di consiglieri onesti, aveva allontanato dalla sua presenza gli eunuchi, che si erano imposti come soli intercessori presso i cattivi imperatori47.
Un motivo inedito di polemica anticostantiniana si nasconde sotto una forma a prima vista innocente nella parte finale della Vita di Eliogabalo. L’anonimo, sotto il nome di Elio Lampridio, si rivolge direttamente a Costantino. La presenza sul trono imperiale di cattivi principi lo stupisce, e cita a questo proposito un’affermazione dello stesso Costantino: «imperatorem esse fortunae est», «essere imperatore deriva dalla sorte». La forza del destino eleva al potere supremo individui senza che le loro qualità siano tenute in alcun conto48. Si deve forse vedere qui un rinvio (inconsapevole) a Svetonio, che in Tito 9,1 afferma che «principatum fato dari» («il principato è offerto dal destino»). Come che sia, Lampridio si permette così di mettere nella bocca del principale interessato, attraverso un audace paradosso, un’affermazione che contraddice assolutamente l’interpretazione del significato del regno di Costantino di Lattanzio ed Eusebio. In essi, la vittoria su Massenzio è riportata grazie a un soccorso divino, instinctu divinitatis, come proclamato dall’iscrizione sul suo arco di trionfo. L’avvento di Costantino all’Impero, le sue successive vittorie sui concorrenti sono state volute dalla divina provvidenza, ed esse giocano un ruolo centrale nell’economia della salvezza dell’oikoumene ormai riunita dal potere monarchico di un imperatore cristiano, riflesso in terra della monarchia divina. A questo sontuoso scenario eretto dall’interpretazione cristiana della storia, la collezione delle biografie imperiali oppone audacemente una visione completamente desacralizzata del destino dell’Impero romano, abbandonato alla mercé di una vis fatalis così vincolante quanto imprevedibile e incomprensibile. Questa dottrina estrema contraddice certo anche la concezione pagana della missione di Roma aeterna, cantata da Virgilio e ripresa dagli ultimi fedeli degli antichi culti, come Ammiano Marcellino, Simmaco, Rutilio Namaziano. Una volta ancora, la Historia Augusta, a un esame che non si limiti all’apparenza superficiale di un gioco gratuito, incoerente e spesso di un gusto dubbioso, si rivela come un testo talvolta esplosivo per quanti sanno leggere tra le righe49.
Questi due autori sono di gran lunga i più importanti portatori della tradizione storiografica anticostantiniana, ma allo stesso tempo costituiscono un doppio problema filologico la cui soluzione definitiva ci sfugge per mancanza di informazioni. È dunque indispensabile introdurre l’argomento prima di entrare nel merito. Zosimo è l’autore di una Storia nuova in sei libri che narra la storia dell’Impero romano da Augusto all’estate del 410. Il testo, scritto tra il 498 e il 518, è incompiuto, essendo rimasto l’ultimo libro in sospeso dopo tredici pagine. Il patriarca Fozio, nelle avvertenze che gli dedica nella sua Biblioteca (cod. 98), afferma in particolare che Zosimo non ha scritto una storia, ma ha trascritto quella di Eunapio. Eunapio, in effetti, ha redatto un’opera storica di cui noi non possediamo che dei frammenti; una prima edizione è stata pubblicata dopo il 395, una seconda dopo il 414; i frammenti conservati provengono esplicitamente dalla seconda, che copre gli anni dal 270 al 404. Tali dati, almeno per il periodo 270-404, sembrano confermare l’affermazione di Fozio. Le opere di Eunapio e Zosimo, così come la natura esatta della loro relazione, sollevano delle questioni complesse e controverse che sarebbe inopportuno affrontare in questa sede50. È qui sufficiente dire che i capitoli dall’ottavo al trentanovesimo del secondo libro della Storia nuova – che trattano il regno di Costantino – si ispirano molto da vicino e passivamente al racconto di questo stesso periodo proposto da Eunapio, e che l’interpretazione anticostantiniana che vi si manifesta in modo assai incisivo riflette quella che poteva prevalere negli ultimi anni del IV secolo, dunque in un periodo molto vicino a quello in cui scrivono Ammiano e Libanio. È opportuno inoltre precisare che Zosimo riassume concisamente Eunapio, e troppo spesso in modo negligente e disattento. Il lettore potrà farsi una minima idea delle trappole filologiche che costellano lo studio di Eunapio e di Zosimo tramite il seguente dettaglio erudito. Per quel che riguarda il regno di Costantino, possediamo un solo frammento di Eunapio che tecnicamente è più un testimonium che un frammento vero e proprio. Si tratta di due righe estratte dall’altra opera di Eunapio, quest’ultima conservata, cioè le Vite dei sofisti, redatte entro la prima e la seconda edizione della sua opera storica, e contenenti una serie di allusioni alla prima. L’allusione che qui ci interessa51 menziona in stile telegrafico i favori accordati da Costantino al suo prefetto del pretorio favorito, Ablabio, il fatto che egli ne fu punito, e la morte del sovrano: elementi menzionati nell’opera storica, i primi due dei quali non sono ripresi da Zosimo52.
Un’altra difficoltà filologica sorge all’inizio del secondo libro della Storia nuova, in una sezione che precede il racconto del regno di Costantino, e che tuttavia lo riguarda. Nell’unico manoscritto conservato dell’opera di Zosimo, un quaderno costituito da quattro fogli piegati in due e scritti fronte-retro, in tutto sedici pagine, è strappato. Esso conteneva il racconto del regno di Diocleziano e dei tetrarchi, la fine del primo libro apparentemente coincideva con l’abdicazione di Diocleziano e di Massimiano, il primo maggio 305. Il secondo libro cominciava con una digressione sui Giochi secolari; l’essenziale è conservato nella parte che segue il quaderno staccato, e costituisce oggi i capitoli 1-7 del secondo libro53. La ragion d’essere di questa lunga inserzione, che a prima vista sembra fuori luogo, emerge nei passaggi 5,5; 6,35-37 e 7. Qui si stabilisce un legame tra la celebrazione dei Giochi conformemente ai riti e la salvezza e la prosperità dell’Impero romano. È dopo l’abdicazione di Diocleziano che, per la prima volta dopo la loro istituzione, i Giochi secolari non vengono celebrati dopo il prescritto intervallo di centodieci anni. I Giochi, celebrati per l’ultima volta sotto il regno di Settimio Severo nel 204, avrebbero dovuto essere nuovamente organizzati nel 314, ma ciò fu disatteso. Da allora l’Impero, invaso dai barbari, cade poco a poco in rovina, sino alla situazione catastrofica che segna, secondo Zosimo, l’epoca in cui egli stesso scrive. Si comprende qui perché la digressione sia inserita dopo la menzione dell’abdicazione di Diocleziano: è questo episodio che porta all’ascesa al potere supremo di Costantino, responsabile dell’omissione del 314. Quello che colpisce è che, nel contesto del ragionamento sviluppato nel capitolo 7, il nome di Costantino non è menzionato, e di conseguenza non lo è neanche il motivo della mancata celebrazione dei giochi. Questo silenzio può essere frutto della negligenza di Zosimo, ma è più probabile che esso sia intenzionale: in effetti, in una trattazione ulteriore, lo storico menziona e spiega la conversione di Costantino al cristianesimo in un contesto completamente differente, riguardante l’anno 326, dunque posteriore di dodici anni alla non celebrazione dei giochi del 314. Si è dunque alla presenza di un’incontestabile incoerenza, senza dubbio un po’ camuffata, nel racconto di Zosimo, tanto più sorprendente per il fatto che le conseguenze dell’omissione del 314 sono formulate in una prospettiva provvidenzialista54 che si ritrova anche altrove nella Storia nuova, dove, come si vedrà oltre, è l’episodio del 326, e non quello del 314, a costituire il perno del regno secondo l’interpretazione pagana.
Costantino entra in scena immediatamente con la ripresa del racconto storico dopo la digressione sui Giochi secolari. Secondo la versione generalmente ammessa, che si legge in modo particolare nell’Origo Constantini (2-4) e in Lattanzio (De mortibus persecutorum 24), Costanzo Cloro, sentendo prossima la sua fine, avrebbe convocato a Boulogne, presso di lui, suo figlio Costantino. Nel fare questo però Costanzo Cloro si sarebbe scontrato con il rifiuto di Galerio, presso il quale, a Nicomedia, il giovane principe risiedeva. Zosimo (II 8,2-3), assieme ad Aurelio Vittore (40,2) e all’Epitome de Caesaribus (41,2) riferisce al contrario che lo stesso Costantino, divorato dall’ambizione di accedere al potere supremo, avrebbe preso l’iniziativa di fuggire segretamente e di raggiungere suo padre prendendo delle precauzioni per non essere raggiunto. Si tratta senza dubbio di un’alterazione con l’obiettivo di presentare sin dall’inizio Costantino sotto una cattiva luce.
Il racconto che propone Zosimo per gli anni 305-312 è poco chiaro, pieno di confusione, e non rispetta la successione cronologica degli avvenimenti. Il tono è molto ostile a Massenzio, Costantino resta in secondo piano ed è trattato con una certa indulgenza. La sua eventuale responsabilità nella morte di suo suocero Massimiano Erculio è menzionata solo come pretesto inventato da Massenzio per avviare le ostilità contro di lui55. Zosimo per errore fa morire il vecchio imperatore di malattia dopo aver a lungo complottato, in particolare contro suo genero, per ritornare al potere56. La campagna militare che sfocia nell’episodio di ponte Milvio è anch’essa descritta da un punto di vista sfavorevole a Massenzio, ma chiaramente la pretesa visione di Costantino è passata sotto silenzio. Secondo una tecnica attestata anche altrove della propaganda pagana, il miracolo della visione, riportato dalla tradizione cristiana, viene fatto sparire ed è sostituito da un prodigio non connotato religiosamente: un volo di civette che si abbatte sulle mura di Roma, segno considerato favorevole a Costantino57. L’invenzione di questo motivo è debole e maldestra: il suo significato non è evidente e Costantino, che non ha ancora varcato il ponte Milvio, non può a ogni modo aver osservato il fenomeno, localizzato sulle mura Aureliane ad almeno tre chilometri di distanza. A battaglia terminata, il popolo di Roma, liberato da una crudele tirannia, accoglie il vincitore con esultanza.
Comincia allora il periodo in cui Costantino e Licinio, rimasti soli alla guida dell’Impero, vivono all’inizio in buona armonia. Questa concordia, tuttavia, dura solo per un breve periodo e, secondo Zosimo, è Costantino che porta l’intera responsabilità della rottura: in piena malafede, «secondo la sua abitudine», è precisato, egli non rispetta gli accordi conclusi e cerca di impadronirsi di province appartenenti a Licinio, così che la guerra scoppia tra i due rivali58. La Storia nuova propone un racconto molto circostanziato e imparziale della campagna di Cibali nel 316 e del nuovo accordo che ne segna la conclusione59. Zosimo non dice quasi niente degli anni 317-323, e passa subito alla seconda guerra tra Costantino e Licinio, nel 324, con una narrazione molto ricca di dettagli e, come la precedente, oggettiva e neutra60. Licinio, vinto, si sottomette al suo rivale confidando nelle garanzie accordate da Costantino e nelle sue promesse. Ma quest’ultimo le viola immediatamente – Zosimo aggiunge, come in precedenza, «questo gli era in effetti abituale» – e lo fa impiccare61.
Il capitolo II 29 costituisce il cuore della polemica anticostantiniana nella Storia nuova. Eccone le prime righe: «Quando tutto il potere fu nelle mani del solo Costantino, questi ormai non nascondeva più la cattiveria che gli era naturale, ma si prese la libertà di agire in tutti i campi secondo il suo piacimento». Egli celebra ancora i culti ancestrali, non per convinzione, ma per interesse. Manifesta la sua inclemenza innanzitutto all’interno della propria famiglia, condannando a morte suo figlio Crispo, sospettato di avere una relazione con Fausta, sua moglie. Come a voler consolare sua madre Elena, che se ne era indignata, egli fece condannare anche Fausta. Si ha qui un bell’esempio della goffaggine di Zosimo: il suo racconto, eccessivamente sintetico, salta due passaggi essenziali, tanto da renderlo incomprensibile. Zosimo, infatti, non si interroga su chi abbia denunciato Crispo, né sul perché il comprensibile dolore della nonna Elena provochi la condanna di Fausta, o ancora sul perché la morte di quest’ultima rappresenti per Elena una consolazione. Fortunatamente possediamo un racconto parallelo molto vicino, che deriva chiaramente dalla stessa fonte, nell’Epitome de Caesaribus 41,11, dove si conserva un’informazione tralasciata da Zosimo: Costantino ordina di mettere a morte Crispo «Fausta coniuge, ut putant, suggerente», «su istigazione, si pensa, di sua moglie Fausta». Si comprende allora come, secondo lo schema di Fedra e Ippolito, Fausta sostenga che sia stato Crispo ad averla insidiata, e si intuisce facilmente quale sia il secondo elemento mancante, omesso tanto dall’Epitome quanto da Zosimo: Elena scopre l’inganno di Fausta e denuncia quest’ultima a suo figlio, il quale fa uccidere sua moglie62. Non mi attardo su questioni sulla veridicità di questo racconto, che sembra essere una trasposizione romanzesca elaborata a partire da voci diverse. Soprattutto l’esecuzione di Fausta in una vasca bollente appare molto sospetta. La donna potrebbe essere stata semplicemente vittima di un infarto durante un bagno troppo caldo. Quello che qui è importante è il ruolo di questa storia – vera, adattata o inventata – nella tradizione anticostantiniana. Tormentato dai rimorsi, Costantino interroga alcuni sacerdoti pagani per sapere se esistano sacrifici espiatori in grado di purificarlo. La loro risposta è negativa. Un anonimo egiziano arrivato dalla Spagna a Roma – ci si perde in congetture sull’identità di questo personaggio, nel quale si vede spesso, senza prove solide, Ossio di Cordova – conferma allora a Costantino che la fede cristiana contempla la promessa che i convertiti sono subito lavati dai loro peccati. Felicissimo per questa soluzione insperata, Costantino si allontana dai riti ancestrali e adotta la religione cristiana. Avvertito da una visione che gli invia l’egiziano, egli rinunzia a salire al Campidoglio per celebrare un sacrificio tradizionale, attirando così su di sé l’odio del Senato e del popolo romano.
Il capitolo II 29 della Storia nuova ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro. L’episodio del rifiuto di salire al Campidoglio è talvolta considerato interamente inventato, e quelli che ne ammettono l’autenticità divergono sulla data da assegnargli, poiché tre sono i soggiorni di Costantino a Roma: nel 312, 315 e 326. Il contesto del racconto della Storia nuova invita a situare il rifiuto, presentato come prima manifestazione pubblica della conversione di Costantino al cristianesimo, dopo la vittoria su Licinio, dunque nel 326, ma d’altra parte tutto porta a credere che Costantino avesse manifestato delle forti simpatie verso il cristianesimo già dal 312. Inoltre, lo stesso Zosimo attesta una conversione molto anteriore al 326, attribuendovi implicitamente la non celebrazione dei Giochi secolari nel 314. Quanto al motivo centrale del battesimo che lava tutti i peccati anteriori, lo si è già visto messo in opera dall’imperatore Giuliano nei suoi Cesari, e sappiamo che esso gioca un ruolo anche nel Contro i Galilei dello stesso Giuliano, conosciuto grazie alla confutazione che ne ha proposto Cirillo d’Alessandria63. La versione della conversione di Costantino presentata da Zosimo al capitolo II 29 è dunque il frutto di un montaggio di elementi diversi, apparentemente ripresi da Eunapio: elementi che si trovano già, con leggere varianti, confutati nella Storia ecclesiastica di Sozomeno64, redatta verso la metà del V secolo, dunque un buon mezzo secolo prima di Zosimo. Il racconto di Sozomeno diverge da quello di Zosimo sui seguenti punti: 1. Tra le vittime degli omicidi di Costantino sono menzionati dei parenti prossimi e Crispo, ma non Fausta; nessun motivo è addotto per spiegare queste condanne a morte. 2. Per essere purificato, Costantino non si rivolge ad anonimi sacerdoti, ma al filosofo Sopatro. 3. Egli incontra per caso dei vescovi; non c’è alcuna menzione di un egiziano venuto dalla Spagna. 4. Persuaso da costoro, egli si converte e invita i suoi sudditi a imitarlo; non si fa cenno di un rifiuto di salire al Campidoglio. La confutazione di Sozomeno è molto abile. Ecco i suoi argomenti: 1. Una serie di leggi di Costantino che favoriscono i cristiani è anteriore alla morte di Crispo, la quale è dunque senza rapporto con la conversione di suo padre. 2. Trovandosi in Gallia, Costantino non poteva aver avuto contatti con Sopatro, che risiedeva in Oriente. Questo argomento è certamente viziato sul piano cronologico, in quanto Costantino risiede in Gallia principalmente fino al 316 e Crispo non è condannato che nel 326. Ciononostante è vero che Sozomeno è indotto in errore dal fatto che la versione proposta da Zosimo mescola avvenimenti del 312 con altri del 326. 3. Sopatro non poteva ignorare che Ercole era stato purificato ad Atene grazie ai misteri di Demetra dopo il massacro dei suoi figli e l’omicidio di Ifito.
Esiste un’altra versione della storia di Crispo e di Fausta, di poco anteriore alla confutazione fatta da Sozomeno della versione del racconto così come si legge in Zosimo, e che presenta in relazione a esso una variante notevole. Essa si trova nella Storia ecclesiastica di Filostorgio, che racconta in dodici libri il periodo dal 325 al 425 e che fu pubblicata poco dopo il 430. Non è conservata in tradizione diretta, il che non deve sorprendere essendo Filostorgio un ariano del ramo estremista degli eunomiani. Si può, nonostante ciò, farsene un’idea molto esatta specialmente grazie a tre serie di estratti conservati da Fozio, da una Passione di Artemio dovuta a un tale Giovanni di Rodi anteriore al X secolo e da una Vita di Costantino anonima65. L’importanza della Storia ecclesiastica è che essa conserva per noi il punto di vista di un cristiano minoritario e perseguitato dai cattolici. Sebbene ovviamente molto ostile ai pagani, Filostorgio ha utilizzato delle fonti profane, e in particolare Eunapio. In questo contesto, egli ha interesse a proporci una versione un po’ diversa della storia di Crispo e Fausta66. Costantino fa morire suo figlio Crispo (affermazione calunniosa secondo l’ortodossa Vita di Costantino), vittima di una denuncia menzognera della sua matrigna Fausta. Questa è in seguito colta sul fatto durante una relazione adultera con un servitore di basso rango e messa a morte in un bagno caldo, con l’esecuzione camuffata da incidente. Costantino si trova così per buona parte discolpato: non solo ha fatto morire Crispo unicamente perché lo credeva veramente responsabile, ma ha punito Fausta perché ha falsamente accusato Crispo, e allo stesso tempo perché questa si è resa colpevole di adulterio. Si vede dunque che Filostorgio elimina il ruolo di Elena e inventa la storia dell’adulterio. Egli stabilisce d’altra parte espressamente un parallelo tra il dramma nella famiglia di Costantino e la storia di Fedra e Ippolito. È impossibile accertare se questo parallelo sia opera di Filostorgio, o se piuttosto l’avesse già evocato Eunapio. In ogni caso, si tratta di un parallelo zoppicante perché nel mito Fedra non è adultera, né è messa a morte da Teseo, ma si suicida. Per Filostorgio, Fausta è dunque più una Messalina che una Fedra. È opportuno inoltre precisare che, a suo giudizio, il dramma familiare non è in relazione con l’adesione al cristianesimo.
Il racconto della conversione costituisce il cardine del regno di Costantino nell’economia dell’interpretazione che propone Zosimo. Si spiega così la bipartizione del regno già menzionata da Eutropio, come visto supra. Prima della conversione questo imperatore, che certo porta già i segni dell’amore per il potere e per la perfidia, è tuttavia sempre vittorioso sul campo di battaglia sia contro i suoi rivali, che elimina uno dopo l’altro, sia contro il nemico esterno. La conversione trasforma Costantino da buon imperatore a cattivo imperatore. Tutto il racconto di Zosimo è organizzato in questa prospettiva. Nel raggruppare in maniera apparentemente logica a livello di piano espositivo le innovazioni istituzionali del regno che evidentemente condanna, egli le situa tutte dopo il 326, non preoccupandosi assolutamente della cronologia. Questa critica del regno occupa i capitoli II 30-38, in cui si intrecciano i seguenti temi:
1. A occupare la maggior parte dello spazio, e ripresa in più passi, sono innanzitutto la fondazione di Costantinopoli sul sito di Bisanzio, l’abbellimento della nuova residenza imperiale, e le conseguenze di questa scelta. Di ciò si tratta in II 30,1, dove si stabilisce un legame di causa-effetto tra l’odio suscitato a Roma dal rifiuto di salire al Campidoglio e il desiderio del colpevole di stabilirsi altrove, in una città destinata a diventare la rivale vittoriosa dell’antica capitale. Questi sviluppi si articolano nella maniera seguente:
1a. II 30,1-II 31,3a: Scelta del sito e sua descrizione, ingrandimento e abbellimento dell’antica città, le vecchie e le nuove mura, il foro, il palazzo imperiale, l’ippodromo, i portici, le statue tutelari.
1b. II 32,1: Generosità rovinosa di Costantino verso gli abitanti della città, costruzioni inutili, degradazione rapida degli edifici costruiti in fretta e senza cura.
1c. II 35: Ulteriori ingrandimenti della città, resi necessari da un’affluenza enorme di popolazione formata da funzionari e da imprenditori privati; pericolo e scomodità risultante da un’eccessiva densità abitativa.
1d. II 36-37: Ricerca, citazione e commento di un oracolo attribuito alla Sibilla di Eritrea che annuncia la futura grandezza di Bisanzio.
La cronologia prova che la relazione di causa-effetto affermata da Zosimo è un’invenzione: i primi segni della volontà di Costantino di fondare una nuova capitale risalgono al 324 ed è solo nel 326 che le relazioni tra l’imperatore e Roma cominciano a compromettersi. Costantino aveva delle motivazioni in primo luogo politiche, strategiche ed economiche per scegliere una nuova capitale, il desiderio di prendere le sue distanze dalla Roma pagana è secondario67.
2. Costantino ha anche condotto delle campagne militari vittoriose dopo il 326, ma Zosimo non ne menziona nessuna. In compenso egli registra in termini contradditori, in qualche riga inserita in II 31,3b, al centro della prima trattazione dedicata a Costantinopoli, una guerra disastrosa contro i taifali: l’imperatore non oppone a essi alcun esercito e nonostante ciò perde la maggior parte delle sue forze. Questo passaggio, senza alcun parallelo nelle altre fonti, ha suscitato una comprensibile perplessità fra i commentatori. La spiegazione più verosimile di questo piccolo enigma è che si tratti di un’invenzione della propaganda anticostantiniana che aspira a opporsi a una presentazione apologetica della politica estera di Costantino che mette in rilievo un grande successo sulla frontiera danubiana, contemporaneo all’ampliamento di Costantinopoli (fatto che spiega l’insolito inserimento di questa informazione da parte di Zosimo): la costruzione di un ponte di pietra sul fiume, preliminare a una riconquista della Dacia abbandonata da Aureliano68.
3. Zosimo introduce anche, nelle parti consacrate a Costantinopoli, tre sviluppi che criticano le riforme amministrative costantiniane. Il primo riguarda la trasformazione della prefettura del pretorio69. In precedenza due prefetti del pretorio condividevano la carica; essi comandavano le truppe di stanza a Roma, avendo la responsabilità suprema della logistica e dell’addestramento per tutto l’esercito. Costantino sconvolge questo sistema consolidato. Egli fa passare il numero di prefetti da due a quattro e attribuisce a ciascuno di loro una competenza territoriale. La Storia nuova propone una presentazione del tutto parziale della riforma della prefettura del pretorio. A seguire la sua testimonianza, si potrebbe credere che questa trasformazione sia intervenuta repentinamente, dopo il 326, per effetto di una decisione solitaria e sovrana di Costantino, così che il nuovo sistema sarebbe sorto nella sua nuova e definitiva formula come Atena tutta armata dalla testa di Zeus. La realtà è assai diversa: si tratta di un processo molto lungo, che comincia dopo il 312 e si prolunga oltre la morte di Costantino nel 337, risultato di molteplici sforzi e tentativi successivi, il cui dettaglio non è conosciuto nei minimi particolari e rappresenta l’oggetto di controversie molto tecniche fra specialisti. In particolare le quattro giurisdizioni territoriali definite da Zosimo hanno fatto scorrere fiumi d’inchiostro, poiché dopo Costantino e fino a Teodosio è prevalsa quasi sistematicamente una suddivisione in tre prefetture. È verosimile che la quadripartizione presentata da Zosimo rifletta all’incirca la situazione che prevale nel V secolo70. A ogni modo, la versione proposta dalla Storia nuova manca totalmente di prospettiva storica, ignora la cronologia e a fini propagandistici trasforma un’evoluzione di lungo periodo nata da tentativi successivi in un modello statico sorto come per effetto di una bacchetta magica per volontà di un riformatore deplorevole.
4. La seconda e terza riforma71, censurate da Zosimo, riguardano la riorganizzazione del comando dell’esercito e la creazione del comitatus, cioè del corpo dell’esercito mobile legato alla persona dell’imperatore. Questi due passaggi sono confusi, poiché Zosimo definisce in maniera insufficiente e maldestra la situazione di partenza sulla base della quale si sviluppa la riforma e stabilisce un legame di causa-effetto inappropriato fra la trasformazione della prefettura del pretorio e le riforme militari. In II 33,3 Zosimo parla di centurioni, di tribuni e di duchi. Le due prime funzioni risalgono all’Alto Impero, mentre i duchi sono una creazione di Diocleziano: essi comandano l’insieme delle legioni, i cui effettivi vengono assai ridimensionati, posti agli ordini di un prefetto equestre e stanziati in una provincia, posto che il numero delle province è aumentato di molto e la loro estensione fortemente diminuita da Diocleziano. Questa trasformazione è una delle conseguenze della riforma di Gallieno (260-268), che priva i governatori delle province delle loro competenze militari, e non della riforma della prefettura del pretorio. Il silenzio di Zosimo su questi diversi aspetti toglie ogni valore al suo racconto. Egli prosegue con la creazione dei magistri militum, che è molto posteriore poiché data agli anni Venti del IV secolo; si tratta di generali in capo che comandano i corpi mobili (comitatus) legati a ogni imperatore, la cui prima origine risale alla creazione del corpo mobile di cavalleria, decisa anch’essa da Gallieno. Quanto ai prefetti del pretorio, se le loro competenze pubbliche sono aumentate molto durante il III secolo, essi non hanno mai esercitato comandi specifici nelle truppe posizionate alle frontiere, ma hanno tutt’al più operato come capi di Stato Maggiore in occasione di certe campagne comandate dall’imperatore in persona. La soppressione dei pretoriani nel 312, dopo la vittoria di Costantino su Massenzio, li priva solo delle loro competenze militari. Neanche di questo Zosimo dà conto, né spiega le ragioni strategiche, economiche, demografiche e politiche che hanno motivato la suddivisione dell’esercito, prima concentrato sulle frontiere, nei limitanei, sottile cordone lasciato alle frontiere, e nei comitatenses, corpo mobile disponibile per intervenire su teatri differenti secondo il bisogno. In II 34, Zosimo si limita a enumerare le supposte disastrose conseguenze di questa riforma attraverso un discorso moralizzante, fatto di luoghi comuni. La sua grande idea, sviluppata in II 33,4-5, è che Costantino non ha lasciato nelle mani di un solo responsabile i compiti di punire e nutrire, che è opportuno, in effetti, non dissociare affatto. Tuttavia è assai evidente che i prefetti del pretorio dirigevano la logistica a un altissimo livello, mentre la distribuzione delle razioni dipendeva dai quadri subalterni che avevano anche delle competenze nel mantenimento della disciplina. Uno studente che al giorno d’oggi consegnasse un saggio sulle riforme amministrative e militari di Costantino identico allo scritto di Zosimo otterrebbe un giudizio molto negativo: queste pagine di Zosimo, senza dubbio estratte da Eunapio, sono senza valore. Ma davvero non bisogna sorprendersi del fatto che un filosofo non capisca granché di questioni militari.
5. L’ultima trattazione dedicata alle riforme di Costantino riguarda l’introduzione di nuove imposte, e innanzitutto di quella chiamata chrysargyron, dunque dovuta in metalli preziosi (oro e argento) dai commercianti e anche dalle prostitute72. Zosimo descrive in termini patetici le conseguenze di questa nuova imposta, a suo giudizio una confisca, resa necessaria dal doppio effetto dell’avidità e dalla prodigalità fuori misura di Costantino. I collettori sono obbligati a ricorrere alle pene corporali per raccogliere le somme dovute, e i contribuenti ridotti a vendere i loro bambini oppure a farli prostituire, in un quadro che parrebbe richiamare il sud-est asiatico contemporaneo. Questa imposta fu introdotta fra il 312 e il 320, e soppressa nel 498. Fonti parallele confermano che essa fu estremamente impopolare. Ciononostante Zosimo non ce ne indica chiaramente la causa. In sé, non è scandaloso che anche gli artigiani non proprietari fondiari avessero da pagare un’imposta: il punto doloroso era che essa fosse esigibile in metallo prezioso. I piccoli commercianti avevano delle entrate in moneta di rame e dovevano dunque comprare oro o argento per pagare il dovuto, cosa che apparentemente non potevano fare senza subire l’effetto di un aggio: l’abbondante circolazione d’oro provocava una svalutazione progressiva delle monete di rame in rapporto alle monete in oro. La fine del capitolo riguarda due altre imposte aumentate o introdotte da Costantino prima del 324 che colpiscono i senatori proprietari fondiari73: il minimale di spese per i giochi offerti dai pretori a Roma in occasione della loro entrata in carica e un’imposta fondiaria supplementare. Il capitolo II 38 contiene una serie di informazioni interessanti che nessuna altra fonte fornisce, ma i dettagli relativi al chrysargyron non permettono di cogliere il meccanismo alla base delle proteste che esso provoca, inoltre la cronologia è di nuovo travisata, in quanto queste imposte sono state introdotte prima della data cardine del 32674.
La frase iniziale del capitolo II 39,1, in cui si riprende il racconto cronologico dopo la digressione sulle riforme di Costantino, riassume chiaramente il loro risultato nell’ottica di Zosimo, rappresentando una specie di breve ‘elogio funebre’ di questo principe: «Dopo aver mandato in rovina lo Stato sotto ogni aspetto, Costantino morì…». La Storia nuova ha conservato per noi la versione più ricca di un racconto completamente negativo del regno di Costantino. I motivi della conversione vi giocano un ruolo centrale; Costantino è qui delineato come un personaggio avido di potere, che ha disprezzo per la parola data, che condanna a morte i suoi parenti e i suoi amici, abbandonato a cattivi consiglieri, tanto avido quanto dissipatore, riformatore caotico incapace di prevedere i risultati delle sue decisioni, che alla sua morte lascia l’Impero in uno stato deplorabile. Questo individuo, che disponeva di un potere assoluto, porta da solo la responsabilità di aver abbandonato gli antichi culti e delle disgrazie che ne sono derivate. Si comprende allora meglio il senso di un passo della prefazione della Storia nuova (I 5) in cui si condanna lo stesso regime monarchico.
Poiché la Storia nuova contiene tanti orrori su Costantino, Teodosio, e in generale sui cristiani, si potrebbe supporre che i bizantini non abbiano avuto niente di più importante che fare sparire definitivamente un’opera così peccaminosa. Non è così, e per una ragione semplice: essendo Eunapio diffuso ed essendo il suo greco incomprensibile per la maggior parte dei lettori, quello di Zosimo era il solo libro di storia profana per il IV secolo, breve e redatto in una lingua semplice. Certamente, è un libro che non si mette nelle mani di chiunque e i suoi lettori se ne servono non senza abbondanza di precauzioni. Il suo primo utilizzatore attestato è Eustazio di Epifania, all’inizio del VI secolo, dunque immediatamente dopo la sua messa in circolazione. Poiché l’opera di quest’ultimo non si è conservata, s’ignora tutto quello che egli abbia potuto dire di Zosimo. Non è questo il caso di Evagrio Scolastico, del quale possediamo una Storia ecclesiastica in sei libri che coprono gli anni dal 431 al 593, messa in circolazione poco dopo il 595. È la soppressione del chrysargyron nel 498 che lo porta a parlare di Zosimo, «della religione maledetta ed esecrabile dei pagani». Evagrio dedica a Zosimo un passo abbastanza lungo a III 40-41: nel primo dei due capitoli egli riassume, in una ventina di righe, le diverse critiche indirizzate da Zosimo a Costantino, e nel secondo, molto più lungo (166 righe), le confuta75. Questa confutazione è invero abbastanza mediocre: molto disordinata nella sua struttura, essa non sfiora neanche la questione del chrysargyron, che ha tuttavia motivato in primo luogo la sua inserzione. In compenso, essa si attarda su diversi punti non enumerati in III 40. Le condanne a morte di Crispo e di Fausta sono negate con il pretesto che Eusebio non ne parla (il che è effettivamente esatto). Costantino non avrebbe potuto essere allo stesso tempo generoso e avido (in realtà, Zosimo afferma che la sua avidità verso alcuni è resa necessaria dalla sua prodigalità verso altri). Il ritardo del suo battesimo avrebbe avuto per motivo il suo desiderio di essere battezzato nel Giordano (questo argomento non comporta niente di incompatibile con la versione proposta da Zosimo). Un lungo passo è poi dedicato alla confutazione della teologia politica di Zosimo76. Circa tre secoli dopo, il patriarca Fozio introduce una breve nota su Zosimo nella sua Biblioteca (cod. 98), in cui ricorda, con poche parole e senza alcun dettaglio, che questo storico è ostile alla vera fede e agli imperatori cristiani. All’inizio del XIV secolo, Niceforo Callisto Xanthopoulos nella sua Storia ecclesiastica77 ripete quasi parola per parola il lungo passo di Evagrio senza apparentemente aver avuto accesso diretto a Zosimo. Ma il testo di Zosimo è rimasto disponibile a Costantinopoli fino a quando i turchi si impossessarono della città, dal momento che un manoscritto della Storia nuova è stato portato in Occidente, dove è attestato per la prima volta in un catalogo della Biblioteca Vaticana nel 1475. Comincia allora la seconda parte, occidentale, della sua sopravvivenza. Estratti di questo prezioso manoscritto (il Vat. Graec. 156) figurano in diverse opere pubblicate nei decenni successivi, ma verso il 1570 esso fu negato alla consultazione a causa della sua reputazione sovversiva e reso inaccessibile. È dunque a partire da una copia, senza dubbio clandestina, che Johannes Löwenklau (Leunclavius) produsse una traduzione completa in latino della Storia nuova, che apparve nel 1576 a Basilea all’inizio di una raccolta di diversi storici (in particolare Procopio e Agazia, tradotti anche in latino). Questa è preceduta da un’Apologia in difesa di Zosimo contro le accuse di Evagrio, di Niceforo Callisto e degli altri di nove pagine in quarto non numerate di poco più di cinquanta righe. Essa fu ristampata nel 1590, nella raccolta dei Romanae Historiae Scriptores Graeci Minores di Friedrich Sylburg78, che contiene per la prima volta il testo greco completo di Zosimo (i primi due libri erano già stati pubblicati in greco qualche anno prima), e in ultimo nell’edizione di Zosimo dovuta a Cellario (1679). Questo testo relativamente lungo, importante per la storia della ricezione di Zosimo, non è dunque facilmente accessibile. Löwenklau tratta i seguenti principali punti: chrysargyron, rapacità e prodigalità, condanna a morte di Crispo e di Fausta, conversione e battesimo, teologia politica. Egli passa poi ad altri temi, non discussi da Evagrio, e non in rapporto con Costantino. La sua esposizione è strutturata e argomentata molto meglio di quella di Evagrio. Egli conosce molto bene Zosimo per averlo tradotto da cima a fondo e apprezza talmente tanto gli apporti nuovi di questa fonte troppo trascurata che manifesta per essa una benevolenza eccessiva. Ciò che più colpisce sono le ‘contorsioni’ di questo cristiano, che vive in un secolo cristiano, per difendere una concezione della storia della tarda antichità in completa contraddizione con quella che domina in modo esclusivo nella sua epoca, e che dunque egli non può attaccare apertamente79.
Zosimo è presente in filigrana in una pièce teatrale del gesuita Bernardino Stefonio intitolata Crispus tragoedia, composta nel 1597, in piena Controriforma, dunque in un contesto in cui la personalità di Costantino è al centro di un vivo dibattito. L’autore si ispira agli Annali ecclesiastici di Baronio, che riproducono essi stessi la versione conosciuta grazie alla Passio Artemii, nella quale un Crispo innocente è condannato a morte da un padre che si credeva sinceramente ingannato da lui, e Fausta è giustiziata in seguito per aver indotto suo marito in errore. Lo stesso dramma familiare è ancora al centro di tre pièces teatrali della prima metà del XVII secolo. I loro intrighi si prestano a giustificare Costantino: o egli ignora che Crispo è suo figlio, o Crispo è innamorato di una sedicente figlia di Licinio, Costanza, e muore accidentalmente a causa di un guanto avvelenato che Fausta indirizza a Costanza, o ancora Fausta si suicida, come Fedra80.
Malgrado le riserve dei riformati, la vulgata eusebiana resta dominante in maniera esclusiva fino alla fine del XVII secolo, per esempio in Jacques Bénigne Bossuet. Senza rinnegarla, Sébastien Le Nain de Tillemont, nella sua Storia degli imperatori, correggendo Zosimo su alcuni dettagli, non perde tempo ad alimentare la controversia Evagrio-Löwenklau, circostanza che manifesta la superiorità di questo eminente erudito. La prova che il vento è cambiato nel XVIII secolo è fornita dall’edizione di Zosimo pubblicata nel 1784 da Johann Friedrich Reitemeier, ripresa con delle modifiche nella collezione degli storici bizantini di Bonn nel 1837. Non vi è ristampata l’Apologia di Löwenklau, senza dubbio perché egli considera il dibattito superato81. Al suo posto, Reitemeier propone un’Inchiesta su Zosimo e la sua credibilità, che presenta l’autore e l’opera come farebbe un’edizione attuale di un autore antico, al riparo da tutte le controversie religiose. È senza dubbio dopo quest’epoca che il Vaticano tolse l’embargo sul Vat. Graec. 156, sebbene sia stato necessario del tempo affinché qualcuno se ne rendesse conto, dato che solo nel 1887 Ludwig Mendelssohn pubblicò presso Teubner un testo della Storia nuova fondato non più su delle copie inesatte, ma sul manoscritto stesso che era stato portato in Occidente dopo il 1453.
La traccia meno visibile, ma più sorprendente e profonda che Zosimo ha lasciato nella tradizione storica moderna si legge dove non la si aspetta: nel Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon. Non che quest’ultimo non misuri la parzialità e le insufficienze di Zosimo. Quello che è tuttavia molto sorprendente, è che il piano della parte della sua opera dedicato al regno di Costantino riflette fedelmente la disposizione della Storia nuova. Nel suo capitolo 14 egli narra gli avvenimenti dal 305 al 324, vale a dire fino all’eliminazione di Licinio. Il racconto cronologico a partire dal 324 riprende molto dopo, con l’inizio del capitolo 18; il tono è molto negativo verso l’imperatore, divenuto crudele e dissoluto. Se egli fosse morto nel 324 avrebbe lasciato il ricordo di un eccellente imperatore. Gibbon racconta la catastrofe di Crispo e Fausta, evoca in particolare «the opposite yet reconcilable vices of rapaciousness and prodigalitiy», e il suo gusto per il lusso orientale degno di Eliogabalo (forse una reminiscenza, in Gibbon, della Historia Augusta). I capitoli 15 e 16 trattano dell’origine e dell’espansione del cristianesimo dopo le persecuzioni, il capitolo 17 della fondazione di Costantinopoli e delle riforme istituzionali di Costantino, giudicate molto severamente. Gibbon riprende anche i motivi di una bipartizione del regno di questo imperatore, degno di elogi fino all’eliminazione del suo ultimo concorrente, ma in seguito disastroso, e le due parti sono separate da una lunga trattazione consacrata alla nuova capitale e alle innovazioni del regno. Anche nei dettagli, l’esposizione del capitolo 17 segue in parte il piano di Zosimo (II 30-38), così come è stato presentato qui. Ciononostante, Gibbon non riprende la versione della conversione di Costantino che si legge nella Storia nuova. Secondo Gibbon è a partire dal 312 che Costantino comincia a manifestare delle simpatie verso la nuova religione, ma lo storico considera il celebre sogno prima della battaglia di ponte Milvio come un’invenzione del monarca, che utilizza «the altars of the church as a convenient footstool to the throne of the Empire». È evidente che il protestante liberale inglese, più o meno miscredente, seppur cosciente dei limiti di Zosimo, prova una grande inclinazione per l’interpretazione che questi propone del regno di Costantino e manifesta tale predilezione, difficile da giustificare interamente sul piano storico, adottando, tra i possibili molteplici piani per raccontare gli anni 305-337, precisamente quello che ha privilegiato Zosimo. Non è questo l’episodio che meno sorprende nel perdurare dell’influenza dell’autore della Storia nuova82.
1 Una parte di questo processo è stata analizzata molto in dettaglio da V. Neri, Medius princeps. Storia e immagine di Costantino nella storiografia latina pagana, Bologna 1992.
2 Cfr. Œuvres de Julien, éd. par G. Rochefort, II/1, Paris 1963, p. 42.
3 Iul., Contro Eraclio il Cinico, 22, 227C-234C.
4 Per la data e il titolo di quest’opera, cfr. Œuvres de Julien, éd. par C. Lacombrade, II/2, Paris 1964, pp. 3, 27-30.
5 Iul., Caes. 15, 315D.
6 Iul., Caes. 18, 317D.
7 Iul., Caes. 30, 328d-329D.
8 Iul., Caes. 36, 335A.
9 Iul., Caes. 38,356A-C.
10 Cfr. Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, hrsg. von R. Herzog, P.L. Schmidt, V, München 1989, p. 200.
11 Aur. Vict., Caes. 41,11.
12 Cfr. I. König, Origo Constantini, Trier 1987, p. 26: dopo il 381; la data resta controversa.
13 Cfr. Handbuch der lateinischen Literatur, cit., pp. 202-203.
14 Eutr., X 5,1.
15 Eutr., X 6,3.
16 Eutr., X 7,1-8,1.
17 Ps.Aur. Vict., epit. 41,7-8.
18 Ps.Aur. Vict., epit. 41,11-12.
19 Ps.Aur. Vict., epit. 41,13.
20 Ps.Aur. Vict., epit. 41,16.
21 Sul senso della parola Trachala cfr. M. Festy, Pseudo-Aurélius Victor. Abrégé des Césars, Paris 1999, pp. 193-194.
22 Ps.Aur. Vict., epit. 41,16.
23 Amm., XXXI 16,9.
24 Cfr. J. den Boeft, D. den Hengst, H.C. Teitler, Philological and Historical Commentary on Ammianus Marcellinus XXI, Groningen 1991, pp. 144-145.
25 Cfr. V. Neri, Medius princeps, cit., pp. 199-202.
26 Amm., XVI 8,12.
27 Amm., XXV 4,23.
28 Georgius Cedrenus Ioannis Scylitzae ope ab Immanuele Bekkero suppletus et emondatus, 2 voll., Bonnae 1838-1839, I, p. 516,15-517,4 (Corpus scriptorum historiae Byzantinae).
29 Cfr. V. Neri, Medius princeps, cit., pp. 206-208. Gli annessi e connessi di questo episodio e i problemi delle fonti che esso implica sono discussi in dettaglio da B. Bleckmann, Die Chronik des Johannes Zonaras und eine pagane Quelle zur Geschichte Constantins, in Historia, 40 (1991), pp. 343-365, in partic. 358-363, e da M. Amerise, Mendacium Metrodori: un particolare casus belli, in Klio, 86 (2004), pp. 197-205.
30 Cfr. A.F. Norman, Libanius. Select Works, II, London-Cambridge (MA) 1977, pp. 94-98.
31 Lib., Or. 30,6.
32 Lib., Or. 30,37.
33 Forse nel 391; Cfr. A.F. Norman, Libanius. Select Works, II, cit., pp. 417-418.
34 Lib., Or. 49,2.
35 Il lettore desideroso di entrare in questo dibattito troverà due presentazioni polarmente opposte in due opere pubblicate quasi nello stesso momento: H. Brandt, Zeitkritik in der Spätantike. Untersuchungen zu den Reformvorschlägen des Anonymus de rebus bellicis, München 1988 e A. Giardina, Le cose della guerra, Milano 1989.
36 Anon. de reb. bell. 2,1-2.
37 Zos., II 38, si veda infra.
38 Si troverà una storia della controversia in Histoire Auguste. Les empereurs romains des IIe et IIIe siècles, éd. par A. Chastagnol, Paris 1994, pp. III-CLXXVI.
39 h.A. Heliog. VI 6-8.
40 h.A. Heliog. XV 7.
41 Zos., II 29,5.
42 h.A. Heliog. XXIII 1.
43 Cfr. Histoire Auguste. Vies de Macrin, Diaduménien, Héliogabale, III/1, éd. par R. Turcan, Paris 1993, p. 206.
44 h.A. Sev. Al. XV 3.
45 h.A. Sev. Al. XXVIII 7.
46 h.A. Sev. Al. XXIX 2.
47 h.A. Sev. Al. LXVI.
48 h.A. Heliog. XXXIV4-5.
49 Cfr. su questo passaggio della Historia Augusta V. Neri, Medius princeps, cit., pp. 298-300, e Histoire Auguste. Vies de Macrin, Diaduménien, Héliogabale, cit., pp. 232-233.
50 Per una presentazione generale cfr. F. Paschoud, Zosime, I2, Paris 2000, pp. VII-CXI; per una discussione dei problemi specifici, Id., Eunape, Olympiodore, Zosime. Scripta minora, Paris 2006; per una presentazione dello stato del dibattito più recente su Eunapio, si vedano A. Baldini, F. Paschoud, ΕΥΝΑΠΙΟΣ, in pubblicazione negli Atti del Colloquio di Düsseldorf del 2010 sulle opere conservate per frammenti degli storici greci di epoca tarda.
51 Eun., VS VI 3,8, ed. J. Giangrande.
52 Cfr. F. Paschoud, Eunape, Olympiodore, Zosime, cit., pp. 252-253.
53 Per questo passaggio di Zosimo e per tutti quelli che saranno citati in seguito, si rinvia una volta per tutte a F. Paschoud, Zosime, cit.; il lettore vi troverà il testo greco originale, una traduzione francese e un commento puntuale, in cui le innumerevoli difficoltà di questi passaggi sono esaminate in dettaglio.
54 Si può segnalare in questa sede che si trova nella Storia nuova, alla fine del racconto della caduta dell’impero di Palmira (I 58,4), una breve allusione alla decadenza dell’Impero romano in termini provvidenzialistici molto vicini a quelli di Zos., II 7,1.
55 Zos., II 14,1.
56 Zos., II 11,1.
57 Zos., II 16,2.
58 Zos., II 18,1.
59 Zos., II 18,2-II 20.
60 Zos., II 22-26.
61 Zos., II 28.
62 Questa storia conosce delle varianti e delle complicazioni nelle tradizioni parallele; cfr. infra.
63 Testo riprodotto in PG 76, cc. 873CD e 876A, così come nel terzo volume delle opere di Giuliano nella collezione Loeb, che cita 1 Cor 6,9-11, cfr. W.C. Wright, The World of the Emperor Julian, III, London 1923, pp. 392-393.
64 Soz., h.e. II 5.
65 I problemi molto complessi della tradizione del testo di Filostorgio sono presentati in dettaglio in F. Winkelmann (post J. Bidez), Philostorgius. Kirchengeschichte, Berlin 19722.
66 II 4, pp. 14-17. Per maggiori dettagli su questa versione, cfr. F. Paschoud, Eunape, Olympiodore, Zosime, cit. pp. 461-472, e B. Bleckmann, Konstantin in der Kirchengeschichte Philostorgs, in Millenium, 1 (2004), pp. 185-231.
67 Cfr. F. Paschoud, Zosime, cit., pp. 240-241.
68 È impossibile entrare in questa sede nel complesso dettaglio di questa problematica, che è stata chiarita da B. Bleckmann, Constantin und die Donaubarbaren, in Jahrbuch für Antike und Christentum, 38 (1995), pp. 38-66.
69 Zos., II 32,2-II 33,2.
70 Cfr. a questo proposito F. Paschoud, Zosime, cit., pp. 246 -251, e la recente sintesi di P. Porena, Le origini della prefettura del pretorio tardoantica, Roma 2003.
71 Rispettivamente Zos., II 33,3-5 e II 34.
72 Zos., II 38,1-3A; cfr. supra.
73 Zos., II 38,3A-4.
74 Per maggiori dettagli sulla questione delle imposte, cfr. F. Paschoud, Zosime, cit., pp. 259-262.
75 Questi testi sono ora facilmente accessibili nell’edizione, corredata di traduzione francese e commento, di G. Sabbah, L. Angliviel de la Beaumelle, Évagre le Scholastique, I, Paris 2011, pp. 506-525.
76 Per un’analisi e un commento più dettagliato della confutazione di Evagrio cfr. F. Paschoud, Eunape, Olympiodore, Zosime, cit., pp. 322-323.
77 Niceforo Callisto Xanthopoulos, Historia Ecclesiastica, 16,41-42, (PG 147, cc. 205C-213D).
78 Romanae Historiae Scriptores Graeci Minores, Opera et studio Friderici Sylburgii, Tom. III. Graece et Latine. folio, Francofurti, 1590, pp. 625-631.
79 Per un’analisi e un commento dettagliato dell’Apologia di Löwenklau, cfr. F. Paschoud, Eunape, Olympiodore, Zosime, cit., pp. 320-321, 323-328.
80 Per i dettagli su queste diverse trasposizioni letterarie del dramma di Crispo e di Fausta, cfr. F. Paschoud, Eunape, Olympiodore, Zosime, cit., pp. 459-461.
81 È quello che suggerisce il modo in cui egli qualifica le critiche di Evagrio, «futili, ma gravi in quest’epoca», p. VI.
82 Per una presentazione più dettagliata dell’influenza di Zosimo su Gibbon cfr. F. Paschoud, Gibbon et Constantin, in International Journal of the Classical Tradition, 15 (2008), pp. 173-186.