Uguaglianza
(XXXIV, p. 621)
L'idea di uguaglianza, antichissima, multiforme e spesso sfuggente, presenta significati diversi a seconda dei contesti discorsivi in cui ricorre. Si possono individuare almeno tre grandi contesti d'uso dell'idea di u.: quelli formalizzati, quelli descrittivi e quelli prescrittivi.
Nei contesti formalizzati, per es. nella matematica, nella logica e nella geometria euclidea, quando si predica l'u. tra due enti si intende dire che sono indistinguibili in tutte le loro caratteristiche. Un giudizio di uguaglianza, nei contesti formalizzati, asserisce pertanto una relazione di identità: dire che 'uno più due è uguale a tre' equivale infatti a dire che il numero che è il risultato della somma di uno e due è (identico a) tre.
Nei contesti descrittivi, quando si compiono cioè osservazioni o rilevazioni empiriche, con il termine uguaglianza si descrive, o si instaura, una relazione comparativa tra due o più oggetti, che possiedono almeno una caratteristica rilevante in comune. La rilevanza di tale caratteristica dipende dalla scelta di uno standard di valutazione, in base al quale gli oggetti in questione sono considerati uguali.
Per es., due vasi possono essere descritti come uguali sulla base di almeno due caratteristiche che potrebbero assumersi come rilevanti: la forma e il colore; se i due vasi hanno la stessa forma e lo stesso colore, si dirà che sono uguali, mentre si dirà che sono uguali di forma, ma non di colore, se si riscontrano tra loro soltanto delle differenze cromatiche. Dire che due oggetti sono uguali non equivale però ad asserire che sono identici; equivale ad asserire che, pur non essendo identici, si fa astrazione dalle loro differenze, le si trascura, assumendo come rilevanti solo le caratteristiche che essi hanno in comune. Possono esservi infatti altri standard di misurazione in base ai quali si individuerebbero invece delle differenze: i due vasi dell'esempio potrebbero avere un diverso peso, una diversa età, una diversa composizione ecc., ma quando li si giudica uguali si instaura tra loro una relazione di equivalenza che non tiene conto di tutte quelle caratteristiche differenziali.
Anche la somiglianza è una relazione comparativa tra due o più oggetti, che possiedono almeno una caratteristica rilevante in comune; ma nel caso del giudizio di somiglianza non si fa di solito astrazione dalle differenze tra i due oggetti che vengono giudicati simili: quando si dice che due oggetti si assomigliano si sottolineano le loro caratteristiche comuni, ma si presuppone al contempo che presentino anche delle diversità, rilevabili con l'impiego di altri standard di misurazione rispetto a quelli che consentono di formulare il giudizio di somiglianza.
Il giudizio di identità - quando identità non viene usato, come accade talvolta nel linguaggio ordinario, quale mero sinonimo di u. - indica che due o più oggetti hanno in comune tutte le caratteristiche, né solo alcune né solo quelle rilevanti: indica cioè, secondo il principio dell'"identità degli indiscernibili" noto anche come legge di Leibniz, che quegli oggetti sono semplicemente uno e lo stesso oggetto. Se viene infatti assunta la rilevanza della caratteristica costituita dalla collocazione nello spazio, se si sceglie cioè quale standard di misurazione anche quello spaziale, allora nessun oggetto, per quante caratteristiche abbia in comune con altri oggetti, è mai identico a nessun altro oggetto. Mentre la relazione di u. può essere espressa dalla formula a=b, dove a e b sono oggetti diversi, la relazione di identità è invece espressa dalla formula a=a. Proferire un giudizio di u. in contesti descrittivi, ossia predicare l'u. di due o più oggetti, equivale a dire che tali oggetti appartengono alla stessa classe logica, sulla base di una o più caratteristiche comuni. Dire, per es., che due vasi sono uguali in peso comporta che appartengano alla stessa classe (l'insieme dei vasi che hanno uguale peso, sulla base di un medesimo standard di misurazione), che non possano appartenere ad altre classi (sulla base dello stesso standard di misurazione) e che nessun altro vaso possa appartenere a quella classe, se non ha lo stesso peso. Un giudizio di u. (basato, per es., sullo standard del peso) divide l'insieme degli oggetti in due classi mutuamente esclusive e congiuntamente esaustive: rispettivamente, quella degli oggetti uguali tra loro sulla base dello standard e quella di tutti gli altri oggetti.
Il concetto di u. in contesti prescrittivi presenta proprietà analoghe. Nel campo della morale, della politica e del diritto, infatti, con il concetto di u. si prescrive, o si instaura, una relazione comparativa tra due o più soggetti, due o più azioni, due o più situazioni ecc., che possiedono almeno una caratteristica rilevante in comune. La rilevanza di tale caratteristica dipende, anche nei contesti prescrittivi, dalla scelta di uno standard di valutazione, in base al quale i soggetti, le azioni o le situazioni sono considerati uguali. Nell'ambito etico cui si farà d'ora in poi esclusivo riferimento - che è quello della filosofia pratica, ossia della morale, della politica e del diritto - il concetto di u. si basa su una norma (o un criterio, o un principio) che prescrive di assumere come rilevanti alcune caratteristiche comuni a due o più soggetti, azioni o situazioni. È la norma (o il criterio, o il principio) in questione che istituisce l'uguaglianza.
Entro un giudizio di u. vi è sempre, in ambito etico (il discorso è parzialmente diverso in altri ambiti), un giudizio di valore; in altri termini, un giudizio di u. non è solo descrittivo di fenomeni, non è avalutativo, non è neutrale. Ogni giudizio di u. presuppone, implicitamente o esplicitamente, la norma che istituisce l'u., prescrivendo di astrarre dalle caratteristiche differenziali per considerare rilevanti alcune caratteristiche comuni. In base a tale presupposto risultano confutati tutti quegli argomenti della forma: "X e Y sono di fatto diversi, quindi non devono essere trattati in modo uguale" (per es.: "le donne sono più deboli degli uomini, è un fatto; quindi devono essere discriminate", positivamente o negativamente non importa). Argomenti di questo tipo derivano un dover essere (la prescrizione di un trattamento uguale o diverso) da un essere (un giudizio di fatto, sbagliato o corretto che sia) e sono perciò logicamente scorretti, configurando quella che viene definita la "fallacia naturalistica". Non si può quindi screditare un giudizio di u. adducendo solo un fatto, o meglio un enunciato su qualche diversità esistente fra gli enti di cui altri enunciati predicano l'u.: è necessario addurre, oltre a questo fatto, una norma che prescriva di ritenere irrilevanti, anche e soprattutto, quelle caratteristiche che un'altra norma, quella istitutiva di u., considera invece rilevanti. Per es., per screditare, in ambito etico, il giudizio di u. "le donne sono uguali agli uomini" non è sufficiente, da un punto di vista logico, addurre un giudizio di fatto relativo alle caratteristiche psicofisiche che differenziano le donne dagli uomini; è necessario invece addurre una norma per la quale quelle caratteristiche psicofisiche differenziali devono essere considerate rilevanti ai fini della formulazione del giudizio di u., e devono al contrario essere ritenute irrilevanti quelle caratteristiche (per es., l'appartenenza alla specie umana) che sono considerate rilevanti dalla norma che istituisce l'u. tra donne e uomini.
Va d'altra parte osservato che, pur presentando, nelle lingue naturali e in contesti prescrittivi, delle connotazioni positive, il termine uguaglianza non è in se stesso un termine valutativo, giacché, a differenza di altri termini etici (come, per es., giustizia), non si riferisce direttamente a valori. Ciò contribuisce, in certa misura, a dotare l'idea di u. di una particolare forza retorica (Westen 1990): l'u. è oggi, nelle società sviluppate, abitualmente il paradigma, il punto fermo e, come tale, non ha bisogno di giustificazioni; a dover essere giustificate sono invece le deviazioni dall'uguaglianza.
Nei contesti prescrittivi è possibile individuare un concetto unitario, abbastanza ben determinato, di u., cui sono però sottese molte differenti concezioni dell'uguaglianza. Il concetto può essere caratterizzato come la classe cui appartengono tutte le concrete e particolari concezioni dell'u.; o, anche, come la struttura comune, puramente formale, che le singole concezioni rivestono di contenuto normativo; o ancora, da un punto di vista semantico, come quel nocciolo di significato comune che il termine uguaglianza mantiene in ogni suo uso prescrittivo. Il concetto è neutro, avalutativo, e, di per sé, non viene generalmente contestato, ma, poiché le varie concezioni a esso sottese sono assiologicamente connotate e controverse, sembra a volte che anche il concetto sia controverso, mentre in realtà non lo è. L'u. in contesti prescrittivi sembra così essere per tutti la stessa cosa e, contemporaneamente, cose diverse per persone diverse.
Il concetto prescrittivo di u. consiste nell'idea secondo cui "si devono trattare gli uguali in modo uguale e i diversi in modo diverso": un'idea antica, presente già in Platone e Aristotele e che è giunta più o meno invariata fino ai giorni nostri. Tale concetto è spesso definito come formale, giacché non prescrive alcunché di concreto fino a quando non venga riempito di un contenuto, non si chiarisca cioè chi sono gli uguali, e rispettivamente i diversi, e in che cosa sono uguali, e rispettivamente diversi (Bobbio 1995, p. 18). Il concetto prescrittivo di u. equivale infatti al concetto di applicazione di una regola, di qualunque regola, secondo quanto da essa prescritto (Westen 1990, pp. 227-29). Ogni regola di condotta istituisce una classe di uguali (i destinatari della regola stessa) e una classe di diversi (coloro cui la regola non si applica): e gli uguali sono tali in quanto la regola li tratta nello stesso modo, mentre i diversi sono tali in quanto la regola non si applica loro. Così come varia il contenuto delle differenti regole da applicare, pur rimanendo invariato il concetto di applicazione di una regola, altrettanto succede con l'u.: pur rimanendo invariato il concetto formale, variano le concezioni dell'u., a seconda del contenuto che di volta in volta presentano.
Un inciso. La giustizia distributiva, in senso formale, può riassumersi nella massima suum cuique tribuere, dare a ciascuno il suo: tale massima va considerata sostanzialmente equivalente al dovere di trattare gli uguali in modo uguale e i diversi in modo diverso, massima che, come si è detto, costituisce il precetto dell'u. formale. L'u. formale è quindi concettualmente, oltreché storicamente, legata all'idea di giustizia, quando anche quest'ultima venga concepita in modo formale. È infatti molto diffusa, in ambito etico, l'opinione secondo cui 'giustizia' designerebbe conformità rispetto a norme: giusto sarebbe quindi il trattamento uguale di tutti quei soggetti che sono appunto considerati uguali in quanto destinatari di una stessa norma. La norma in questione, peraltro, è come deve essere: si tratta cioè di una norma cui va l'approvazione di chi formula il giudizio in termini di giustizia, una norma che viene valutata positivamente e di cui si raccomanda (almeno implicitamente) l'osservanza. Giustizia infatti - ancor più di u. in contesti prescrittivi - è termine sempre connotato da una forte componente emotiva, valutativa e normativa: i giudizi in termini di giustizia esprimono sempre sentimenti di approvazione di colui che proferisce il giudizio nei confronti dell'ente di cui la giustizia si predica e della norma, o del criterio, che è metro della giustizia di quell'ente. Tali giudizi convogliano sempre verso l'uditorio una valutazione positiva del parlante nei confronti di quell'ente o di quella norma, implicando la presupposizione che l'uditorio condivida il giudizio in questione.
Come le varie concezioni della giustizia sono tutte sottese all'unico concetto formale di giustizia, così le differenti concezioni dell'u., come già si è accennato, sono tutte sottese all'unico concetto formale di uguaglianza. Non sarà possibile esaminarle, e neppure enumerarle tutte, giacché si danno molteplici concezioni dell'u. a seconda dei diversi beni, o dei diversi mali, da distribuire, a seconda dei destinatari della distribuzione, a seconda dei criteri con cui effettuare la distribuzione, e così via. Se ne esamineranno quindi solo alcune particolarmente rilevanti in età contemporanea, a cominciare da quella liberale, che deriva direttamente da alcune idee proprie del pensiero politico-giuridico illuministico.
La concezione liberale dell'u. - se intendiamo la qualificazione di liberale nel senso più esteso, inclusivo anche del riferimento al moderno costituzionalismo - è una delle idee costitutive della modernità politico-giuridica ed è strettamente connessa al valore dell'autonomia individuale. Si tratta in realtà di una concezione dell'u. strutturata su due principi, connessi ma concettualmente indipendenti: l'u. di fronte alla legge e l'u. nei diritti fondamentali.
L'u. di fronte alla legge è un'idea complessa e ambigua, connessa a quella di Stato di diritto, e consiste in un insieme aperto di prescrizioni, una delle quali di tipo formale, mentre altre sono di carattere sostanziale. La prescrizione di tipo formale è quella che deriva logicamente dal concetto formale di u., costituendone una mera specificazione: la legge non deve distinguere tra le persone se non per quegli aspetti che essa stessa considera rilevanti. Tra le prescrizioni di tipo sostanziale si annoverano invece le regole del giusto processo, dell'irretroattività della legge, dell'accesso gratuito ai procedimenti giudiziari per gli indigenti, le regole che impongono la generale soggezione alla legge da parte di tutti, senza che vi siano persone privilegiate o immuni ecc. (Westen 1990, pp. 76-77). Ma la prescrizione sostanziale più importante è senza dubbio quella secondo cui la legge non deve distinguere tra le persone in modo arbitrario o irrazionale. Negli ordinamenti moderni in cui si è affermata la concezione liberale dell'u. di fronte alla legge, tale prescrizione si traduce - fondamentalmente, ma non solo - in quella secondo cui la legge non può istituire né giustificare alcun trattamento differenziale tra le persone sulla base del sesso, della razza, della lingua e della religione. È quindi illegittima ogni discriminazione giuridica basata su un essere (sesso, razza) o su un appartenere (lingua, religione) delle persone. Tale concezione dell'u. viene giustificata, all'interno della filosofia politica liberale, sulla base del valore supremo dell'autonomia individuale. Le uniche discriminazioni accettabili sarebbero quelle basate su un fare, su ciò che una persona ha fatto, sulle sue azioni. L'individuazione nel sesso, nella razza, nella lingua e nella religione delle uniche caratteristiche costitutive di un essere o di un appartenere è storicamente contingente: nel momento in cui la dottrina liberale si è formata, e probabilmente ancora oggi, quelle sono state considerate le caratteristiche più rilevanti di un essere non modificabile (non si può, o meglio: non si poteva, cambiare sesso; non si può cambiare razza) o di un appartenere non scelto autonomamente (una è di solito la lingua madre e a un culto religioso di solito si viene educati da bambini). Si tratta di caratteristiche che potranno forse divenire e che, in parte, già stanno divenendo modificabili per libera decisione individuale; nella misura in cui lo divenissero pienamente, uscirebbero dalla categoria dell'essere o dell'appartenere per entrare in quella del fare.
L'u. nei diritti fondamentali comporta appunto che a tutte le persone debbano essere riconosciuti uguali diritti fondamentali. La più celebre e icastica formulazione di tale idea si trova nell'articolo 1 della Déclaration des droits de l'homme et du citoyen (1789): "Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits". Dalla combinazione di tale concezione dell'u. con quella di u. di fronte alla legge deriva a fortiori che nessun trattamento differenziale, per quanto attiene alla distribuzione dei diritti fondamentali, può essere istituito o giustificato tra le persone sulla base del sesso, della razza, della lingua e della religione. La concezione liberale dell'u. prescrive di considerare rilevanti, in ambito giuridico e ai fini dell'attribuzione di diritti, doveri e libertà fondamentali, l'appartenenza alla specie umana, o qualche altra caratteristica designata da termini che, pur avendo diverso significato, si riferiscano, qui e oggi, allo stesso insieme di soggetti (per es., la caratteristica di essere un soggetto razionale, capace di dare un senso alla propria vita, di esprimersi in un linguaggio articolato ecc.).
Mentre il principio di u. nei diritti fondamentali è entrato a far parte di molte carte costituzionali e dichiarazioni internazionali dei diritti, e viene fatto sostanzialmente rispettare almeno in qualche parte del mondo, il principio di u. di fronte alla legge, nel senso specifico di divieto di discriminazione sulla base del sesso, della razza, della lingua e della religione, non è mai stato messo integralmente in pratica da nessun sistema giuridico. Esso rappresenta un ideale-limite del liberalismo, soprattutto nella sua formulazione più universale, che ritiene irrilevante qualunque essere e qualunque appartenere ai fini di un trattamento disuguale, sia sfavorevole sia favorevole.
Le uniche limitazioni legittime al principio di u. nei diritti sono costituite, in un'ottica liberale, dalle restrizioni all'esercizio dei diritti fondamentali, basate non su un essere o un appartenere, ma su un fare. Non qualunque azione, però, può essere considerata ragione giustificante di una tale restrizione: deve trattarsi esclusivamente di azioni che provochino un danno ad altri; e sono ritenute provocare un danno ad altri solo quelle azioni che violano diritti altrui, a esclusione quindi degli atti meramente interni e di quegli atti esterni che ledono soltanto interessi non (giuridicamente o moralmente) protetti di altri. Quindi anche per questa via - se pur divenissero oggetto di una libera scelta - sesso, razza, lingua e religione non potrebbero costituire, per la dottrina liberale, caratteristiche rilevanti per un trattamento disuguale nell'esercizio dei diritti fondamentali, giacché la scelta di possedere tali caratteristiche sarebbe o un atto puramente interno o comunque un atto che non lederebbe diritti fondamentali altrui.
La concezione liberale dell'u. non va confusa con il concetto di u., ossia con l'u. formale, che, come si è detto, viene istituita da qualunque regola. La regola secondo cui "i Neri non hanno diritto di voto" istituisce un'u. formale tra tutti i Neri; essa è però contraria alla concezione liberale, giacché fa della razza una caratteristica rilevante per la negazione di un fondamentale diritto politico. L'u. liberale è un tipo di u. sostanziale, ma, come tutte le altre concezioni, conserva anch'essa, peraltro, quel nocciolo di significato comune in cui consiste l'u. formale: in base a una caratteristica rilevante in comune (l'appartenenza alla specie umana) istituisce infatti u. tra soggetti per altri versi, e ad altri fini, differenti tra loro. L'u. liberale può dirsi forse universale per quanto attiene ai soggetti uguali (tutti gli esseri umani), ma non per quanto attiene a ciò che viene distribuito attraverso la regola che istituisce l'u.: essa non prescrive che tutti gli uomini siano in tutto uguali; prescrive soltanto l'u. nella distribuzione dei diritti, dei doveri e delle libertà fondamentali. Nella distribuzione di altri benefici e di altri costi generati dalla cooperazione sociale valgono, ed è bene che valgano, altri criteri: l'appartenenza a uno status, il merito, il bisogno ecc. La concezione liberale dell'u. si caratterizza quindi da un lato, positivamente, per distribuire a tutti gli esseri umani certi beni, costituiti dai diritti fondamentali, dall'altro, negativamente, per vietare distribuzioni disuguali di qualunque bene o di qualunque male, se basate su giustificazioni che facciano riferimento a un essere o a un appartenere. Tale concezione si distingue facilmente dall'u. meccanica, per la quale tutti gli individui devono essere trattati sempre nello stesso identico modo, o, che è lo stesso, nessun individuo deve mai essere trattato in modo diverso da qualunque altro. L'u. meccanica non costituisce l'ideale, e neppure l'ideale-limite, di nessuna dottrina filosofico-politica, e come tale è d'importanza trascurabile.
In età contemporanea vi sono però altre dottrine, molto influenti, che contrastano la concezione liberale dell'u.: in particolare l'irrilevanza delle differenze di sesso, lingua e religione, sostenuta dal liberalismo politico, è palesemente un obiettivo del tutto antagonistico rispetto ad alcuni approcci che fanno della differenza (di essere o di appartenere) un elemento rilevante e non contingente che giustificherebbe trattamenti di sfavore o di favore (Beyond equality and difference, 1992; Sainsbury 1996). Avversaria del principio di u. di fronte alla legge appare, per es., la componente radicale del movimento femminista, che sembra rifiutare addirittura il concetto formale di u., e quindi il precetto che gli uguali debbano essere trattati in modo uguale e i diversi in modo diverso (sul pensiero della differenza si rinvia alle voci genere ed etica, in questa Appendice).
Ogni tentativo di classificare le diverse concezioni dell'u. non può esimersi dal sottolineare almeno la differenza tra le concezioni che pongono l'accento sull'u. dei punti di partenza e quelle che pongono l'accento sull'u. dei punti di arrivo, e tra quelle che vogliono realizzare un'uguale distribuzione di beni e quelle che vogliono realizzare un'uguale distribuzione di benessere (Equality, 1967; L'égalité, 1977; Rae, Yates 1981). Tali differenze sono spesso trascurate nel dibattito politico che si colloca al lato del contemporaneo, generale consenso sul fatto che ogni Stato, attraverso il diritto, debba assicurare a tutti i suoi cittadini una uguaglianza di opportunità. Quest'ultima espressione è infatti fortemente ambigua: l'obiettivo dell'u. di opportunità gode di così largo favore proprio perché i suoi contorni sono spesso vaghi. Quando si pongono problemi di giustizia distributiva, e si risolvono con l'individuazione di qualche criterio sulla base del quale effettuare la distribuzione, il concetto di u. è sempre coinvolto, dato che, quale che sia il criterio prescelto, esso necessariamente istituisce una relazione di u. tra i destinatari della distribuzione. Le differenti concezioni dell'u. competono invece (tra loro ed eventualmente con altri principi di giustizia) rispetto ai criteri sulla base dei quali effettuare la distribuzione stessa.
Le concezioni che pongono l'accento sull'u. dei punti di partenza argomentano in favore di una distribuzione delle risorse (o meglio: di alcune risorse) che assicuri a tutti le stesse opportunità nella 'gara' della vita, lasciando poi alla decisione degli individui se e come utilizzarle; tali concezioni condividono l'idea che, se i punti di partenza sono equi, equo dovrà essere considerato l'esito della 'gara' (Nozick 1974). Al contrario, le concezioni dell'u. che pongono l'accento sui punti di arrivo sono favorevoli a procedure di distribuzione che comportino una serie di interventi volti a ottenere un esito finale equo: fra tali interventi può esservi, ma non deve necessariamente esservi, un'uguale distribuzione delle opportunità iniziali offerte a ciascun individuo (Rawls 1971). Anche se risulta difficile tracciare una precisa linea di demarcazione, può essere osservato che vi è un tendenziale favore delle filosofie politiche liberali e soprattutto libertarie per l'u. dei punti di partenza, mentre l'u. dei punti di arrivo è generalmente auspicata dalle filosofie politiche che si inseriscono nel solco della tradizione marxista e dalle correnti neocontrattualiste ispirate da J. Rawls.
Parzialmente sovrapposta e variamente intersecantesi con la precedente è infine la distinzione tra concezioni dell'u. che si traducono in criteri di distribuzione che hanno a oggetto beni e, rispettivamente, criteri che hanno a oggetto il benessere degli individui. Le prime sono volte a distribuire a tutti i destinatari, individuati dal criterio, un'uguale quantità di beni, sia essa una distribuzione iniziale sia essa una distribuzione finale, indipendentemente dalle preferenze espresse, nei confronti di quei beni, da parte degli individui coinvolti. Le seconde, invece, attraverso una distribuzione anche disuguale dei beni, mirano al raggiungimento di un'uguale distribuzione, iniziale o finale, di benessere tra gli individui coinvolti. Affinché tutti gli individui raggiungano lo stesso livello di benessere è necessario tenere conto delle preferenze espresse, nei confronti di certi beni che possono essere distribuiti, da parte degli individui: com'è intuitivo, se due individui manifestano un diverso grado di preferenza verso uno stesso tipo di bene, essi raggiungeranno lo stesso livello di benessere, in relazione a quel bene, attraverso una distribuzione disuguale del bene stesso.
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