CASALI, Uguccio Urbano
Nacque da Bartolomeo di Ranieri e dalla sua seconda moglie, Beatrice di Francesco Castracani, dopo il 1349 (quando era ancora viva la prima moglie di Bartolomeo) ma prima del 1363, quando il suo nome figura nel testamento paterno.
Durante il principato di Francesco, suo fratellastro, visse probabilmente in Cortona e nel palazzo Casali, all'ombra della madre che, matrigna di Francesco, non doveva esser troppo ben vista dal figliastro né dagli Ubaldini suoi consorti. E nell'ombra rimase negli anni della formale signoria di Niccolò Giovanni, suo nipote, mentre il potere effettivo si giocava tra Giovanni da Varano, Azzo degli Ubertini e Ilario Grifoni tutori del ragazzo.
Fu probabilmente proprio a causa dell'ondata di consiglieri, spesso di umile estrazione, e di parenti acquisiti che aveva invaso palazzo Casali e messo le mani sulle leve del governo, che parecchi membri della famiglia signorile - vistisi posti in disparte - cominciarono a guardare con crescente interesse al C. e alla di lui madre, che si era ritirata a Siena (o, secondo altre fonti, a Campiglia), come a una possibile, e sul piano genealogico legittima, alternativa dinastica. Si trattava cioè di sostituire ai discendenti di Bartolomeo della linea della prima moglie, l'Ubaldini, e dei consorti del loro primogenito, i da Varano, i suoi discendenti della linea della seconda, la Castracani: con ciò si sarebbero eliminati i consiglieri e i gestori del potere regenziale voluti da Francesco e perpetuatisi con la morte di Niccolò Giovanni, che non aveva lasciato testamento. Il più odiato tra questi detentori del potere era senza dubbio il notaio reggiano Ilario Grifoni, la cui politica filofiorentina era recentemente venuta in sospetto a Siena. Protagonisti della congiura furono due bastardi della famiglia Casali: Bartolomeo di Lipparello e Stefano di Spica. I due si rivolsero prima al C. ma, trovandolo assai pavido, si appellarono alla di lui madre facendola rientrare nascostamente in Cortona dall'esilio. Pare probabile che, direttamente o tramite la Castracani, essi avessero ricevutoun certo incoraggiamento dalla Signoria senese. Il Grifoni fu trucidato, e il suo cadavere straziato barbaramente; i suoi partigiani - che non dovevano esser pochi - non osarono muover dito. Il 13 sett. 1384 il Consiglio generale del Comune riconosceva signore il C., associandolo al nipote Francesco Senese e al bisnipote Aioigi Battista la cui dignità signorile veniva confermata.
A Siena si fu soddisfatti del colpo di mano, che liberava Cortona da un uomo troppo legato a Firenze; pare si fosse lieti anche a Perugia, dove si sperava che il C. avrebbe restituito Montequalandro; con preoccupazione reagirono i Fiorentini, che nel Grifoni avevano un buon amico. I fatti cortonesi richiamarono immediatamente le compagnie di ventura, addensate in quei paraggi perché impegnate nella questione aretina. Giunse tra gli altri sotto Cortona Giovanni d'Azzo degli Ubaldini, luogotenente di Enguerrando di Coucy e interessato, come la famiglia, a quanto accadeva nella città. L'Ubaldini avanzò assai probabilmente, come pretesto per la sua ingerenza nelle cose cortonesi, le sue preoccupazioni per il futuro di Francesco Senese e di Aloigi Casali, entrambi discendenti da Bartolomea degli Ubaldini. I Castracani, che si erano forse illusi di controllare liberamente Cortona, si accorsero di non poterlo fare senza accordarsi con gli Ubaldini. Da qui il matrimonio - negoziato da Andrea Castracani (fratello di Beatrice e pertanto zio materno del C.) - tra il C. e Tancia degli Ubaldini, sorella di Giovanni, prezzo chiesto dall'Ubaldini per allontanarsi con le sue truppe dal Cortonese. Il nuovo stato di cose escludeva dalla gestione della cosa pubblica in Cortona tutti i vecchi collaboratori del Grifoni e dei da Varano, ma mancava una classe dirigente cortonese legata ai nuovi padroni della città: v'erano solo alcune figure di secondo piano della famiglia Casali, come Bartolomeo di Lipparello, e taluni loro turbolenti sostenitori, d'estrazione in genere popolana. I complici di Beatrice furono ben presto eliminati, seguendo la logica di una spirale di rivalità e di vendetta ch'essa pare aver magistralmente diretto. Il medico Gilio Boni, di notevole famiglia cortonese, organizzò contro Bartolomeo di Lipparello una congiura sostenuta anche da alcuni ex fautori del Grifoni, quali il vescovo Angelo Chirimbaldi e suo fratello Testa. Dietro tale congiura v'era la mano della Castracani, la quale intendeva sbarazzarsi d'uno scomodo e violento amico e recuperare in parte le simpatie di quanti in città rimpiangevano il saggio governo del Grifoni. Ma, scoperta la manovra del Boni, questi fu abbandonato dai suoi autorevoli ispiratori e fattor uccidere. Poco dopo un sicario eliminò Bartolomeo di Lipparello; nella stessa maniera scomparve Antonio di Spica. La Castracani intendeva stendere un velo sull'assassinio del Grifoni, del quale andava recuperando le linee politiche avvicinandosi a Firenze. Dopo l'acquisto fiorentino di Arezzo, Cortona e Firenze erano ormai confinanti, e Beatrice aveva troppo timore di possibili rivolgimenti interni per non cercarsi fuori delle mura cortonesi un alleato potente, che avrebbe potuto sostenerla in caso di bisogno. Né a parte ciò poteva opporsi a Firenze senza temere che questa facesse fare a Cortona la fine di Arezzo.
Sfruttando abilmente la sua parentela con gli Ubaldini per far credere che avrebbe potuto darsi al Visconti, adulando i Fiorentini e dicendosi stanco dell'accomandigia senese e disposto - se Firenze non lo avesse aiutato - a rivolgersi a Perugia, il C. debuttò in politica nel 1387 (sempre condizionato dall'autorità della madre e del suo proprio consigliere, Luca di Grazia Cordesco da Peciano) stipulando nell'agosto un'accomandigia che lo legava a Firenze.
I Fiorentini gioirono per questa scelta, ma non si abbandonarono ad alcun intempestivo ottimismo. Essi furono addirittura esitanti ad accogliere l'accomandigia, sia per le complicazioni diplomatiche che ciò comportava con Siena, sia perché il C. si rivelava un alleato inquieto posto al centro di una serie di intrighi. Tra l'altro, egli dette ospitalità ai figli di Bernabò Visconti, esuli dopo il colpo di mano di Giangaleazzo, e soprattutto a quello di loro che il conte di Virtù stimava più pericoloso, Carlo. Il fatto preoccupò i Fiorentini e certo dispiacque al cognato del C., quel Giovanni d'Azzo degli Ubaldini, fedele di Giangaleazzo. Che il C. ospitasse Carlo Visconti di buon grado è incerto: alla Signoria di Firenze egli faceva sapere il contrario, o essa fingeva di credere il contrario scrivendone al conte di Virtù. Giangaleazzo riuscì tramite un suo emissario (o più probabilmente per mezzo dei suoi fedeli Ubaldini) a procurarsi in Cortona un sicario che avrebbe dovuto eliminare Carlo Visconti. Si trattava di una persona vicina al signore, Gioioso Nascimbene Tolomei da Ferrara, medico, procuratore del C. nell'accomandigia a Firenze del 1387. La trama fu scoperta anche grazie ad una lettera dell'Acuto che, come signore di Montecchio Vespone, era vicino del C., e come marito di Donnina Visconti) figlia naturale di Bernabò, era parente di Carlo. Il Tolomei confessò e fu giustiziato; da parte sua Carlo, constatato che l'aria cortonese andava facendosi pesante per lui, nel settembre '88 si unì alla compagnia dell'Acuto.
Gli avvenimenti del 1387-88 parevano ormai aver fatto sì che il C. scegliesse con decisione il suo posto nello schieramento antivisconteo. Ma non fu così, anche perché la corsa verso lo scontro frontale subì una battuta d'arresto nel 1389, quando la lega stipulata in Pisa contro le compagnie di ventura, con la mediazione di Pietro Gambacorti, parve unire le potenze italiane: alla lega il C. partecipò come accomandato di Firenze. Ma già nella primavera del '90 la situazione era nuovamente precipitata, e la parola spettava ancora alle armi.
I drammatici avvenimenti italiani si riflettevano nello scacchiere cortonese. Il C. questionava con Città di Castello per la rocca di Petriolo, e cedeva solo a causa di un intervento fiorentino in merito; s'impadroniva poi di Valiano, che i Perugini riuscivano tuttavia a strappargli. Il dinamismo pericoloso del C. impensieriva non poco Firenze, la quale da un lato diffidava delle visite di Giovanni degli Ubaldini al congiunto, dall'altro temeva che gli offesi dal C., il quale ostentava la sua posizione di accomandato di Firenze, si gettassero nelle braccia del conte di Virtù. Comunque il C. si manteneva alleato sicuro, anche perché tale era la politica ispiratagli dal suo collaboratore e cappellano Luca di Grazia, che nel gennaio 1390 era divenuto anche vescovo di Cortona. Dopo aver mosso oscuramente i primi passi, probabilmente quale satellite della Castracani, Luca aveva a poco a poco acquistato potere, fino a divenire il padrone semincontrastato della politica cortonese. Che Luca fosse un fautore dell'antipapa di Avignone, come sostiene G. Mancini, non è molto probabile, e contrasterebbe del resto con la cautela che egli teneva a mostrare nelle sue posizioni. Si ha piuttosto l'impressione che Luca lasciasse il C. relativamente libero di tentare le sue piccole ma rischiose avventure militari e, in cambio, reggesse senza limitazioni le vicende interne della signoria. Frenava la prodigalità del C. e della moglie Tancia degli Ubaldini e cercava di allontanare dalla corte casaliana i parassiti e i personaggi politicamente ingombranti, si trattasse di Carlo Visconti o dei fratelli di Beatrice Castracani. È credibile che fosse Luca di Grazia a spingere il C. a far tornare in patria i suoi giovanissimi colleghi in signoria, Francesco Senese e Aloigi Casali: in parte certo per controllarli e impedire che cadessero sotto influenze estranee, ma in parte anche per abituarli alle pratiche di governo e limitare con la loro presenza l'arbitrio degli Ubaldini e dei Castracani. Dietro Luca di Grazia si profilava probabilmente l'influenza di Chiodolina da Varano, madre di Francesco Senese e provvista in città di un suo seguito: essa vegliava a che il figlio suo non fosse privato dei diritti signorili. Che il C. stesso appoggiasse Luca e addirittura la da Varano non è poi improbabile: essi erano un'alternativa contro la ingombrante volontà della troppo volitiva madre, della non desiderata e non amata moglie e dei parenti di entrambe. Era pertanto logico che parenti, "amici", compagni di dissipazioni e parassiti del C. vedessero nel vescovo il loro peggior nemico, e si accordassero per eliminarlo. L'occasione si presentò quando - dopo la tregua trimestrale stipulata il 13 luglio 1390 fra Perugia e Cortona - il C. e Tancia si recarono nel Veneto. Pare che i due andassero a congratularsi con Francesco Novello da Carrara, che dopo aver perduto Padova nel dicembre 1388 vi era rientrato nel giugno del 1390; che di lì il C. si spostasse a Venezia, certo per controllarvi gli interessi finanziari che i Casali vi avevano dopo gli investimenti effettuati da Francesco; che in quest'ultima città una malattia l'obbligasse a prolungare il soggiorno. Si ha l'impressione che il viaggio abbia avuto lo scopo principale di allontanare il C. da Cortona per lasciar agire meglio i sicari incaricati di uccidere Luca di Grazia; e resterebbe da appurare, se il C. sia stato davvero all'oscuro di tutto o se, pur sapendo o sospettando qualcosa, abbia ancora una volta piegato la testa al volere altrui. Comunque stessero le cose, il 7 ag. 1390 alcuni familiari e partigiani del signore provocavano una rissa nel corso della quale - nonostante l'intervento pacificatore di Chiodolina da Varano e del podestà Francesco di Cola da Montefiascone - il vescovo cadeva ucciso. La congiura ha indubbie somiglianze con quella la cui vittima era stato, sei anni prima, Ilario Grifoni; anche gli assassini erano, almeno in parte, i medesimi. Il delitto pare maturato cioè fra i satelliti della Castracani. Rientrato in patria, il C. si comportò nel suo solito modo contorto. Finse di far giustizia ma in realtà colpì alla cieca, coinvolgendo degli innocenti e mantenendo viceversa il suo favore a elementi chiaramente colpevoli.
Erano intanto riprese le operazioni militari, che videro il C. impegnato soprattutto contro la città di Perugia; esse ebbero termine con la pace di Genova, che fu annunziata anche in Cortona il 2 febbr. 1392 e che pose termine agli stessi conflitti locali.
La morte del vescovo Luca di Grazia e la pace parvero liberare il C. e da preoccupazioni politiche e da inibizioni morali. Forse i suoi rimorsi per l'eccidio del fido consigliere lo tormentavano al punto da immergerlo in una sorta di disperata corsa al malfare. Le cronache lo descrivono dissoluto, tirannico, avido: pare che taglieggiasse i concittadini, spogliasse mercanti e viaggiatori, giungesse a mancar di rispetto agli oratori venuti a lui dalle città vicine. Ma le azioni politiche del C. non erano tutte ispirate a sregolatezza. Egli badava bene a non compromettersi con Firenze e, sapendo di avere molti nemici, sfruttava bene le sue amicizie. Nella questione della cattedra vescovile, vacante dopo la morte di Luca di Grazia, scelse Ubaldino Bonamici, già maestro dello Studio fiorentino e canonico del duomo di Firenze, persona di fiducia del pontefice romano e gradito anche al partito della moglie perché imparentato con gli Ubaldini dal lato materno. Trasferito il Bonamici nel '93, il C. fece sì che gli succedesse fra' Bartolomeo da Troia, già collaboratore di Luca di Grazia.
La regolarizzazione dei problemi della cattedra episcopale cortonese permise finalmente al C. una chiara presa di posizione, sul fatto dello scisma, a favore del pontefice di Roma. Ne ebbe il suo tornaconto, perché Bonifacio IX lo nominò vicario pontificio per Montequalandro, Borghetto, Reschio, Lisciano. Il suo intervento, d'accordo con i Fiorentini, in appoggio a Biordo Michelotti e ai Raspanti di Perugia, e la sua mediazione tra il Michelotti e i Tarlati aumentarono il suo credito e il suo potere; nel frattempo, con brutali ma ben calibrate azioni militari, si assicurava i diritti sulla Valdipierle e su Petriolo. Le manovre espansionistiche del C. finirono con il preoccupare e indispettire Biordo Michelotti, con grave disappunto di Firenze che vedeva con timore l'insorgere dell'inimicizia tra Cortona e Perugia; inimicizia che avrebbe potuto aprire un nuovo varco alle ingerenze viscontee, dopo che nel '91 Siena si era data al conte di Virtù. Il C., pur ostentando la sua fiducia nell'arbitrato fiorentino tra lui e il Michelotti, non perdeva occasione per far capire che se il comportamento di Firenze non l'avesse soddisfatto avrebbe saputo volgersi altrove, magari anche a Milano. Intanto rafforzava i suoi legami con Bonifacio IX e si cercava quanti più alleati poteva tra i signori centroitaliani.
In questo senso si deve intendere la sua partecipazione, nel '95, a un'altra delle solite leghe contro i venturieri; così la sua presenza alle nozze tra Galeotto Belfiore Malatesta e Anna, figlia di Antonio di Montefeltro, in quel medesimo anno; così, soprattutto, gli sponsali combinati lo stesso giorno (14 luglio 1396) fra suo nipote Francesco Senese e Antonia d'Agnolino Salimbeni e fra sua figlia Ermellina e Corrado d'Ugolino Trinci signore di Foligno. Il parentado con i Salimbeni era in un certo senso un ponte gettato ai Senesi e ai Visconti, e sanciva una certa autonomia (o almeno l'ostentazione di essa) rispetto a Firenze. Nonostante ciò nel 1397, allo scadere della decennale accomandigia, i patti venivano regolarmente rinnovati, e i Fiorentini (nell'evidente preoccupazione di perdere un utile alleato) si mostravano comprensivi nei confronti delle debolezze del C. verso i suoi parenti Ubaldini, filoviscontei, e gli permettevano di usar loro certi riguardi. La realtà è comunque un po' diversa da quel che le fonti ufficiali dicono: Firenze sapeva benissimo che il C. - indipendentemente dalla sua parentela con gli Ubaldini - faceva il doppio gioco, al punto da inviare in quello stesso '97 un procuratore a Milano per stipulare un'accomandigia con il conte di Virtù; ma badava a non far precipitare gli eventi anche perché temeva assai di più che fossero i Perugini, irritati con Firenze chera incapace a dirimere la loro questione con il C., a darsi al Visconti.
La morte del Michelotti, ucciso da un sicario nel marzo dell'anno 1398, finì per sciogliere parecchi nodi: il C. lasciò cadere in parte - per il momento - le sue manovre diplomatiche e si collegò alla grande lega contro il Visconti inaugurando nel contempo, sempre nel quadro dell'alleanza con Firenze, una politica di più largo respiro. Lo vediamo nell'ottobre del 1398 ricevuto onorevolmente a Lucca, e da lì visitare Pistoia e Firenze. Teneva, insomma, a dimostrare di sentirsi non tanto accomandato, quanto piuttosto alleato dei Fiorentini.
Non si trattava tuttavia di un'alleanza stabile. Il C. non rinunziava ai colpi di testa e alle ipocrisie diplomatiche. Le sue contese con Perugia alimentavano la confusione e il disordine e spingevano sempre più i Perugini verso Giangaleazzo. Da parte loro, i Fiorentini lo ripagavano della stessa moneta: nell'estate del '99 lasciarono impunito Francesco da Moncione, che aveva tramato contro il C.; e poco dopo intervenivano solo tiepidamente nei confronti delle milizie del Broglia, al loro soldo, le quali avevano guastato il Cortonese. Il C. smaniava, respingeva le richieste fiorentine di pacificarsi con i Perugini, minacciava di passare al conte di Virtù. Non ne fece di nulla anche perché i Perugini lo prevennero, facendo loro quel passo che egli sosteneva da troppo tempo di essere sul punto di fare.
La dedizione di Perugia al Visconti, nel gennaio del 1400, ebbe il pregio di chiarire quali fossero gli schieramenti. Al C. non restava che stringersi a Firenze. Tuttavia non lo fece senza mercanteggiare: nel marzo 1400 il suo procuratore, ch'era il vescovo Bartolomeo, ottenne sensibili miglioramenti rispetto ai patti del '97. Né rinunziò alla sua semindipindenza, intervenendo in appoggio ai Farnese nell'Orvietano e presentandosi quale arbitro nella lite fra Città di Castello e gli Ubaldini senza preoccuparsi del parere fiorentino in merito.
Era un uomo ancor giovane colui che nell'estate del 1400 fu spinto al pentimento dalla devozione dei bianchi. La cosa apparve tanto strana ed inattesa, soprattutto in un peccatore incallito come lui, che il più attento relatore della sua crisi religiosa - Giovanni Sercambi - sparse attorno al racconto della sua conversione un'aura miracolosa, da leggenda agiografica. Secondo il Sercambi alcuni bianchi avevano osato mandar a dire al C. di pentirsi e porre rimedio ai suoi delitti; avendo di rimando egli ordinato ai suoi scherani di massacrare i bianchi che fossero venuti a tiro, una forza invisibile aveva fermato la loro mano. I bianchi avevano predetto poi che Dio, per questo, lo avrebbe punito. Durante la notte, il diavolo aveva quasi strangolato il C., facendogli perdere la parola; guarito per intercessione della Vergine, egli si era a sua volta vestito di bianco ed era sceso per le vie di Cortona perdonando ed implorando, a sua volta, il perdono. Era quindi partito con altri bianchi cortonesi ed aveva peregrinato nove giorni, poi ancora altri sette. Ciò era accaduto, secondo il Sercambi, nel settembre del 1400. Da altre fonti sappiamo che furono i bianchi senesi a diffondere il movimento a Cortona e che il C. si mosse con il gruppo di bianchi cortonesi recandosi a Chiusi, Città di Castello, Foligno. Probabilmente giunse a Cortona, insieme con i bianchi, la peste. Pare che il C., il quale aveva già ceduto la signoria a Francesco Senese e ad Aloigi Battista, facesse voto di recarsi a Firenze per curarvi gli appestati nell'ospedale di S. Maria Nuova. Forse era ormai minato a sua volta dal male; qualche testimonianza, più malevola, sostiene che avesse preferito recarsi a Firenze, dove il contagio era in declino, per sfuggire la sua città dove esso era viceversa all'inizio.
Il C. partì da Cortona il 4 ottobre con la figlia Ermellina; giunto a Firenze, vi morì il 16 di quello stesso mese. La Signoria fiorentina gli tributò solenni onoranze funebri e ne rinviò il corpo scortato affinché fosse sepolto in S. Margherita.
Dal matrimonio con Tancia Ubaldini il C. non aveva avuto altri eredi che il figlio Giacobbe, nato nel '93 e forse premortogli, e la figlia Armellina o Ermellina, promessa sposa a Corrado Trinci nel '96 e morta col C. a Firenze. Di un'altra figlia legittima, nata nel '91, non sappiamo nulla di sicuro; quanto poi a figli naturali abbiamo notizia soltanto di Giulio Vittorio che Sposò il 27 sett. 1399, quindicenne, la decenne Romana di Baschi.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico. Riformagioni, Atti Pubblici, 1387, 19, 23, 28 agosto, 4 settembre; 1396, 22 novembre; 1398, 2 maggio; Ibid., Diplomatico. Unione dei luoghi pii di Cortona, 1389, 27 gennaio; 1389, 28 maggio; 1390, 21 maggio; 1392, 25 novembre; Ibid., Diplomatico. S. Chiara di Cortona, 1392, 5 settembre; Ibid., Protocollo dei Capitoli, cc. 214r-237v, 286r; Ibid., Signori, carteggi. Legazioni e commissarie. Elezioni e istruzioni a oratori, II, cc. 2v-3r, 6r-7r, 15v, 21r-22r, 26; Ibid., Notarile antecosimiano. Uguccione di Lando;Ibid., Notarile antecosimiano. Antonio Naldi;Ibid., Notarile antecosimiano. Rinaldo di Toto;Ibid., Notarile antecosimiano. Francesco di Nuccio;Archivio di Stato di Siena, Concistoro. 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