TUPINI, Umberto. –
Nacque a Roma il 27 maggio 1889, secondogenito di Angelo, ufficiale postale e agricoltore, e di Luigia De Santis.
Le radici della famiglia erano marchigiane: il padre era originario di Muccia, in provincia di Macerata, dove visse l’infanzia anche Umberto, che compì a Camerino gli studi elementari. Qui, tredicenne, ascoltò la «parola nuova» di Romolo Murri conferenziere, in cui avrebbe riconosciuto «la diana, il risveglio» di un cattolicesimo uscito dall’intransigentismo ottocentesco e, nella sua prima democrazia cristiana, l’origine della propria vocazione cattolico-sociale (Cinquant’anni..., a cura di A. Ciabattoni - P.G. Fabiani, 1958, p. 218).
A Roma Tupini si trasferì definitivamente, ancora studente, al seguito dei genitori, ma la morte del padre lo costrinse a contribuire al bilancio familiare con l’impiego in una ditta di spedizioni postali. Riuscì a completare comunque brillantemente gli studi liceali presso il S. Apollinare e il collegio Nazareno, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza della Sapienza e dopo la laurea, ottenuta nel 1913, intraprese nella capitale la professione forense, che gli garantì il riscatto sociale e la sicurezza economica. Nel 1920 sposò Alessandra Marsili, figlia del giurista Servilio, già docente di diritto e procedura penale e rettore dell’Università di Camerino: dal matrimonio nacquero Angiolina (1921), Giorgio (1922) e Claudio (1925).
Parallelamente agli studi e all’avvocatura, il giovane Tupini si dedicò alla militanza nel movimento cattolico romano, in cui esordì con il circolo studentesco Religione e Patria: nell’aula capitolare dell’Ordine della Maddalena tenne ai suoi soci, il 24 ottobre 1907, la prima conferenza su L’ora presente della Gioventù cattolica, conclusa da un ordine del giorno «contro gli attentati alla libertà delle manifestazioni cattoliche» (Una conferenza al Circolo “Religione e Patria”, in L’Osservatore romano, 25 ottobre 1907). Assunse così le cariche di presidente regionale della Gioventù cattolica del Lazio e di segretario della Direzione interdiocesana laziale dei Convegni cattolici, che lo impegnarono sul terreno della formazione e dell’apostolato religioso. Per Tupini, tuttavia, la resistenza all’anticlericalismo assumeva le forme già proprie di una mobilitazione civile, organizzata e di piazza, che non rientrava più nell’ottica della difesa confessionale, ma rivendicava il diritto dei cattolici a operare come tali liberamente e laicamente nel moderno spazio pubblico. Fin dal 1912 Tupini si concentrò nell’attività sociale e sindacale in qualità di segretario dell’Unione cattolica del lavoro di Roma e, dal 1914, di presidente della Federazione delle casse rurali e della Federazione impiegati e commessi. Fece allora il suo apprendistato militante anche sulla stampa cattolica, come redattore del Corriere d’Italia e direttore delle due testate ufficiali dell’Unione del lavoro, il settimanale La Difesa del popolo e il mensile L’Organizzatore.
Questa fioritura di opere socioeconomiche costituì, anche a Roma, la premessa materiale per il ritorno alla partecipazione politica e amministrativa dei cattolici: nelle elezioni comunali del 14 giugno 1914 la cattolica Unione romana confluì, con l’Associazione liberale romana e l’Associazione nazionalista, nel blocco d’ordine che sconfisse l’amministrazione uscente di Ernesto Nathan. Protagonista della manifestazione antisovversiva tenutasi durante la ‘settimana rossa’, Tupini fu il più giovane consigliere comunale eletto e, in quella sua prima carica pubblica, sollecitò la giunta liberale di Prospero Colonna a recepire le istanze sociali del mondo cattolico organizzato, di cui fece proprio anche il neutralismo contrario all’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra. Fin dalla prima interrogazione del 13 luglio 1914, propose con successo l’istituzione dell’assessorato comunale del Lavoro competente nelle politiche occupazionali.
Dopo avere contribuito, nel febbraio del 1918, alla nascita del primo sindacato cattolico nazionale, la Confederazione italiana dei lavoratori, Tupini fu invitato a partecipare alle riunioni romane che avallarono il progetto del partito autonomo dei cattolici promosso da don Luigi Sturzo. Nella ‘piccola Costituente’ del 16-17 dicembre 1918, fu lo stesso Tupini a proporne la denominazione di Partito popolare italiano (PPI), rimarcandone la connotazione sociale e la differenziazione da socialisti e liberali. Il 16 giugno 1919, al Congresso nazionale del PPI a Bologna, si pronunciò coerentemente in favore di una tattica elettorale di «intransigenza assoluta», alternativa alla prassi clerico-moderata e proiettata verso «una larga e profonda seminazione di idee» (Gli atti dei Congressi..., a cura di F. Malgeri, 1969, p. 85). La sua visione del popolarismo come movimento radicato nel mondo del lavoro trovò piena rispondenza in quello marchigiano, che divenne il campo di azione politico del Tupini popolare: eletto deputato, il 16 novembre 1919, nella circoscrizione di Macerata-Ascoli Piceno, si dedicò all’insediamento organizzativo del PPI nella propria terra d’origine e, riannodandolo alla tradizione murriana, contribuì a renderlo il primo partito della regione nelle elezioni del 15 maggio 1921, in cui fu rieletto nella circoscrizione unica delle Marche.
Fra il 1922 e il 1923, tuttavia, lo stillicidio delle violenze fasciste travolse anche il popolarismo marchigiano: Tupini ne divenne bersaglio e si allineò, sul piano nazionale, alla dirigenza sturziana che guidò la svolta antifascista del PPI. Fino al IV Congresso di Torino dell’aprile 1923, in cui lui stesso si limitò a firmare un ordine del giorno per la disciplina interna, «il preteso antifascismo dei popolari» sarebbe in realtà consistito «nel prospettare e deplorare il pervicace e ostinato antipopolarismo dei fascisti» (Il Partito popolare italiano..., 1924, p. 9). La collaborazione «in libertà e in dignità» al governo Mussolini, difesa da Tupini al Convegno precongressuale di Ancona del 4 aprile, non si infranse neanche sulle dimissioni dei ministri popolari, ma soltanto sul voto della legge Acerbo alla Camera nel luglio del 1923. La difesa della proporzionale contro la riforma maggioritaria del fascismo sancì il passaggio di Tupini all’opposizione e ne rafforzò la scelta di campo per una «democrazia assertrice delle naturali libertà, conquiste feconde e indistruttibili della civiltà cristiana» (p. 10).
Nella nuova Camera eletta il 6 aprile 1924, Tupini divenne vicesegretario del Gruppo popolare e, il 27 giugno, illustrò la mozione approvata dall’assemblea plenaria delle opposizioni che, dopo il delitto Matteotti, decise l’astensione dai lavori parlamentari e avviò la secessione dell’Aventino. Rappresentante del PPI, con Alcide De Gasperi e Giovanni Gronchi, nel Comitato centrale dei partiti antifascisti, il 28 giugno 1925 tenne nel V Congresso popolare la relazione sull’attività del Gruppo parlamentare, difendendo l’intesa aventiniana come «protesta morale» rivelatrice del volto liberticida del fascismo. Tupini lo sperimentò «tra immense tribolazioni e non comuni pericoli» (Cinquant’anni..., cit., p. 221): decaduto dal mandato parlamentare il 9 novembre 1926, fu arrestato e incarcerato a Regina Coeli, ma subito liberato per l’intervento del segretario di Stato vaticano Pietro Gasparri.
Nell’‘esilio in patria’ sotto il fascismo si ritirò a vita privata e tornò a dedicarsi alla professione legale, acquisendo i titoli di avvocato rotale e concistoriale e di procuratore dei Sacri Palazzi apostolici, ma rifiutò l’iscrizione al Partito nazionale fascista (PNF) malgrado le intimidazioni poliziesche e l’esclusione dai circoli di Azione cattolica, che ne accentuò la solitudine personale e politica.
Fin dal 1941 Tupini riprese i contatti con gli ex popolari e l’attività clandestina che diede vita alla Democrazia cristiana (DC) dopo il crollo del regime: dal febbraio del 1943 presiedette, su incarico di De Gasperi, la commissione di studi costituzionali del partito, che gettò le basi programmatiche per il futuro assetto democratico dello Stato e, nella Roma occupata dopo l’8 settembre, sostenne l’esigenza di una transizione negoziata fra monarchia e Comitato di liberazione nazionale (CLN). Alla liberazione della capitale, divenne ministro di Grazia e Giustizia nei due governi Bonomi e promotore del d. legisl. 10 agosto 1944 n. 224, che abolì la pena di morte per i reati previsti dal codice Rocco. Escluso dal governo Parri, fu richiamato all’impegno nel partito fin dal Consiglio nazionale del 31 luglio-3 agosto 1945, dove tenne la relazione sulla questione istituzionale e propose un’inchiesta interna fra gli iscritti sulla «forma repubblicana dello Stato», ma giudicò al pari di De Gasperi secondaria quella scelta rispetto alla costituzionalizzazione del nuovo Stato democratico (La relazione Tupini, in Il Popolo, 2 agosto 1945).
Proprio l’attività costituente divenne, dunque, l’impegno principale di Tupini: il 6 agosto 1945 fu cooptato dalla Direzione della DC come commissario per la preparazione dell’Assemblea costituente e, agli inizi del 1946, pubblicò il primo progetto organico del partito, La nuova Costituzione. Presupposti, lineamenti, garanzie, nato come «base concreta» per i lavori della commissione da lui presieduta. Lo studio delineava un modello di Stato garante delle libertà fondamentali, ordinato «a servizio della persona umana» e limitato dalle comunità naturali che gli preesistevano socialmente; ma includeva anche proposte di revisione istituzionale della forma di governo, come la stabilizzazione dell’esecutivo sulla falsariga del modello ‘direttoriale’ elvetico e la «razionalizzazione della democrazia» mediante il controllo di costituzionalità delle leggi e delle forze politiche.
Alla concretizzazione di questa progettualità, Tupini diede un contributo altrettanto decisivo: primo eletto democristiano nel collegio XVIII delle Marche alla Costituente, dopo essere stato membro della Consulta nazionale, fu vicepresidente della commissione dei 75 (dal 10 dicembre 1946 anche dell’assemblea plenaria) e presidente della I sottocommissione sui Diritti e doveri dei cittadini, di cui diresse i lavori con indiscussa autorevolezza e capacità di mediazione. Il suo poliedrico apporto propositivo riemerse nell’esercizio di quella presidenza, che seppe contenere e orientare in chiave garantista la saldatura fra i commissari dei partiti di sinistra e quelli democristiani del gruppo dossettiano. Tale ruolo di raccordo Tupini lo assolse, soprattutto, nel caso dell’articolo 5 (poi 7) sui rapporti fra Stato e Chiesa: la sua formula di compromesso ne riconobbe la bilateralità, riadattando la tesi di Giuseppe Dossetti sull’«originarietà» dell’ordinamento ecclesiastico, ma esplicitò anche la menzione dei Patti lateranensi in sostituzione della più generica proposta di Palmiro Togliatti sulla loro disciplina «in termini concordatari». Intervenendo poi in assemblea il 5 marzo 1947, Tupini sottolineò lo «spirito di consapevole conciliazione» maturato fra culture politiche eterogenee come quelle costituenti e identificò nella persona umana il «principio coordinatore» del testo costituzionale, cui attribuì la definizione di «Carta dell’Uomo» (Atti dell’Assemblea Costituente. Discussioni, III, Dal 4 marzo 1947 al 15 aprile 1947, Roma 1947, pp. 1758-1766).
L’esperienza costituente di Tupini si concluse, nel maggio del 1947, con la liquidazione del tripartito: egli contribuì al fallimento dell’incarico presidenziale di Francesco Saverio Nitti, rifiutandone l’offerta del dicastero dell’Interno, e nella Direzione democristiana del 27 maggio sostenne la formazione di un nuovo governo De Gasperi con l’esclusione dei comunisti. Entrò a farne parte come ministro dei Lavori pubblici e, nel IV e V governo De Gasperi, adottò le prime misure di intervento straordinario per l’edilizia abitativa, autonome rispetto al piano INA-casa del ministro del Lavoro Amintore Fanfani e codificate dalle quattro ‘leggi Tupini’ del 1949, che concedevano a privati e cooperative edilizie contributi e agevolazioni fiscali per la costruzione di case non di lusso e per la ricostruzione di quelle distrutte dagli eventi bellici.
L’uscita dal governo, nel gennaio del 1950, lasciò Tupini senza incarichi nel partito, dove era stato sostituito dal figlio Giorgio, divenutone vicesegretario nazionale il 26 aprile 1950: lo stesso De Gasperi lo preferì al padre nel suo VII governo, nominandolo nel luglio del 1951 sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega per la Stampa e l’Informazione. Fu questo, però, l’ultimo incarico di Tupini junior, che rifece strada al padre e, appena trentenne, rinunciò alla carriera politica. Umberto intraprese, da allora, la tipica parabola ‘notabilare’ degli ex popolari: già senatore di diritto nella I legislatura repubblicana e, dal 29 luglio 1950, presidente della I commissione permanente (Affari della Presidenza del Consiglio e dell’Interno), fu rieletto al Senato nella II, III e IV legislatura (1953-68). Tornò al governo, dopo la caduta di De Gasperi, come ministro senza portafoglio nel I governo Fanfani e con delega per la Riforma della Pubblica Amministrazione nel governo Scelba, emanandovi i primi decreti delegati per il decentramento amministrativo.
Capolista della DC alle elezioni comunali di Roma del 9 giugno 1956, Tupini risultò il consigliere più votato in Campidoglio e, dal 2 luglio 1956 al 27 dicembre 1957, fu sindaco della capitale con una giunta centrista appoggiata da liberali e socialdemocratici. La sua amministrazione accelerò i lavori per la revisione del piano regolatore del 1931 e cercò di porre un freno alla spregiudicata politica urbanistica della precedente giunta Rebecchini, presa di mira dalle inchieste del settimanale L’Espresso sulle speculazioni edilizie capitoline della Società generale immobiliare.
Dimessosi da sindaco per ricandidarsi al Senato nel 1958, Tupini fu ancora ministro senza portafoglio con delega per lo Sport e il Turismo nel II governo Segni e, dal 29 agosto 1959, titolare del neoistituito dicastero del Turismo e dello Spettacolo, che mantenne nel successivo governo Tambroni per ultimare l’organizzazione delle Olimpiadi di Roma del 1960.
Morì a Roma il 7 gennaio 1973.
Opere. Il Partito popolare italiano e le attuali elezioni politiche, Macerata 1924; La nuova Costituzione. Presupposti, lineamenti, garanzie, Roma 1946; Articolo «7», in Civitas, I (1947), 2, pp. 5-12; La legge e la vita, Lanciano 1947; Contributo ad una storia della crisi del Parlamento: l’Aventino, in Il centenario del Parlamento, 8 maggio 1848 - 8 maggio 1948, Roma 1948, pp. 249-256.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio storico dell’Istituto Luigi Sturzo, Fondo Luigi Sturzo, Fondo Democrazia Cristiana; Firenze, Historical Archives of the European Union, Fondo Alcide De Gasperi, 912; per gli interventi di Tupini alla Camera dei deputati, alla Consulta nazionale, all’Assemblea costituente e al Senato della Repubblica, si vedano i relativi Atti parlamentari; Cinquant’anni di vita pubblica di Umberto Tupini, a cura di A. Ciabattoni - P.G. Fabiani, Roma 1958; Gli atti dei Congressi del Partito popolare italiano, a cura di F. Malgeri, Brescia 1969, ad indicem.
G. Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla repubblica, Milano 1968, ad ind.; P.A. Capotosti, Il progetto costituzionale democratico-cristiano: il contributo di U. T., in Democrazia Cristiana e Costituente nella società del dopoguerra. Bilancio storiografico e prospettive di ricerca, a cura di G. Rossini, II, Il progetto democratico-cristiano e le altre proposte, Roma 1980, pp. 921-938; F. Boiardi, I bianchi. Gli uomini che hanno fatto la storia della DC, Roma 1988, pp. 288-297; U. T. Atti del Seminario di studi storici promosso dall’Istituto Luigi Sturzo, Ancona 1991; F. Malgeri, U. T. (1889-1973). Dal Partito popolare al secondo dopoguerra, Urbino 1993; G. Di Cosimo, U. T. presidente della prima Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, in Giornale di storia costituzionale, XXI (2011), pp. 119-124.