RICCI, Uguccione
RICCI, Uguccione. – Nacque da Ricciardo di Uguccione, detto Cione, e da Bartola di Rosso Strozzi, probabilmente entro il primo decennio del Trecento, se nel 1328 era già iscritto con il padre e i fratelli Giorgio, Rosso e Salvestro, all’Arte di Calimala, ovvero la corporazione che riuniva i mercanti fiorentini operanti all’estero (il padre era socio titolare di una compagnia sin dal 1317 e aveva pagato la libra da quell’anno almeno fino al 1323).
Secondo l’evidenza documentaria Ricci risiedette nel quartiere di S. Giovanni almeno dal 1347, e qui nel gonfalone del Vaio dal 1359 e nel popolo di S. Maria Alberighi nel 1375, nel popolo di S. Maria Nipotecosa nel 1383. Del suo nucleo familiare si conoscono la moglie Guerriera di Vanni Manetti – ma non la data del matrimonio, e se questo fu l’unico contratto da Ricci – e il figlio Guglielmo, console dell’Arte di Calimala nel 1372; di un secondo figlio resta invece sconosciuto il nome.
Dopo il 1328, assieme con i fratelli Giorgio e Rosso, si reimmatricolò nell’Arte di Calimala nel 1354, fu titolare di una compagnia, in affari con i lanaioli Francesco di Iacopo del Bene e Stoldo di Lapo di Stoldo tra il 1360 e il 1365, e console negli anni 1343, 1348, 1350, 1353, 1356-58, 1362 e 1367, nonché il rappresentante della corporazione tra i Cinque della mercanzia nel 1346 e nel 1366.
A partire dal 1347 svolse gli uffici di governo della città, percorrendo un cursus honorum eccezionale: per quattro volte gonfaloniere di Società (negli anni 1347, 1351-52, 1360-61, e 1367-68), per tre buonuomo (negli anni 1350, 1355 e 1364), per due priore delle Arti (negli anni 1348 e 1366), e per altrettante gonfaloniere di Giustizia (negli anni 1353 e 1371); inoltre, per almeno due volte fu capitano di Parte guelfa (negli anni 1365 e 1368). In considerazione della sua fama, oltre che dell’influenza politica, fu scelto in varie occasioni come ambasciatore del Comune, le più importanti nella legazione inviata al re dei Romani e futuro imperatore Carlo IV nel 1352 e in quelle inviate al papa nel 1367 e 1369.
In realtà, il peso di Ricci sulla politica fiorentina fu persino superiore a quanto testimoniato dai suoi molteplici e prestigiosi incarichi per il Comune, perché in quanto capofamiglia dei Ricci – e da ciò forse si può desumere che fosse il più anziano dei suoi fratelli – esercitava anche il comando dell’omonima fazione.
A partire dagli anni Cinquanta a Firenze si scontrarono due fazioni a guida familiare, orientate sugli indirizzi generali dei due più ampi schieramenti che si contendevano il primato politico, ovvero da un lato gli albizzeschi – detti anche paperini per il tipo di berretta che indossavano – guidati da Piero di Filippo Albizzi, esponenti e/o fautori del vecchio patriziato, attivisti della Parte guelfa e della proscrizione contro i ghibellini, favorevoli al Papato in quanto titolari di benefici ecclesiastici; dall’altro i ricciardi, guidati appunto da Ricci, aperti ai novi homines inurbatisi più o meno recentemente, oppositori e vittime dei partefici sostenitori del massimalismo guelfo, contrari ai privilegi del clero e timorosi di un rafforzamento dello Stato della Chiesa e di un suo possibile espansionismo.
Ricci cercò più volte di indebolire gli avversari per sopraffarli politicamente. Nel 1354 intese sfruttare la diceria di un’antica origine ghibellina degli Albizzi promuovendo una legge del Comune disponente una forte multa per i ghibellini che avessero esercitato un ufficio comunale; sperava così di suscitare l’opposizione degli Albizzi, e conseguentemente di additarli in pubblico come ghibellini. La manovra però fallì: per amicizia un ricciardo la rivelò a Piero di Filippo Albizzi, il quale sostenne la proposta di Ricci, vanificandone gli intenti. Nel 1366, mentre sedeva nel governo cittadino, propose e fece approvare una legge del Comune che aumentava il numero dei membri del capitanato della Parte guelfa, imponeva una quota di almeno due membri provenienti dalle arti minori, istituiva un organo di controllo sulle proscrizioni dei ghibellini, stabiliva che queste avvenissero solo con una maggioranza di due terzi dei capitani: ovviamente si trattava di norme tese a indebolire l’associazione e a frenare gli arbitrii dei guelfi massimalisti.
Ancora nel 1367, in occasione dell’ambasceria di Ricci alla Curia pontificia, il cronista Marchionne di Coppo Stefani (Cronaca fiorentina, a cura di N. Rodolico, 1903-1955, pp. 264-266) sostenne che gli Albizzi erano favorevoli a un’alleanza con la Chiesa e i Ricci contrari.
Naturalmente questa lotta di fazione poteva essere condotta anche al di fuori delle sedi istituzionali e della legalità: secondo il cronista Matteo Villani, anch’egli testimone oculare delle vicende, nel 1352 l’ambasceria di Ricci all’imperatore suscitò inquietudine tra i cittadini, i quali «però che tra·lli ambasciadori erano i più reputati caporali di cittadina setta, temettono, che essendo costoro al continovo collo ’mperadore, e di suo consiglio, che pericolo si commettesse al Comune e pubblica libertà di cittadini» (Cronica, a cura di G. Porta, I, 1995, pp. 343-345); Stefani ritiene che alcuni «grandi della setta de’ Ricci» fossero persino coinvolti in una congiura ordita per sovvertire il Comune e sventata nel 1360, senza però esserne mai inquisiti, e riportò l’accusa «che Uguccione de’ Ricci avea promesso a messer Bernabò [Visconti] Firenze» formulata da Francesco di Antonio Albizzi nel 1372 (Cronaca fiorentina, cit., pp. 257 s., 281).
Nel 1372 lo scontro tra le due famiglie e le rispettive fazioni venne improvvisamente meno. Gli Albizzi riuscirono a imporre la loro visione in politica estera, piegando l’opposizione dei Ricci e facendo stringere al Comune un’alleanza con il Papato, tanto da far osservare a un anonimo cronista che «l’altra setta aveva dato delle reni a tterra» (Mazzoni, 2010, Appendice IV, n. 4, c. 16r). Oltre alle difficoltà politiche, Ricci pare dovesse fronteggiarne anche di economiche, di modo che si risolse a stringere un accordo con i rivali, e a mutare atteggiamento verso il pontefice, dal quale ottenne in cambio dei benefici ecclesiastici per i suoi due figli e, nelle parole dell’anonimo, «per questo vene a odio a molti di sua setta, pensando che ssi fosse fatto una cogli Albizzi, e in questo anno descendé» (c. 16r). L’accordo tra gli Albizzi e i Ricci suscitò immediatamente grandi timori nella cittadinanza, come notò l’anonimo: «Ughuicione cominciò molto a perdere il credito di suoi settaiuoli […] e per molti si dicea: “Usciremo mai di servitudine?”. E chosi diceano quelli dell’una setta chome quelli dell’altra, e masimamente quelli che e’ voleano il bene della città» (c. 16v). La reazione si concretizzò in un’inedita convergenza di albizzeschi e ricciardi delusi, cittadini non schierati, partefici persino, che richiesero l’intervento del governo cittadino, e la soluzione infine adottata fu l’interdizione per cinque anni da tutti gli uffici del Comune per tre capi ricciardi – Ricci, suo fratello Rosso, e il consorte Giovanni di Ruggero Ricci – e per tre capi albizzeschi: Piero di Filippo e i fratelli Francesco e Pepo di Antonio, tutti Albizzi.
Di fatto, la carriera politica di Ricci terminò con questo provvedimento dell’aprile del 1372: se è vero che fu reintegrato nei suoi diritti nel giugno del 1378, in concreto non esercitò più alcun ufficio di governo, né riguadagnò mai lo status precedente, come dimostra l’assenza di notizie sulla sua persona.
Morì di peste nel 1383, assieme con i fratelli Giorgio e Rosso, e il 4 agosto di quell’anno fu seppellito con l’abito domenicano nella chiesa fiorentina di S. Maria Novella; il frate compilatore del Libro dei morti volle onorarlo ricordandolo come «honorabilis civis et laudabilis in tota Ytalia» (Ammirato, 1614, p. 157; Calzolai, 1980, p. 130).
Fonti e Bibl.: S. Ammirato, Delle famiglie nobili fiorentine. Parte Prima, Firenze 1614; D.M. Manni, Osservazioni istoriche sopra i sigilli antichi, t. IX, Firenze 1742; F.M. Soldini, Delle eccellenze e grandezze della nazione fiorentina. Dissertazione storico-filosofica, Firenze 1780, pp. 123 s.; Ildefonso di San Luigi, Delizie degli eruditi toscani, XIV, Firenze 1781, pp. 213-230; I capitoli del Comune di Firenze. Inventario e regesto, a cura di C. Guasti, II, Firenze 1893; Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, a cura di N. Rodolico, Città di Castello 1903-1955, ad ind.; D. Velluti, La cronica domestica, a cura di I. Del Lungo - G. Volpi, Firenze 1914, pp. 135, 174, 213, 222; G.A. Brucker, Florentine politics and society 1343-1378, Princeton 1962, ad ind.; C.C. Calzolai, Il «libro dei morti» di Santa Maria Novella (1290-1436), in Memorie domenicane, XI (1980), pp. 15-218; M. Villani, Cronica, a cura di G. Porta, I, Parma 1995, ad ind.; V. Mazzoni, Accusare e proscrivere il nemico politico. Legislazione antighibellina e persecuzioni giudiziaria a Firenze (1347-1378), Pisa, 2010, ad ind. (le Appendici sono edite on-line, www.paciniedi
tore.it); E. Filosa, L’amicizia ai tempi della congiura (Firenze 1360-61): «a confortatore non duole capo», in Studi sul Boccaccio, XLII (2014), pp. 195-219.