MANFREDI, Ugolino
Nacque a Faenza da Alberigo e da Beatrice, di cui non conosciamo il casato, probabilmente intorno alla metà del Duecento.
Appartenne a un'importante famiglia guelfa e fu soprannominato "Bucciola", "Buzzola" o "Bozzola", come l'omonimo nonno. La sua esistenza fu condizionata dalle scelte politiche imposte dal padre al ramo familiare dei Manfredi sia nei confronti degli avversari politici sia nei confronti dei restanti rami della famiglia Manfredi. Ciò costrinse il M. a perseguire insieme con il padre il primato sul doppio versante del conflitto armato e della diplomazia, con risultati spesso sfavorevoli. Se, infatti, in seguito all'assassinio dello zio Manfredo e del cugino Alberghetto, avvenuto nel 1285, il M. divenne il candidato naturale a prendere la guida del lignaggio in Faenza, egli non poté che risiedervi in maniera discontinua, costantemente impegnato nell'imporre una supremazia contesa dai ghibellini e da Maghinardo Pagani, e condizionata dal controllo esercitato dal Comune bolognese e, a partire dal 1278, dai legati pontifici.
Le prime notizie riguardanti il M. risalgono al luglio 1279 quando partecipò, in qualità di garante e di fideiussore, alla ratifica della pace generale sancita tra le parti guelfe e ghibelline di Bologna e i loro fautori di Romagna. Il 7 ott. 1282 Ostasio da Polenta, podestà di Bagnacavallo, su decisione del Consiglio generale del Comune di Bagnacavallo, ratificò la provvisione che stabiliva di dare al M. l'incarico podestarile per il secondo semestre dell'anno successivo.
Se nel M. si identifica quell'Hugolinus de Manfredis che presentava la propria denuncia dei redditi a Bologna nel 1283, egli si doveva allora trovare nella città felsinea, dove possedeva beni terrieri, case e bestiame a Medesano in località Le Spose nel contado.
Il 2 maggio 1285 il M. prese parte all'uccisione dei consanguinei Manfredo e Alberghetto Manfredi, organizzata presso la pieve di Cesato dal padre Alberigo. In seguito al bando, il M. trovò rifugio a Susinana presso Maghinardo Pagani, con il quale, nell'agosto del 1286, tentò vanamente di impossessarsi di Imola in combutta con la potente famiglia Nordigli, allora dominante in città. Fallito anche il tentativo di fare ingresso a Forlì, il M. rientrò a Susinana, da dove promosse diverse incursioni belliche per impossessarsi di Faenza, in cui riuscì a fare il proprio ingresso nel mese di novembre del 1286.
Questa nuova situazione aveva mostrato come il M. fosse divenuto una pedina importante nel progetto egemonico di Maghinardo Pagani, cui fu affidato l'incarico di podestà della città romagnola. L'anno successivo si giungeva a siglare una pacificazione fra i diversi rami, allora divisi, dei Manfredi. Il medesimo anno il M., insieme con il padre e altri membri del casato, oltre che i Nordigli di Imola e gli Argogliosi di Forlì, ratificò un trattato di pace con Malatesta Malatesta (Malatesta da Verucchio). Erano giunte a maturazione le condizioni che consentirono ai Manfredi di trovare una tregua con la parte avversaria all'interno della città; l'accordo fu coronato dal matrimonio del M. con Patrizia di Guido de Glauxano degli Accarisi, sposata il 25 nov. 1287.
Agli inizi degli anni Novanta il M. riprese però a partecipare alle lotte di parte, nelle quali fu implicato per quasi un decennio. I nuovi contrasti si acuirono in Faenza nel 1292 e da essi si generarono violenti scontri civili. Nel mese di giugno il M. andava alimentando dai castelli aviti la ribellione contro Faenza, che reagì assediando il M. e i suoi seguaci. Egli dovette fronteggiare ancora una volta il ritorno dell'esercito faentino, che il 23 giugno attaccò il castello di Rontana, dove il M. si trovava con i propri fautori, costringendolo alla resa. Seguì una tregua, che si concluse con un trattato di pace che prevedeva la sottomissione del castello al governo cittadino; ai patti si assoggettarono anche gli uomini della parte manfreda barricati nei castelli di Quarneto e di Fognano.
Il M. si rifugiò a Bologna, che divenne probabilmente la sua città di residenza nell'ultimo decennio del Duecento; lì poté occuparsi della gestione del proprio patrimonio e mettere al servizio del Comune geremeo le proprie competenze in ambito militare. Fu in quell'anno che, nel mese di luglio, il M. presenziò nella città felsinea all'atto di elezione del bolognese Filomasio d'Alberto da Sala, incaricato dal Comune di Perugia di reggere la magistratura di capitano del Popolo. Tre anni più tardi, nel 1295, il conte di Romagna, Pietro da Monreale, favorì una pace che nelle intenzioni avrebbe dovuto porre termine alle lotte di parte che sconvolgevano da oltre mezzo secolo Faenza. Per rendere più sicura quella pace si premurò di prendere ostaggi e fideiussori da entrambe le parti contendenti: un figlio del M. e un figlio di Federico Accarisi furono mandati in ostaggio a Castrocaro. Siglato un accordo di pace con Alberico da Cunio, il M. fece allora rientro in città.
Ma quanto illusoria fosse la presunzione di placare gli odi di parte e i rancori personali, alimentati da decenni di continui scontri fratricidi cresciuti nelle lotte di fazione e familiari che insanguinarono Faenza, fu palesato dalla durata brevissima della tregua.
Nell'estate del 1295 il M. con suo padre, suo cugino, i conti di Cunio, diversi appartenenti alla famiglia de Rogatis, seguaci e amici riammessi in città, tentò di conquistare la città contro la volontà del conte di Romagna. Il tentativo risultò vano e gli Accarisi, vincitori sul campo, imposero una nuova pace, firmata il 7 genn. 1296. In esilio a Bologna il M. partecipò in qualità di conestabile dell'esercito bolognese, tra il 1298 e il 1299, alla guerra che opponeva il Comune bolognese al marchese Azzo d'Este e ai ghibellini di Romagna, arruolati nelle schiere dell'esercito estense. In quell'occasione il M. inoltrò al Consiglio del Popolo di Bologna la richiesta di procedere a uno scambio di prigionieri: egli voleva ottenere, grazie al rilascio di Pietro dei Principi, fuoruscito ghibellino in quel momento in potere del Comune di Bologna, la liberazione di Ugolino di Mezzo Manfredi, suo parente, che in qualità di stipendiarius del Comune bolognese aveva partecipato a un combattimento presso il castello di Dozza, da dove, dopo essere stato catturato, era stato condotto a Imola.
Nel 1299 il M. risulta risiedere nella "cappella" di S. Cecilia del quartiere di Porta Piera (S. Pietro) di Bologna e in quell'anno contrasse due debiti di denaro con bolognesi. A Bologna il M. era giunto con il padre, la moglie e molti altri appartenenti alla consorteria dei Manfredi. In città ebbe modo di conoscere e frequentare probabilmente il poeta Onesto da Bologna, con il quale ebbe uno scambio poetico. Il M. morì a Ravenna nel 1301.
Sua moglie Beatrice, i figli legittimi, Guglielmina, Agnesina, Caterina e Franceschina, e quelli naturali, Chiara e Antonio, furono beneficiati quali suoi eredi dal padre Alberigo, nel testamento redatto a Ravenna nel 1302; in esso Alberigo si premurava di assicurare il futuro ai propri nipoti affidandoli alle cure di Francesco Manfredi, con cui il M. aveva condiviso le difficoltà, i successi e i molti insuccessi di quel violento periodo storico.
Della sua produzione di rimatore sono giunti due sonetti, uno in vernacolo romagnolo, a dire di Torraca, Zaccagnini e Beggiato, l'altro scritto in tenzone con il poeta Onesto da Bologna, nel quale Beggiato ravvisa un allontanamento del M. dalla parlata materna, giustificando in tale maniera il giudizio che della sua attività poetica fornisce Dante nel De vulgari eloquentia. Le capacità di retore politico e di oratore cortese di cui il M. dovette servirsi durante i suoi incarichi diplomatici e durante l'esercizio della professione podestarile sono testimoniate indirettamente dal titolo di un poemetto didascalico, il De salutandi modis, oggi perduto, che secondo quanto affermato da Francesco da Barberino, fu redatto "ydeomate faventinorum rimis ornatissimis atque subtilibus" (Documenti d'Amore). Francesco da Barberino riconosce al M. l'uso cortese della lingua facendone il protagonista di un aneddoto narrato nei Reggimento e costumi di donna: "Eravi un valoroso uomo ch'ebe nome Ugolino Bozuola, che disse allora questa bella parola: "Chi vuol parlando trarre, / folle pensiero l'accoglie"". È difficile stabilire se l'inserzione di Francesco da Barberino fosse dovuta alla conoscenza diretta del M., o piuttosto dipenda da suggestione dantesca. Infatti il M. compare nel De vulgari eloquentia in un luogo del testo in cui si discute della diversità linguistica ravvisabile in quegli abitanti che vivono in città prossime se non anche in quelli, come i Bolognesi, residenti nella medesima città, seppure in due quartieri distinti. Dante tende a semplificare i propri ragionamenti attraverso alcuni dati che convocano in causa per l'Italia tirrenica Napoli e Gaeta e per l'Italia adriatica Ravenna e Faenza. A tale proposito viene nominato il M., che si sarebbe discostato dall'impiegare, nelle sue rime, il volgare eloquio locale, insieme con il conterraneo Tommaso, anch'egli poeta (De vulgari eloquentia, I, xiv, 3): "Horum aliquos a proprio poetando divertisse audivimus, Thomam videlicet Ugolinum Bucciolam, Faventinos". Bisogna rilevare come l'esordio di uno dei due sonetti del M. presenti almeno uno di quei fenomeni linguistici caratteristici, secondo l'analisi di Dante, del volgare romagnolo: "hii deuscì affirmando locuntur, et oclo meo et corada mea proferunt blandientes". Inoltre, il giudice Tommaso da Faenza era presente a Bologna nel 1278, dove compare in qualità di testimone in un atto riguardante il padre del Manfredi.
Il sonetto del M. Mirai lo specchio ch'averar nutrica rappresenta la risposta per le rime all'altro, Po' no me punçe iò d'amor l'ortica, inviatogli da Onesto da Bologna. Il sonetto godette di una minima fortuna nei primi decenni del Trecento, dal momento che è stato tramandato nell'importante manoscritto fiorentino Chigi L.VIII.305, c. 92v della Biblioteca apost. vaticana, preceduto dalla rubrica "Ugolino". Tale testimone costituisce l'attestazione più antica del testo, il quale è relato anche dal manoscritto d.V.5, c. 123v della Biblioteca Casanatense di Roma, e dal Vat. lat. 3214 (Biblioteca apost. Vaticana). Il componimento in questa forma fu pubblicato nel 1895 da Pelaez. Nel 1893 Torraca, per l'edizione del sonetto, si affidò al manoscritto Chigiano corretto in più luoghi grazie al codice della Casanatense. Il sonetto è stato stampato nel 1935 da Zaccagnini e nel 1974 da Orlando.
L'edizione del secondo sonetto Ocli del fronte ond'io me 'nde renego è risultata alquanto difficoltosa per lo stato in cui si trova trascritto il testo, trasmesso con l'incipit Ochi del conte ond eo mender nego nei manoscritti, della Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat. 4000, c. 368v, sotto la rubrica "Ugolino Buzola", e Vat. lat. 3214, c. 169v, sotto la rubrica "Ugolino Buzuola" (di quest'ultimo esemplare Pelaez nel 1895 approntò una trascrizione diplomatica). Il sonetto è stato pubblicato, in forma sensibilmente diversa, anche da Zambrini nel 1846 e da Torraca nel 1893. Secondo Torraca, le cui conclusioni furono riprese da Zaccagnini nel 1935, il testimone, tramandato dal Vat. lat. 3214, presenta forme comuni all'italiano settentrionale, in grado di restituire la patina locale genuina del testo. Uno dei relatori del testo, il citato Barb. lat. 4000, tramanda anche un frammento poetico ancora inedito, Non intendete pasqua di mangiare, costituito da 12 versi, che una rubrica posta a c. 354r attribuisce a "Ugolino Buzuola". Lo stesso codice trasmette un altro testo lacunoso, costituito da sei versi, L'antica lupa che mai non rimase, che la rubrica della c. 14r attribuisce a certo "Messer Ugolino". Di questo testo frammentario esiste un testimone completo, L'anticha lupa che may non rimase, relato dal Barb. lat. 4036, che la rubrica attribuisce a tale "D. Ugolinus". Il sonetto è stato pubblicato da Marti, che lo ascrive al rimatore Ugolino da Fano.
Fonti e Bibl.: P. Cantinelli, Chronicon, a cura di F. Torraca, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XXVIII, 2, ad ind.; Francesco da Barberino, I documenti d'Amore, Milano 1982, doc. XIII, pp. 1172-1174; Id., Reggimento e costumi di donna, a cura di G.E. Sansone, Roma 1995, pp. 9 s.; F. Zambrini, Rime antiche edite ed inedite d'autori faentini, Imola 1846, pp. 69 s.; Id., Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, Bologna 1878, pp. 207-209; F. Torraca, Fatti e scritti di U. Buzzola. Nozze Cassin-D'Ancona, Roma 1893; M. Pelaez, Rime antiche italiane del codice Vaticano 3214, Bologna 1895, ad ind.; G. Zaccagnini, U. Buzzola de' M., in Id., Per la storia letteraria del Duecento, Milano [1913], pp. 76-78; Id., Personaggi danteschi di Bologna, in Giorn. stor. italiano della letteratura italiana, LXIV (1914), pp. 14-19; G. Bertoni, Il testamento di frate Alberigo Manfredi e U. Bucciola, in Archivum Romanicum, V (1921), pp. 70-74; Id., Nuove notizie su U. Bucciola, in Studi danteschi, IV (1921), pp. 126-128; G. Zaccagnini, Due rimatori faentini del sec. XIII, in Archivum Romanicum, XIX (1935), pp. 88 s.; G. Fasoli, Guelfi e ghibellini in Romagna, in Arch. stor. italiano, 1936, vol. 1, p. 173; P. Zama, La morte di frate Alberigo nella Commedia e nella cronaca. Nota sul canto XXXIII dell'Inferno, Faenza 1937, passim; G. Rossini, Il testamento di frate Alberigo Manfredi, in Studi romagnoli, III (1952), pp. 519-528; Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di M. Marti, Milano 1956, p. 686; L. Biagioni, Frate Alberigo dei Manfredi aus Faenza in der Romagna, in Deutsches Dante-Jahrbuch, XXV-XXVI (1957), pp. 102-135; A. Vasina, Rapporti tra Bologna e Faenza nei secoli XII e XIII, in Studi romagnoli, IX (1958), pp. 225-251; F. Lanzoni, Storia ecclesiastica e agiografia faentina dal XI al XV secolo, a cura di G. Lucchesi, Città del Vaticano 1969, ad ind.; Le rime di Onesto da Bologna, a cura di S. Orlando, Firenze 1974, p. 69; F. Beggiato, Ugolino Bucciola, in Enc. dantesca, V, p. 795.