DELLA FAGGIUOLA, Uguccione
Figlio di Ranieri - che un documento del 1274 indica come nobile e che morì nel 1293 -, appartenne ad una famiglia feudale, forse ramò dei conti Feltri di Carpegna, titolare nel sec. XIII del castello di Faggiuola e di altre terre nella Massa Trabaria, in una regione, cioè, posta tra l'Umbria, la Toscana e la Romagna.
La data di nascita è tradizionalmente assegnata al 1250, a Casteldelci (prov. di Pesaro-Urbino). In realtà mancano notizie sul D. nelle fonti a noi note fino al 1292, quando fu nominato podestà di Arezzo. Già allora doveva essersi affermato come uno dei principali esponenti del ghibellinismo. Nel 1295, lasciata la carica di podestà di Arezzo, cominciò a combattere contro i guelfi in Romagna. In quell'anno, insieme con Mainardo da Susinana e Scarpetta degli Ordelaffi, sostenne Azzo VIII d'Este contro Bologna e il rettore pontificio Guglielmo Durand. Nel 1296 divenne capitano generale della lega stretta tra Cesena, Forlì e Faenza: assunse la carica a Forlì il 21 febbraio e nel 1297 conquistò Imola. Nel maggio 1300, al comando di truppe aretine e insieme con Federico da Montefeltro e Uberto Malatesta, prese Gubbio e ne divenne podestà. Poche settimane dopo, però, il D. e i ghibellini furono cacciati da Gubbio riconquistata dalle forze guelfe del cardinale Napoleone Orsini, legato di Bonifacio VIII, e dei Perugini. Nel dicembre 1300, poi, Federico da Montefeltro, che ricopriva la carica di capitano del Popolo a Cesena, lo chiamò in questa città: l'anno successivo una sollevazione sostenuta dal rettore di Romagna, il cardinale Matteo d'Acquasparta, espulse da Cesena il governo ghibellino.
Una svolta nel suo indirizzo politico si ebbe nel 1302, quando il D. cominciò a ricercare accordi con lo schieramento guelfo e con la Chiesa, abbandonando le posizioni di ghibellinismo estremo fino ad allora condivise. Insieme con i fratelli Ugo Fondazza e Rinaldo e con altri capi ghibellini romagnoli si riconciliò, grazie anche alla mediazione di Bonifacio VIII, con i guelfi Malatesta di Rimini e da Polenta di Ravenna. Divenuto, sempre nel 1302, nuovamente podestà di Arezzo si recò a Roma per negoziare un accordo con la Sede apostolica sia per se stesso sia per il Comune toscano. Ottenne la cancellazione dalle censure ecclesiastiche disposte contro di lui, nonché la conferma dei suoi possedimenti: secondo Dino Compagni il papa giunse a promettergli la porpora cardinalizia per uno dei suoi figli. In seguito a questa riconciliazione i numerosi ghibellini e bianchi che, fuorusciti da Firenze, si erano rifugiati ad Arezzo, lasciarono la città per trovare un rifugio più sicuro a Forlì, dove Scarpetta degli Ordelaffi aveva assunto il governo.
Confermato podestà di Arezzo da Bonifacio VIII nel 1303, il D. prese parte nel giugno alla campagna diretta a recuperare castelli aretini occupati dai Fiorentini: conquistò Castiglione Aretino, Montecchio, Monte San Savino e pose l'assedio a Laterina. Ma subito dopo venne sostituito nella carica di podestà da Federico da Montefeltro. La sua cacciata dalla città toscana - che Dino Compagni attribuisce ad "alcune sue opere sospette" - fu con ogni probabilità una conseguenza della lotta riaccesasi tra le fazioni in cui erano divisi i ghibellini di Arezzo. Il D. aveva aderito ai "verdi" che sostenevano una linea politica moderata contro i "secchi", interpreti dell'estremismo ghibellino, e che uscirono sconfitti dalla lotta.
Il D. passò probabilmente gli anni successivi nei suoi feudi di Massa Trabaria. Se è vera la tradizione secondo la quale il D. avrebbe ospitato Dante nel castello di Faggiuola, l'episodio deve essere assegnato a questo torno di anni. Al medesimo periodo dovrebbe risalire anche il matrimonio di una delle figlie del D. con Corso Donati. Nel 1308, poi, il D. rientrò ad Arezzo insieme con gli altri capi della fazione dei verdi riammessi in città dal podestà Francesco degli Ubaldini.
Era probabilmente ad Arezzo quando Corso Donati si rivolse a lui per ottenerne il sostegno nel tentativo, che andava organizzando, di impadronirsi del governo fiorentino. Il D. rispose all'appello, ma mentre si dirigeva verso Firenze al comando di un esercito composto, sembra, da 400 cavalieri e 4.000 fanti, fu fermato a Remole (a 26 km da Firenze) dalla falsa notizia dell'arresto del Donati: quest'ultimo, infatti, solo in seguito (6 ott. 1308) fu catturato a Rovezzano e ucciso.
Ad Arezzo il D. dapprima si schierò con i verdi, ma successivamente passò dalla parte dei secchi, sostenendo i Tarlati che guidavano questa fazione. Appena rientrato ricevette la carica di capitano del Popolo, carica che conservò anche nel 1309 e 1310 quando divenne podestà. In questi stessi anni difese il contado dalle scorrerie fiorentine; nel febbraio 1310 fu sconfitto presso Cortona da forze fiorentine nettamente inferiori alle sue; nel giugno dello stesso anno seppe organizzare con successo la difesa della città contro l'attacco dei Fiorentini, i quali furono poi convinti ad abbandonare la lotta dall'ambasciatore di Enrico VII che dichiarò Arezzo sotto la protezione imperiale e impose ai Fiorentini il giuramento di fedeltà.
Nell'ottobre 1311 il D. prestò il giuramento che Enrico VII gli aveva richiesto e successivamente mise a disposizione dell'imperatore 300 cavalieri. Scarse sono le notizie sulla sua partecipazione alla campagna dell'imperatore: secondo una cronaca (Anonyimi Itali Historia) egli fu tra i capitani che convinsero Enrico a non porre l'assedio a Firenze. Nei primi mesi del 1313 fu inviato a Genova come rappresentante dell'imperatore e convinse quella repubblica a sostenere Enrico con aiuti militari.
Si trovava ancora a Genova quando morì Enrico VII" Fu allora contattato dai Pisani i quali avevano bisogno di un capo militare esperto per affrontare la lega guelfa toscana e per questo motivo si erano già rivolti, ma senza successo, a Giovanni di Boemia, figlio di Enrico VII, a Federico di Sicilia, a Enrico conte delle Fiandre e al conte di Savoia. Il D. accettò l'offerta e il 20 sett. 1313 raggiunse Pisa, ove fu investito delle cariche di podestà, capitano del Popolo e capitano di Guerra. Utilizzando le truppe del defunto imperatore rimaste al servizio di Pisa, dette nuovo vigore alla causa ghibellina. Pochi giorni dopo il suo arrivo chiese alla vicina Lucca di restituire i castelli di Buti, Asciano ed Avane e di riammettere i fuorusciti ghibellini. Di fronte al rifiuto di Lucca, il D. attaccò e conquistò Asciano e fece scorrerie nel contado cittadino; poi, il 18 novembre, inflisse ai Lucchesi una pesante sconfitta presso Pontetetto; infine, per tutto l'inverno proseguì le ostilità contro San Miniato, Siena e Massa Marittima.
Il 27 febbr. 134 fu conclusa la pace tra Pisa da una parte, i guelfi toscani e Roberto di Sicilia dall'altra. Secondo le cronache l'accordo sarebbe stato raggiunto all'insaputa del D., ma l'affermazione non appare esatta dato che le trattative, iniziate da Pisa sin dalla morte di Enrico VII, erano poi proseguite a nome degli Anziani e del D. medesimo. In realtà il D. e una parte dei ghibellini erano contrari alla pace che arrivava in un momento in cui la campagna militare volgeva in loro favore. A detta dei cronisti, il D. promosse una manifestazione popolare di protesta. Anche dopo la pace, comunque, il D. proseguì la sua politica volta a rafforzare i ghibellini in Toscana. In un incontro tenutosi a Ripafratta con emissari di Lucca, rinnovò a questo Comune le richieste di restituire a Pisa Asciano, Viareggio, Buti e Bientina e di riammettere gli esuli ghibellini, richieste a cui aggiunse quella di stringere alleanze matrimoniali tra famiglie delle due città a garanzia della pace. Le sue proposte furono accettate, ma il contenzioso tra i due Comuni continuò perché il D. chiedeva che rientrassero a Lucca tutte le famiglie che erano state esiliate a partire dal 1254, probabilmente per includervi gli Antelminelli con i quali aveva raggiunto un accordo. I Lucchesi si rifiutarono di accettare le richieste del D. e Pisa decise di riprendere le ostilità contro Lucca: furono imposti tributi per la guerra e il salario del D. fu aumentato per il periodo bellico di 13 fiorini al giorno.
Il 14 giugno 1314 il D. conquistò Lucca, aiutato anche da una fazione cittadina guidata da Castruccio Castracani degli Antelminelli, un fuoruscito da poco rientrato in città. Il vicario del re Roberto d'Angiò venne espulso e la città fu messa a sacco per tre giorni; i Pisani si impadronirono del tesoro pontificio custodito nel monastero di S. Frediano e distrussero documenti pubblici e privati con gravi danni per i cittadini. Il 14 luglio Pisa e Lucca stipularono una lega di cui il D. fu nominato capitano con il salario di 6.000 fiorini l'anno (conservava, peraltro, le cariche pisane) e con il potere di intervenire in modo discrezionale nel governo dei due Comuni per il loro bene e per la difesa della lega stessa. Il D. che si avvaleva di un Consiglio per gli affari militari, composto da pisani e lucchesi, finì così per avere la direzione effettiva delle due città e per subordinare alla sua autorità le principali cariche di governo e i Consigli dei due Comuni. La titolarità dell'ufficio di podestà e di capitano generale di Lucca da parte del figlio Francesco completava la mappa del suo potere.
La vittoria fu celebrata con entusiasmo a Pisa, dove egli fece un'entrata trionfale. Il D. - il cui salario fu portato a 20 fiorini al giorno - proseguì, peraltro, le operazioni militari, recuperando fortezze già appartenute a Pisa e facendo scorrerie nel territorio di San Miniato. Nella notte tra il 9 e il 10 dicembre tentò anche di conquistare Pistoia e, sebbene riuscisse a far penetrare in città parte delle sue truppe, alla fine venne respinto. Proseguì, comunque, la campagna militare in Valdamo e in Valdinievole per tutto l'inverno. Nel maggio 1315 conquistò Montecalvoli e quindi si diresse verso Montecatini e Monsummano.
Queste due fortezze erano in mano ai Fiorentini e costituivano un centro in cui si erano raccolti guelfi esuli da Lucca e da altri Comuni. Inoltre avevano un'importante posizione strategica: la loro conquista, infatti, avrebbe consentito al D. di proseguire l'avanzata lungo le valle dell'Arno aprendogli la strada verso Pistoia e addirittura permettendogli di minacciare la stessa Firenze. I Fiorentini, consapevoli del pericolo, inviarono ai loro alleati pressanti richieste di soccorso. Roberto d'Angiò rispose positivamente, mandando in Toscana i fratelli Pietro "Tempesta", conte di Eboli, e Filippo, principe di Taranto, nonché il giovane figlio di quest'ultimo Carlo d'Acaia.
Montecatini resistette agli attacchi dei Pisani, iniziati, sembra, il 2 maggio. Mentre dirigeva l'assedio, il D. fu costretto a rientrare a Pisa, dove stava crescendo il malumore contro il suo governo autoritario, e in particolare contro i tributi imposti per finanziare la campagna militare. Secondo Mussato il D. intervenne alla riunione del Consiglio generale: qui esaltò le vittorie passate, illustrò i motivi dell'imposizione fiscale, dicendola indispensabile per il prosieguo della guerra, e infine sfidò la cittadinanza a trovarsi un condottiero capace di raggiungere gli stessi risultati con costi inferiori. Il Consiglio fu convinto dalle sue argomentazioni e gli concesse il finanziamento richiesto.
Il 10 agosto il D. mosse verso la Valdinievole a capo di truppe pisane e di quelle fornite dagli Ubertini, dai Tarlati, dal conte di Santa Fiora, dai signori di Mantova, di Modena ed altri: il suo esercito doveva esser forte - anche se i cronisti non sono concordi nelle indicazioni - di circa 3.000 cavalieri e 30.000 fanti. Le forze guelfe erano forse più numerose - comprendendo 3.200 cavalieri (per alcuni cronisti addirittura 5.000) e dai 30.000 ai 60.000 fanti -, ma erano meno disciplinate. Dopo alcuni scontri i guelfi spostarono parte delle loro forze a Buggiano per tagliare al D. i rifornimenti da Lucca ed impedirgli la ritirata. Il D. riuscì ad impedire che le sue truppe si sbandassero e lasciassero la linea del combattimento per darsi al saccheggio delle zone circostanti: si narra che arringò i suoi uomini collegando la campagna attuale alla difesa della causa ghibellina promossa da Enrico VII e prima di lui da Manfredi di Sicilia e Corradino di Svevia. I guelfi furono ingannati dalle contromisure adottate dal D. e le interpretarono come una fuga: perciò proseguirono nell'avanzata sicuri di non incontrare alcuna resistenza. Il 29 agosto, invece, si trovarono di fronte alle forze ben disciplinate del Della Faggiuola. Lo scontro fu durissimo con gravi perdite da entrambe le parti; alla fine l'intervento dei 4.000 balestieri del D. dette la vittoria ai ghibellini, che inseguirono poi il nemico per un lungo tratto, decimandone le file. Nella battaglia morirono Carlo d'Acaia e Pietro "Tempesta" tra i guelfi, il figlio del D., Francesco, nelle schiere ghibelline. I Pisani fecero numerosi prigionieri, più di quanti potessero accogliere le torri cittadine - tanto che fu necessario sistemarli in parte presso case di privati cittadini - e si impadronirono del tesoro guelfo.
Montecatini e Monsummano caddero nelle mani del D., il quale qualche giorno dopo la battaglia si recò a Lucca dove la vittoria fu celebrata con grandi festeggiamenti. A Lucca lasciò come suo vicario il figlio Ranieri in luogo del defunto Francesco e il 9 settembre raggiunse Pisa dove fece un'entrata trionfale con il carroccio comunale.
La battaglia di Montecatini segna l'apice della carriera politica e militare del Della Faggiuola. A detta di tutti i cronisti da quel momento egli rese più autoritario il suo governo a Pisa e a Lucca e, secondo Ferreto de' Ferreti, impose gravosi tributi il cui ricavato poi sperperava in banchetti e bagordi. Ebbe inizio, allora, il suo contrasto con Castruccio Castracani il quale. dopo essersi valorosamente distinto nella battaglia di Montecatini, si era reso responsabile come visconte del vescovato di Luni, di gravi violenze in Lunigiana, violenze che il D. considerava una minaccia alla sua autorità. Inoltre Castruccio, nella disputa per la successione imperiale, si era schierato dalla parte di Federico d'Austria, rivale di Ludovico di Baviera che era sostenuto dal D. e che aveva concesso a lui e ai suoi figli i feudi di Fucecchio, Castelfranco, Santa Croce, Santa Maria a Monte, Montefalcone e Poggio. Il 10 aprile il D. ordinò al figlio Ranieri di far prigioniero Castruccio ed egli stesso mosse verso Lucca con 400 cavalieri. Lungo il tragitto fu raggiunto dalla notizia che a Pisa era scoppiata una rivolta guidata da Coscetto dal Colle. Tornò subito indietro, ma i Pisani, ormai schieratisi con i suoi oppositori, gli impedirono di entrare in città. Il D. allora si diresse verso Lucca, ma trovò che anche questo Comune si era sbarazzato del suo governo. Nello stesso giorno, dunque, il D. perse le due città sulle quali aveva sperato di fondare la sua signoria.
Castruccio Castracani concesse al D. e al figlio Ranieri un salvacondotto per lasciare la Toscana. I due si rifugiarono prima presso il ghibellino Spinetta Malaspina di Fosdinovo, poi si spostarono a Modena, quindi a Mantova e infine a Verona dove il D. entrò al servizio di Cangrande Della Scala come comandante dell'esercito. Nel 1317 - probabilmente nel mese di agosto - il D. tentò di conquistare Pisa con l'aiuto di Spinetta Malaspina e della fazione cittadina dei Lanfranchi, ma il complotto venne scoperto, quattro dei Lanfranchi furono giustiziati e il D. dovette rientrare a Verona dove trovò rifugio anche Spinetta Malaspina.
Il D. trascorse gli ultimi anni della sua vita al servizio di Cangrande: combatté contro Brescia e Padova e nel 1318 assediò Treviso. Nel luglio 1317 fu nominato podestà di Brescia e in tale veste colpì duramente gli oppositori di Carigrande. Morì a Vicenza il 1º nov. 1319, probabilmente a causa di una febbre contratta mentre combatteva nella zona paludosa intorno a Padova. Fu sepolto a Verona nella chiesa dei frati predicatori.
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