UMBERTO I re d'Italia
Figlio di Vittorio Emanuele II, allora duca di Savoia e principe ereditario, e di Maria Adelaide figlia dell'arciduca Ranieri, viceré del Lombardo-Veneto, nacque nella reggia di Torino il 14 marzo 1844. Al fonte battesimale gli furono dati i nomi di Umberto, Ranieri, Carlo Emanuele, Giovanni Maria, Ferdinando, Eugenio.
La prima educazione, quella del cuore, l'ebbe dalla nonna e dalla madre, ma soprattutto da questa, tutta dedita alle cure dei figli, tanto da allattarli da sé stessa e da passare con essi la maggior parte del tempo assistendo alle loro lezioni e alle loro ricreazioni, e instillando loro i primi sentimenti dell'amore verso la patria, del dovere verso tutti. Insieme con questi insegnamenti, fin dai primi anni dovettero lasciare una profonda impressione sull'animo del fanciullo gli avvenimenti del tempo: la campagna del 1848, l'improvvisa scomparsa del nonno dopo Novara, e più ancora i lutti che colpirono la famiglia al principio del 1855, quando nel breve volgere di un mese morirono la nonna, la madre e lo zio Ferdinando.
Fin dal 1852, insieme con i fratelli, ebbe i primi precettori, con a capo il generale Giuseppe Rossi, uomo valoroso e di nobile carattere, che dopo la morte della regina ebbe l'intera responsabilità dell'educazione dei due principi, Umberto e Amedeo, e fu educatore rigido e severo. Fra gli insegnanti da lui sceltì furono anche Carlo Boncompagni e Pasquale Stanislao Mancini. Le discipline più curate furono quelle militari, e U. ben presto ebbe anche i primi gradi: il 14 marzo 1858, per il suo 14° compleanno, quello di capitano; l'11 ottobre 1862 il comando effettivo della brigata granatieri di Lombardia; il 1° ottobre 1864 quello della divisione di Milano, e poi di Napoli; e infine il 17 gennaio 1866 il comando del dipartimento militare di Napoli.
Nella terza guerra d'indipendenza egli poté vedere accolto finalmente il suo più ardente desiderio, quello di combattere per la patria, e a capo della 16a divisione, nella battaglia di Custoza, sostenne il primo urto col nemico, formò il famoso quadrato di Villafranca col 4° battaglione del 49° fanteria, e con esso ruppe l'impeto di un reggimento di ulani nemici. La sera la sua divisione e quella del Bixio coprirono la ritirata del resto dell'esercito. Il suo valoroso contegno in quella giornata, la calma e la sicurezza con la quale guidò l'azione, gli meritarono le lodi del Bixio, e la medaglia d'oro. Due anni dopo, il 22 aprile 1868, sposava la cugina Margherita, figlia di Ferdinando duca di Genova, che doveva cooperare con lui nella conquista degli animi degl'Italiani.
I due principi si stabilirono a Napoli, e a questa decisione non fu estraneo lo scopo politico dell'avvicinamento fra Nord e Sud, fra la monarchia sabauda e le popolazioni meridionali. Lo stesso compito il consiglio dei ministri affidava loro il 19 novembre 1870, nominando Umberto comandante del corpo di stanza a Roma.
Per quanto la situazione non fosse facile, tuttavia Umberto e Margherita ben presto riuscirono a cattivarsi affetto e simpatie vivissime in tutti i ceti della popolazione.
Il 9 gennaio 1878, quando morì il grande re, Umberto salì al trono. La successione non si presentava facile. Per quanto il nuovo re fino allora si fosse astenuto da qualsiasi manifestazione politica, l'amicizia e la stima di lui e della regina per molti uomini della destra, e specie per il Sella, lo avevano reso sospetto a diversi della sinistra, allora al potere, che ritenevano che sarebbe stato meno liberale del padre. L'ostilità di alcuni, perfino ministri, si era manifestata apertamente. Ma i primi atti del re dovevano dissipare ogni diffidenza.
Nel proclama agl'Italiani, emanato nello stesso giorno della sua ascesa al trono, prometteva: "Io custodirò l'eredità dei grandi esempî", lasciatami dal padre, "di fede immensa a quelle libere istituzioni che, largite dall'augusto mio Avo Carlo Alberto, furono religiosamente difese e fecondate da mio padre, e sono orgoglio e forza della mia Casa". Questi propositi trovarono subito conferma nei primi atti, quando, andando incontro al desiderio della nazione, fece sacrificio delle tradizioni dinastiche e dei sentimenti di profondo attaccamento alla famiglia e al fedele Piemonte, prendendo il nome di Umberto I invece di Umberto IV, e acconsentendo che il padre fosse sepolto nel Pantheon, anziché, insieme con gli altri Savoia, nella basilica di Superga, come era stato anche il desiderio dello scomparso.
Il regno che ora s'iniziava era destinato a sostenere prove difficili e complesse: all'interno doveva completare l'unificazione amministrativa, provvedere ai lavori pubblici, alle bonifiche, alle ferrovie, alle scuole, al rafforzamento dell'esercito e della flotta e tutto questo senza intaccare il pareggio del bilancio, raggiunto faticosamente, anzi provvedendo allo sgravio delle imposte particolarmente gravose. Nello stesso tempo doveva risolvere i numerosi problemi economici e sociali, sorti dallo sviluppo industriale e commerciale, dalla formazione di una classe operaia, dalla diffusione delle teorie socialiste, dalla comparsa dei primi scioperi e dei primi moti operai, dalla necessità dell'espansione coloniale. All'esterno si presentò la necessità di uscire dall'isolamento e trovare garanzie per la sicurezza e l'unità nazionale, e nello stesso tempo difendersi dalla reazione francese alle alleanze. Di fronte a questi problemi, in parte nuovi, la classe politica del tempo si trovò disorientata. Scomparsi i suoi uomini migliori, cessate le ragioni principali della divisione in destra e sinistra, il parlamento si componeva di una serie di gruppi che si riunivano e si scioglievano a seconda degl'interessi personali, regionali o di opportunità del momento. Mancava una maggioranza o un partito stabile, su cui esercitare un'azione personale. Al re quindi non rimaneva che governare secondo le più ortodosse regole del regime parlamentare. "Per un re costituzionale - disse una volta - la fiducia (nei ministri) è un obbligo, non un sentimento". Quindi egli lasciò ai ministri e al parlamento la cura dei problemi politici del momento, mentre assegnò a sé stesso quella di mantenersi fedele alle tradizioni costanti della sua famiglia di completa dedizione alla patria, di difesa dell'indipendenza e dell'unità d'Italia, e di contribuire alla sua futura grandezza, nella quale aveva una fede quasi religiosa. Più particolarmente si proponeva l'unificazione morale degl'Italiani e un rinsaldamento dei vincoli fra la dinastia e il popolo.
Dedicatosi a quest'opera di unificazione morale cominciò dal prendere contatto diretto con le varie regioni che una dopo l'altra visitò tutte. In queste visite egli vuol avvicinare ogni ceto della popolazione, anche i più umili, anche i più poveri; visita le sedi delle associazioni operaie, accetta inviti degli operai a spettacoli teatrali, ad Ostia visita spessissimo la colonia agricola di braccianti ravennati, e la aiuta più volte nei momenti di bisogno. E così le accoglienze entusiastiche fatte ai sovrani lasciano una traccia nei cuori e provocano la conversione di vecchi repubblicani, come il Carducci e altri. Proprio al termine della visita inaugurale il 17 novembre 1878 a Napoli ci fu il primo di quelli che egli scherzosamente chiamò "incerti del mestiere", cioè l'attentato di G. Passanante, andato a vuoto per la calma del re e l'intervento del Cairoli, che rimase ferito. Esso non fece che accrescere la stima e l'affetto verso il re e la misura dell'impressione dolorosa suscitata da quell'atto insano ci è data dall'invio di un telegramma da parte di Leone XIII stesso. All'attentato U. rispose col commutare la pena di morte e col provvedere al sostentamento della madre dell'attentatore.
Dati questi propositi del re non farà meraviglia vederlo sopra tutto accorrere là dove è caduta la sventura e la morte.
Nel settembre del 1882 alla notizia dell'inondazione del Veneto corre sui luoghi del disastro: a Verona visita le parti più danneggiate, fra le case rovinate e pericolanti, e nonostante i consigli di prudenza vuol vedere tutto, discutendo col ministro Baccarini e con gli altri le provvidenze più urgenti. Visita altri luoghi, vuol attraversare su una barca l'Adige ancora gonfio e minaccioso, per andare a vedere sull'altra riva una grande rotta larga 447 metri. L'anno dopo è la volta di Casamicciola, distrutta dal terremoto. Quattro giorni dopo il re è sul luogo, vuol vedere tutto incurante del pericolo, incita a proseguire l'opera di scavo e di ricerca dei vivi sepolti dalle macerie, e quindi si reca negli ospedali di Napoli a confortare i feriti, a dare soccorsi. Nel 1884 si diffonde anche in Italia il colera. Appena saputo che il morbo fa strage nel villaggio di Busca in provincia di Cuneo il re vi si reca, e senza prendere alcuna precauzione visita il lazzaretto, l'ospedale, case, stalle, fienili, dovunque siano malati. Ai primi di settembre il colera si diffonde a Napoli, e ben presto assume proporzioni allarmanti. Il re decide di andarvi. A Venezia, dove si è reeato a salutare la regina e il figlio, riceve un invito a delle corse organizzate a Pordenone. Risponde: "A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore. Vado a Napoli". Là si trovò col fratello, e insieme con lui visitò ospedali e caserme, accampamenti, quartieri popolari e miseri tugurî, consolando e confortando gli ammalati e dando disposizioni per i soccorsi. Vi rimase sei giorni e partì solo quando il male diminuì sensibilmente. In tutte queste visite il re non si limitava solo a dare prova della sua simpatia e del suo interessamento, ma distribuiva anche soccorsi senza parsimonia. E così nessuna prova più eloquente poteva dare Umberto I del suo attaccamento alla nazione, né trovare mezzo più adatto per assicurare a sé e alla dinastia l'affetto dei sudditi.
Ma non per questo dimenticava, al bisogno, gli affari più propriamente politici. Anzitutto s'interessava moltissimo della politica estera, come avevano fatto sempre i suoi predecessari. E per quanto essa fosse fatta dai suoi ministri, tuttavia collaborò con essi ogni volta che lo ritenne utile. Così la visita che egli insieme con la regina fece alla fine di ottobre 1881 a Vienna, dimostrò al pubblico le buone relazioni tra le due corti, e fu di preludio alla Triplice Alleanza. Così i rapporti amichevoli col principe ereditario di Germania, Federico, e poi col suo successore Guglielmo II, e le frequenti visite che si scambiarono i due sovrani facilitarono i rapporti fra i due paesi, e contribuirono a dare l'impressione che di fronte a qualsiasi minaccia l'Italia non sarebbe rimasta isolata.
Anche all'esercito U. prestò la sua vigile attenzione. Per quanto avesse tutti i riguardi per le esigenze finanziarie, tuttavia non diminuì i quadri per non offenderne la vitale energia, anche mettendosi in contrasto con uomini principalissimi, quali il Ricotti. Quando si diceva alla Camera o nei giornali che la preparazione militare era richiesta dagli alleati, se ne indignava. "La mia Casa - egli soleva dire a Minghetti, a Sella, a Visconti-Venosta e a Rudinì - ha spesso avuto degli amici, mai dei protettori".
Negli ultimi anni di regno le difficoltà si fecero più acute: guerra di tariffe con la Francia e conseguente diminuzione delle esportazioni agricole specie del Mezzogiomo; ritiro di capitali francesi con l'inevitabile ripercussione sullo sviluppo dell'industria, e sull'andamento della disoccupazione; crisi bancarie, inasprimento di tasse, scioperi e moti sociali. Tutto questo amareggiava U., ma un'angoscia indicibile provò dopo la battaglia di Adua; egli che ricordava Custoza non si poteva adattare alla pace senza rivincita. Cedette solo dopo una lunga e forte lotta interna. Tuttavia la sua azione particolare anche in quei tristi giorni giovò alla patria. Confortò con la sua energia il popolo abbattuto, e impedì che trionfassero i disegni di parziale abbandono, somiglianti per i loro effetti, in quel momento, a una fuga codarda. Non si potevano consegnare in balia della vendetta abissina le popolazioni che si erano affidate alla bandiera italiana, e U. non volle che si cedesse all'Abissinia una sola fortezza.
Anche nelle lotte degli ultimi due anni del suo regno non intervenne, se non dietro consiglio dei suoi ministri. Ma le passioni scatenate da quelle lotte in parte si rivolsero anche contro di lui, come simbolo delle istituzioni. Frutto di queste passioni fu l'attentato del 22 aprile 1897, compiuto da certo P. Acciarito, fabbro disoccupato.
Nel 1900 contro U. venne ordito un complotto da un gruppo di anarchici residenti negli Stati Uniti: un complotto in tutto simile a quelli che avevano già colpito altri sovrani o capi di stato. L'attentato fu compiuto la sera del 29 luglio 1900; a Monza, mentre egli partiva dalla palestra dove aveva assistito a una festa ginnastica. Il re venne ferito al cuore da due colpi, per opera dell'anarchico G. Bresci, e poco dopo spirò.
La sua opera fu riassunta dalla preghiera composta dalla regina per lui: "Egli fece del bene in questo mondo. Non ebbe rancori verso alcuno, perdonò sempre a chi gli fece del male, sacrificò la vita al dovere e al bene della patria, fino all'ultimo respiro si studiò di adempiere alla sua missione". Fu chiamato il "Buono".
La sua salma, trasportata a Roma, venne tumulata nel Pantheon.
Bibl.: Ampie bibliografie si trovano in G. Graziano, U. I di Savoia, Bibliografia, Torino 1902, e G. Mandalari, I primi ricordi monumentali del popolo italiano al suo re, Catania 1904. Inoltre cfr.: C. Rinaudo, U. I di Savoia re d'Italia, Torino 1900; D. Zanichelli, Il carattere costituzionale del regno di Umberto I, in Nuova Antologia, 1° settembre 1900; E. Pedrotti, U. I re d'Italia, Napoli 1900; U. Pesci, Il re martire: La vita e il regno di U. I, Bologna 1901; Lettere di U. I re d'Italia riunite, annotate e precedute da uno studio critico biografico di E. E. Ximenes, Cremona 1904; L. Luzzatti, Re U., nel volume Grandi Italiani, grandi sacrifici per la patria, Bologna 1924; A. G. Guerra, U. I, Torino 1935.