TERRACINI, Umberto
– Secondo di tre figli, nacque a Genova il 27 luglio 1895 in una famiglia di agiata borghesia ebraica, da Jair, ingegnere civile, e da Adele Segre.
Nel 1899, dopo la prematura morte del padre, la madre si trasferì a Torino dove Terracini frequentò dapprima la scuola ebraica Colonna e Finzi e poi il liceo classico Vincenzo Gioberti, in cui ebbe come insegnante Umberto Cosmo e conobbe Angelo Tasca. Già nel 1911, attraverso quest’ultimo, si accostò alla Federazione giovanile socialista (FIGS) e partecipò alle manifestazioni contro la guerra di Libia. Iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza nel 1913, tenne numerose conferenze di propaganda tra i militanti socialisti e ottenne in pochi mesi la carica di segretario di tutti i fasci giovanili cittadini. Nel Congresso provinciale della FIGS dell’agosto 1914 si pronunciò contro la guerra e fu eletto segretario dell’organizzazione giovanile piemontese, poi confermato due anni dopo dal Congresso di Santhià, dove fu autore di un nuovo ordine del giorno contro il conflitto. Fermato nel settembre del 1916 e condannato a un mese di arresto, subito dopo fu arruolato nel 72° reggimento di fanteria e inviato al corso allievi ufficiali. Vistasi rifiutare la nomina a ufficiale a causa dei suoi precedenti politici, fu inviato come soldato semplice nel 1917 in zona di operazioni, settore di Montebelluna, dove rimase fino al termine della guerra.
Nei mesi precedenti la laurea (che ottenne con il massimo dei voti nel giugno del 1919 con una dissertazione in scienza delle finanze, purtroppo andata perduta) fu incaricato dalla sezione del Partito socialista italiano (PSI) di formare un nucleo socialista universitario, ma senza successo. Con Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Tasca fu fra i fondatori del settimanale L’Ordine nuovo, al quale collaborò intensamente nei due anni successivi. Nel giugno del 1919 appoggiò il «colpo di stato redazionale» con cui Gramsci e Togliatti, in opposizione a Tasca, decisero di fare della «rassegna di cultura socialista» l’organo dei consigli di fabbrica, e sviluppò in una serie di articoli la tematica ‘soviettista’. Dal numero 25 fu indicato come «gerente responsabile» della rivista.
Direttore del settimanale socialista Falce e martello, collaboratore dell‘Avanti! piemontese, nel gennaio del 1920 fu cooptato nella direzione nazionale del PSI, nella quale si mostrò fortemente critico delle posizioni di Giacinto Menotti Serrati. Rieletto nel febbraio nella commissione esecutiva della sezione socialista torinese, si schierò, come Togliatti ma diversamente da Gramsci, con la mozione dei ‘comunisti elezionisti’, ritenendo necessario che il PSI partecipasse alle elezioni politiche. Dopo l’occupazione delle fabbriche Terracini si impose sempre più come uno degli uomini di punta della nascente frazione comunista: tra i firmatari nell’ottobre del 1920 del suo manifesto programmatico, eletto nel suo comitato centrale al Convegno di Imola, firmò con Amadeo Bordiga la relazione di questa al Congresso di Livorno e vi tenne uno dei discorsi centrali, rivendicando le ragioni ideali della scissione. Fu eletto nel comitato centrale e, solo del gruppo ordinovista, nell’esecutivo del Partito comunista d’Italia (PCd’I).
Nel maggio del 1921 si recò per la prima volta nella Russia sovietica per partecipare al III Congresso dell’Internazionale comunista (IC), al termine del quale fu eletto membro dell’esecutivo. Fu lui a farsi portavoce delle riserve del PCd’I per la nuova politica di ‘fronte unico’, attirandosi una dura replica polemica di Lenin: il che non gli impedì nel febbraio del 1922 di essere eletto membro del presidium dell’IC.
Coestensore con Bordiga delle tesi sulla tattica per il Congresso di Roma del PCd’I, vi ribadì la sua posizione intransigente e fu rieletto nel comitato centrale e nell’esecutivo, in cui fu incaricato del settore stampa e propaganda. Al momento della marcia su Roma si trovò a essere uno dei pochi dirigenti comunisti presenti in Italia, e scrisse per il bollettino dell’IC un articolo in cui negava all’avvento dei fascisti al governo il carattere di colpo di Stato, riconoscendogli al massimo quello di «una crisi ministeriale movimentata» (Le coup de force du Fascio, in La Correspondance internationale, II (1922), 87, pp. 666 s.). Fu quasi solo, insieme a Ruggero Grieco, a reggere la direzione nel momento della maggiore repressione contro il partito, nei primi mesi del 1923, riorganizzandone clandestinamente a Milano la segreteria.
Alla fine di aprile fu inviato a Mosca a rappresentare il PCd’I nell’esecutivo dell’IC e prese parte ai lavori del III plenum in giugno, battendosi con la delegazione italiana contro la fusione con il PSI caldeggiata dall’IC. Da Mosca partecipò al dibattito che vide formarsi intorno a Gramsci il nuovo gruppo dirigente comunista: fu tra gli ultimi e più riluttanti a distaccarsi da Bordiga. Nel giugno del 1924 partecipò al V Congresso dell’IC e fu designato dalla commissione italiana membro supplente del nuovo esecutivo del partito. Rientrato in Italia, al comitato centrale del febbraio 1925 sostenne la necessità di confermare la fiducia dei comunisti italiani nella linea della maggioranza del partito russo.
Nell’agosto del 1925 fu arrestato a Milano e rimase in carcere per sei mesi, mentre era in corso il dibattito che precedeva il III Congresso del partito a Lione, le cui conclusioni lo trovarono pienamente concorde con la linea politica di Gramsci. Ancora in carcere, fu rieletto dal congresso nel comitato centrale, nell’esecutivo, nella segreteria e nell’ufficio di organizzazione. Liberato nel febbraio del 1926, diresse l’Unità di Milano e si occupò dell’organizzazione dell’attività sindacale e di massa; ma fu di nuovo arrestato in settembre per reati attinenti al sovvertimento violento delle istituzioni statali. Dopo l’emanazione delle leggi eccezionali in novembre il procedimento fu devoluto al tribunale speciale. Nell’istruttoria per il celebre ‘processone’, che lo vide coimputato con Gramsci, Mauro Scoccimarro, Giovanni Roveda e altri dirigenti del partito, fu indicato dagli inquirenti come «uno dei capi più autorevoli e più sentiti del PCI» e quale massimo organizzatore del partito. Nell’udienza del 4 giugno 1928, parlando a nome di tutti gli imputati, Terracini, benché continuamente interrotto, pronunciò un’arringa difensiva piena di sferzante sarcasmo. Toccò a lui, fra tutti i coimputati, la condanna più pesante: 22 anni, 9 mesi e 5 giorni di carcere.
Scontò il periodo di segregazione cellulare all’ergastolo di Santo Stefano. L’aggravamento delle sue condizioni di salute, denunciato da una campagna stampa del PCd’I, portò nel luglio del 1929 al suo internamento nell’ospedale carcerario di Firenze. Di qui fu trasferito a San Gimignano, poi a Castelfranco Emilia (febbraio 1931), indi a Civitavecchia (febbraio 1932). Pur non facendosi illusioni, tempestò di ricorsi il governo, sottolineando l’assurdità giuridica della condanna inflittagli; e al tempo stesso riuscì – tramite la moglie, la lettone Alma Lex, che aveva sposato a Mosca nel 1921 e dalla quale divorziò alla fine del 1939 – a non perdere mai i collegamenti con il partito.
Nel 1938 confessava a Grieco: «Neanche in carcere, te lo assicuro, siamo mai stati dei “sepolti vivi” [...] Potevamo permetterci di seguire con sufficiente approssimazione lo sviluppo generale dell’economia e della politica. [...] Solo un eccesso di vittimismo può far dire il contrario, o il desiderio di avallare non so quali pigrizie mentali» (Al bando dal partito. Carteggio clandestino..., a cura di A. Coletti, 1976, p. 14).
Nel marzo del 1928 fu tra i destinatari della lettera che Grieco, nell’imminenza ormai del processo a loro carico, spedì a San Vittore ai dirigenti incarcerati, rassicurandoli sulla vicinanza del partito e informandoli in termini generali della situazione politica internazionale: lettera che Gramsci interpretò dapprima come una grave leggerezza e poi, con il passare degli anni, come un voluto tentativo di nuocergli, rendendo impossibile una soluzione positiva della sua vicenda processuale. Sospetti di questo genere non sfiorarono mai la mente di Terracini; ma a partire dalla primavera del 1930 emerse il suo dissenso con il partito, che con la ‘svolta’ rispondente alla radicalizzazione della linea politica dell’IC aveva deciso di spostare il baricentro dell’azione in Italia. Informato sommariamente della situazione da una comunicazione di Togliatti, e venuto a conoscenza delle argomentazioni dei ‘tre’ (Pietro Tresso, Alfonso Leonetti e Paolo Ravazzoli) espulsi dal partito, Terracini non nascose preoccupazione per le misure disciplinari adottate, ma mostrò di non condividere la previsione che la crisi italiana si avviasse a uno sbocco rivoluzionario. Altrettanto errato gli sembrò – come sembrò a Gramsci – escludere una fase democratica di transizione dopo la caduta della dittatura: e aberrante giudicò l’assimilazione di fascismo e socialdemocrazia.
Anche nel periodo successivo, quando era recluso a Civitavecchia, Terracini si trovò spesso a dissentire dall’interpretazione della linea del partito presentata dagli altri dirigenti incarcerati (Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Girolamo Li Causi, Giovanni Roveda) su diversi temi, riguardanti il giudizio sulla crisi economica e l’adesione alla svolta politica compiuta dall’IC nel 1934-35, che egli giudicava reticente.
Il 19 febbraio 1937, avendo beneficiato del nuovo decreto di amnistia e indulto, lasciò il carcere di Civitavecchia, ma come «elemento pericoloso» fu assegnato in aprile al confino per cinque anni. Dal giugno del 1937 fu quindi a Ponza, dove si rinnovò il suo contrasto con il direttivo del collettivo comunista dell’isola, che in quest’epoca investi l’ampiezza della formula del fronte popolare per l’Italia. Allo scoppio della guerra, quando i confinati politici vennero trasferiti a Ventotene, il contrasto si fece più acuto: mentre Scoccimarro e Secchia, in linea con la posizione dell’IC, attribuirono alla guerra un carattere imperialistico e approvarono il patto Molotov-Ribbentrop, Terracini, con Camilla Ravera, lo respinse sostenendo che il nazismo restava il nemico principale e che una vittoria franco-inglese avrebbe almeno permesso alla classe operaia di riorganizzarsi per nuove avanzate. Il dissenso non fu sanato nemmeno con l’entrata in guerra dell’URSS: nella primavera del 1942 le posizioni di Terracini vennero esplicitamente condannate e nel gennaio del 1943 il direttivo deliberò la sua espulsione dal partito, provvedimento che venne poco dopo applicato anche a Ravera ma che, senza la sanzione di organi dirigenti superiori, aveva un valore discutibile. Terracini si oppose con un lungo e argomentato ricorso, rimasto però senza risposta.
Con lo scioglimento della colonia di confino di Ventotene, Terracini tornò finalmente libero nell’agosto del 1943: senza collegamenti con il partito, privato dalle persecuzioni antisemite dei rifugi in Italia presso i familiari, fu costretto a espatriare in Svizzera, dove fu internato per più di due mesi nel campo profughi di Adliswil. Nacque allora il suo amore con Maria Laura Gayno, moglie di un ufficiale dell’esercito e attrice di teatro che sposò alla fine del 1947 e dalla quale ebbe un figlio, Massimo Luca, nel 1957.
Cercò ripetutamente di ristabilire i contatti con i centri dirigenti del partito (dal 1943 divenuto Partito comunista italiano, PCI) e particolarmente con Togliatti, chiedendo di riassumere «un posto qualunque di lotta» (Al bando del partito. Carteggio clandestino..., cit., p. 169, lettera a Palmiro Togliatti del 5 gennaio 1944) nelle sue file, ma senza riuscirvi. Nell’agosto si rivolse direttamente al Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI) – dando notizia di questo suo passo al partito – per essere comunque utilizzato nella lotta in corso.
Poco dopo passò clandestinamente la frontiera, unendosi alle formazioni partigiane che avevano occupato la Val d’Ossola, e fu in settembre-ottobre segretario della giunta della repubblica libera. Dopo la caduta di questa, passò di nuovo in Svizzera, dove, nell’aprile del 1945, lo raggiunse, tramite l’ambasciata italiana di Berna, l’invito della segreteria del partito a raggiungere Roma, avendo nel dicembre 1944 la direzione deciso – per precipuo impulso di Togliatti ma senza entrare nel merito delle questioni da lui sollevate nei lunghi anni di dissenso – di reinserirlo nel lavoro degli organi centrali del PCI, sia pure consigliando ai compagni del Nord di non affidargli incarichi di direzione politica di partito.
Lasciata la Svizzera il 7 aprile 1945 Terracini giunse a Roma, dove in luglio la direzione del partito, esaminando il suo ricorso, deliberò di considerare «non avvenuta» la sua espulsione.
Aderì con piena convinzione alla linea di unità nazionale lanciata da Togliatti con la svolta di Salerno. Il suo intervento al V Congresso nazionale del PCI fu però un’incondizionata esaltazione dell’URSS, «la più grande e dispiegata democrazia che mai la storia dell’umanità abbia conosciuto» (Roma, Fondazione Gramsci, Archivio del Partito comunista italiano, microfilm. 10, Congressi, V Congresso nazionale del Pci: discorso di Terracini, Roma, 31-12-1945, p. 15). Al termine del congresso fu eletto nel comitato centrale e – come candidato – nella direzione. Nominato membro della Consulta, illustrò i punti cui il PCI chiedeva fosse ispirata la legge per l’elezione dell’Assemblea costituente: superamento del sistema uninominale, adozione del proporzionale, opposizione all’obbligatorietà del voto. Fu anche membro dell’Alta Corte di giustizia.
Eletto nella Costituente fu sin dall’inizio uno dei vicepresidenti dell’Assemblea, presieduta da Giuseppe Saragat, oltre che membro della commissione Forti sulla riorganizzazione dello Stato, e della cosiddetta commissione dei 75, che aveva il compito di redigere il progetto di Costituzione da sottoporre all’Assemblea: partecipò in particolare ai dibattiti sul diritto di sciopero, sulla famiglia e sul diritto d’asilo.
L’8 febbraio 1947, dimessosi Saragat dopo la scissione di palazzo Barberini, Terracini fu eletto presidente dell’Assemblea costituente, con 279 voti su 436.
La guidò con fermezza e imparzialità, guadagnandosi la stima generale, come testimonia la dichiarazione di Vittorio Emanuele Orlando nella seduta del 22 dicembre 1947: «Egli è stato veramente un gran Presidente [...] un Presidente nato perfetto!» (Discorsi parlamentari, Bologna 2002, pp. 814 s.).
Pochi mesi prima era entrato di nuovo in contrasto con la linea del partito, manifestando riserve di forma e di sostanza sulla nascita del Cominform nel settembre del 1947 e poco dopo rilasciando un’intervista all’agenzia americana Internews in cui denunciava il clima di contrapposizione frontale tra i due bocchi e affermava che se la guerra fosse scoppiata l’Italia si sarebbe schierata contro l’aggressore, «quale che esso sia». Questa posizione, interpretata come inaccettabile equidistanza, fu duramente stigmatizzata dalla direzione del PCI, e Terracini fu costretto a un’autocritica che non suonava però come una completa abiura.
Al termine del VI Congresso (gennaio 1948) fu comunque rieletto sia nel comitato centrale sia nella direzione, in quest’ultima ancora come semplice membro candidato, ruoli in cui fu riconfermato anche dal VII Congresso (1951), finché la IV Conferenza organizzativa del partito del gennaio 1955 non lo promosse membro effettivo. Da allora rimase ininterrottamente membro del comitato centrale e della direzione fino alla morte.
Senatore di diritto nel primo Parlamento repubblicano, fu rieletto a palazzo Madama in tutte le successive legislature, dal 1953 al 1983 e rivestendo la carica di capogruppo dal 1958 al 1973.
Rimase fedele alla linea di rispetto della legalità e della Costituzione che Togliatti dovette a volte difendere dagli attacchi dell’ala più dura del partito, e nel gennaio del 1950 fu tra i pochissimi a opporsi in direzione alla proposta fatta da Stalin che il segretario del PCI lasciasse la guida del partito per assumere, a Praga, un ruolo di leader nel movimento comunista internazionale. Fu, inoltre, tra i principali protagonisti dello scontro durissimo che si svolse in Parlamento sulla cosiddetta legge truffa e nell’intervento in Senato del 14 marzo 1953 la denunciò come vero e proprio strumento di «eversione della nostra Costituzione»: la battaglia per la completa attuazione di quest’ultima fu uno dei leitmotiv della sua attività pubblica.
Nel 1956, dopo il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), espresse giudizi severi nei confronti dei metodi staliniani e delle reticenze del PCI in proposito (anche in un’intervista a un giornale non di partito), suscitando nuovamente reazioni polemiche di una parte del gruppo dirigente. Appoggiò invece l’intervento sovietico in Ungheria, pur convinto che si dovesse riflettere criticamente sul significato di una rivolta popolare in un Paese socialista. All’VIII Congresso del partito in dicembre incentrò il suo intervento sul rapporto fra democrazia e socialismo.
Durante la lunga e contrastata crisi del centrismo la posizione di Terracini non si discostò da quella di Togliatti e della maggioranza che lo appoggiava. Fu in prima fila nella battaglia parlamentare contro il governo Tambroni nel 1960 e chiese in quell’occasione lo scioglimento del Movimento sociale italiano (MSI). Dopo il XXII Congresso del PCUS e la nuova denuncia dei crimini di Stalin, si schierò a fianco del segretario del partito, che i dirigenti più giovani avevano accusato di eccessiva reticenza. Inizialmente attento ai segnali di cambiamento provenienti dal mondo democristiano e fiducioso nelle possibilità che il centrosinistra aprisse nuovi spazi al PCI, condivise poi la scelta di un’opposizione più dura nei confronti del governo Moro. In occasione delle elezioni presidenziali del 1964 (in cui fu il candidato di bandiera del PCI), espresse il suo dissenso rispetto alla decisione del partito di votare per Saragat.
Alla morte di Togliatti (21 agosto 1964), fu lui a celebrare il discorso di apertura della cerimonia funebre: il che segnalava la sua piena riabilitazione e il riconoscimento della sua indiscussa autorità morale, cui si accompagnava però una sostanziale emarginazione dai meccanismi decisionali del partito. La sua scarsa propensione ad affrontare tematiche socioeconomiche, e forse anche la scelta di rimanere equidistante in un contrasto come quello fra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao che sentiva come una minaccia all’unità interna, lo estraniarono dall’intenso dibattito che precedette e accompagnò l’XI Congresso nel 1966, poco dopo il quale fu nominato responsabile della sezione Problemi della democrazia.
Lo scoppio nel giugno del 1967 della guerra dei Sei giorni lo scosse profondamente e lo indusse a riscoprire e riaffermare la propria identità ebraica, fino ad allora certamente non al centro della sua attività pubblica, portandolo ad assumere inizialmente, in contrasto con la linea del partito, una posizione filoisraeliana che gli attirò nuove critiche. Negli anni successivi si impegnò anche nella denuncia delle persecuzioni antiebraiche in Unione Sovietica e nei Paesi socialisti.
Nel 1967-68 Terracini mostrò subito una forte attenzione verso il movimento studentesco, sforzandosi di comprenderne le ragioni e la novità. Nello stesso periodo si segnalò tra i dirigenti del PCI come uno dei più risoluti nel sostegno alla Primavera di Praga e non lesinò critiche dure nei confronti dei sovietici dopo l’invasione dell’agosto 1968. Tuttavia, quando esplose il caso del Manifesto, non apprezzò la tendenza del gruppo a voler forzare le regole di partito con la pubblicazione della rivista, e approvò il provvedimento di radiazione dei dissidenti.
Denunciò subito la matrice eversiva di destra dell’attentato di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, manifestando solidarietà con gli anarchici accusati, e partecipò alla campagna per la liberazione di Pietro Valpreda. Tra i protagonisti della lunga battaglia parlamentare per l’approvazione del divorzio, manifestò la sua insoddisfazione per la ricerca da parte del PCI di un compromesso al ribasso.
A partire dal 1972, anche in seguito al ruolo di protagonista avuto nella campagna di denuncia della morte in carcere del giovane anarchico Franco Serantini (che gli valse da parte della Procura di Roma l’accusa di vilipendio dell’ordine giudiziario e delle forze armate), l’attenzione – sia pure critica – nei confronti dei movimenti della sinistra extraparlamentare diventò uno dei tratti distintivi della sua attività politica.
Convinto che la Democrazia cristiana, nonostante il suo interclassismo, restasse lo strumento principale delle classi dominanti, fu nettamente contrario alla linea del compromesso storico proposta da Enrico Berlinguer nel 1973 e al XIV Congresso del partito (marzo 1975) la sua fu praticamente l’unica voce di dissenso dalla linea del segretario. Fu quindi assai critico anche nei confronti della politica di unità nazionale, contro cui si espresse in un comitato centrale dell’autunno del 1976.
Dopo il rapimento di Aldo Moro nel 1978 fu tra i pochi comunisti contrari alla cosiddetta linea della fermezza, e aderì a un appello, promosso da ambienti cattolici e pubblicato in Lotta continua, nel quale si invitava lo Stato a intavolare una trattativa con i brigatisti per la liberazione del prigioniero.
Per tutta la durata della sua attività pubblica Terracini fu impegnato in organismi di studio e in associazioni interpartitiche e di massa, come – dopo il Consiglio mondiale della pace, di cui fece parte fino al 1953 – l’Associazione internazionale dei giuristi democratici, la Federazione internazionale dei movimenti di resistenza, la Società europea di cultura, l’Associazione nazionale dei perseguitati politici antifascisti, il Centro per la riforma dello Stato.
Con la fine degli anni Settanta si ritirò gradualmente dalla vita politica.
Morì a Roma il 6 dicembre 1983.
Opere. Sulla svolta. Carteggio clandestino dal carcere, 1930-31-32, a cura di A. Coletti, Milano 1975; Al bando dal partito. Carteggio clandestino dall’isola e dall’esilio 1938-45, a cura di A. Coletti, Milano 1976; Come nacque la Costituzione, intervista di P. Balsamo, Roma 1978; Intervista sul comunismo difficile, a cura di A. Gismondi, Roma-Bari 1978; Quando diventammo comunisti. Conversazione con Umberto Terracini tra cronaca e storia, prefazione di D. Lajolo, a cura di M. Pendinelli, Milano 1981; Discorsi parlamentari, introduzione di F. Barbagallo, I-III, Roma 1995.
Fonti e Bibl.: L’Archivio Umberto Terracini, di proprietà dell’Istituto Gramsci di Alessandria, è custodito presso l’Archivio comunale di Acqui Terme; Roma, Fondazione Gramsci, fondo Umberto Terracini; Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, ad nomen; Archivio storico del Senato della Repubblica, Legislature I-VII, ad nomen.
Si vedano, inoltre: A. Agosti, U. T., in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, a cura di F. Andreucci - T. Detti, V, Roma 1978, pp. 37-45; La coerenza della ragione. Per una biografia politica di U. T., a cura di A. Agosti, Roma 1998; L. Gianotti, U. T. La passione civile di un padre della Repubblica, Roma 2005; M. Nicolo, Un impegno controcorrente. U. T. e gli ebrei, Torino 2018; C. Rabaglino, Un posto qualunque di lotta. Vita di U. T., in corso di stampa.