LERCARI, Ugo
Figlio di Belmusto, più volte rettore del Comune di Genova, e di una Alda di casato ignoto, si suppone sia nato nella seconda metà del XII secolo.
Le prime notizie certe al suo riguardo risalgono infatti al 1190, quando, con il fratello Belmusto "iuniore", compare come teste nel diploma con cui il marchese Corrado di Monferrato, signore di Tiro, Sidone e Beirut, concedeva ai Genovesi libertà di commercio e propria giurisdizione in Tiro.
In questa città, come in altre dei domini "franchi" di Terrasanta, egli svolse il proprio tirocinio mercantile, tipico della formazione dei nobili genovesi del tempo. Anzi, dalle poche testimonianze rimaste si può supporre che, a differenza di altri suoi consorti, egli abbia fatto della mercatura il suo interesse principale, trascorrendo negli stabilimenti mercantili genovesi nel Levante gran parte della sua giovinezza e della prima età matura. Qui egli sviluppò notevoli competenze marinare e belliche, necessarie in un'attività in cui ogni mercante era anche uomo d'arme e, all'occorrenza, corsaro. L'occasione di mostrare le sue capacità militari si ebbe nel 1235, quando il Comune di Genova dovette organizzare una spedizione contro Ceuta.
L'anno precedente la città era stata sottratta da un usurpatore, Al-Yanasti, all'emiro del Marocco le cui truppe, nel tentativo di recuperarne il controllo, avevano sequestrato alcune navi genovesi, peraltro subito restituite. Il Comune colse l'occasione per cercare di consolidare le proprie posizioni sulla costa settentrionale africana; così, per punire i Marocchini, accettò la richiesta di aiuto di Al-Yanasti, il quale si era dichiarato disposto a pagare metà delle spese occorrenti. I Genovesi, in più riprese, inviarono parecchie naves e galee sotto il comando di vari capitani, ma questo intervento si rivelò del tutto inutile perché, prima del loro arrivo, le milizie dell'emiro batterono in ritirata. Peraltro i rapporti con il signore di Ceuta si deteriorano ben presto sia per il suo rifiuto di pagare l'intera cifra concordata sia per i disordini che scoppiarono tra la popolazione e i marinai liguri. Temendo di essere deposto dai Genovesi, Al-Yanasti chiamò in suo aiuto le tribù berbere dell'entroterra, le quali, penetrate in città, misero a sacco il fondaco genovese, uccidendo molti occidentali. Per vendicarsi dell'affronto subito il Comune organizzò una grande spedizione, istituendo un prestito forzoso sul commercio del sale, sequestrando ogni genere di naviglio a disposizione e chiamando a raccolta i contingenti di leva delle Comunità rivierasche.
Il comando di questa flotta, la più numerosa mai radunata prima dal Comune di Genova, fu dato al L. che nella primavera 1235 la condusse davanti a Ceuta. Sull'esempio di quanto fatto ad Acri dai Pisani nel 1191, egli fece costruire su alcune navi, legate insieme a due a due, grandi castelli di legno, sopra i quali ordinò di issare macchine da lancio per bersagliare le mura della città. Ceuta resistette all'assedio alcuni mesi, ma alla fine Al-Yanasti dovette scendere a patti, cedendo in pegno ai Genovesi l'appalto delle dogane affinché potessero indennizzarsi dei danni subiti dai Berberi. Il L., vincitore, fece ritorno a Genova il 13 dic. 1235 e da allora fu uno dei più importanti e influenti protagonisti della vita pubblica cittadina.
Ben lo si vide tre anni dopo quando, sotto la minaccia di Federico II di Svevia, Genova accettò la mediazione di papa Gregorio IX per comporre le annose controversie con Venezia. Per concludere l'accordo con la tradizionale rivale, i Genovesi inviarono a Roma, dove doveva essere firmata la pace, due ambasciatori, Iacopo Malocello e Sucio Pevere, ben presto sostituito dal Lercari. Essi giunsero nell'Urbe nell'estate 1239 ma, dopo avere inutilmente atteso l'arrivo degli emissari veneziani, nel settembre fecero ritorno a Genova. Il trattato fu comunque ugualmente firmato e venne proclamata tra i due Comuni rivali una lega decennale, chiaramente indirizzata contro l'imperatore. L'opposizione a Federico II provocò all'interno del ceto dirigente genovese una forte spaccatura tra i fautori del papa ("rampini" o guelfi) e quelli dell'imperatore ("mascherati", cioè ghibellini); molti di questi ultimi furono estromessi dalle cariche pubbliche e banditi, e alcuni (come gli Spinola o i De Mari) andarono a mettersi al servizio imperiale, raggiungendo importanti incarichi di comando, mentre a Genova il potere fu assunto da un gruppo di grandi famiglie guelfe che vedeva, in prima fila, i Grimaldi, i Fieschi, i Lomellini, i Malocello e, appunto, i Lercari.
Non a caso proprio al L. - e all'ammiraglio Iacopo da Levanto, suo futuro compagno nella settima crociata - il podestà Filippo Visdomini affidò nel 1244 il compito di condurre in salvo papa Innocenzo IV (il genovese Sinibaldo Fieschi). Il pontefice, temendo di cadere in mano agli uomini dell'imperatore, aveva da tempo lasciato Roma per Viterbo e, da qui, aveva chiesto soccorso ai propri compatrioti, proponendosi di raggiungere la Francia, per mettersi sotto la protezione del pio Luigi IX. L'impresa, organizzata nel più stretto segreto, fu un pieno successo. Il 22 giugno la flotta genovese, condotta dallo stesso podestà e forte di 22 galee, uscì dal porto di Genova e si diresse apparentemente verso la Provenza, ma giunta al largo di Albenga piegò verso Sud, inoltrandosi in alto mare, mentre il comando era assunto dal L. e da Iacopo da Levanto. Toccato Capo Corso, le navi genovesi raggiunsero Corneto (l'odierna Tarquinia) e quindi Civitavecchia, da dove furono inviati messaggeri al pontefice, nel frattempo trasferitosi a Sutri. Nottetempo e senza molte cerimonie Innocenzo IV si imbarcò con sei cardinali e altri prelati e dopo una tranquilla navigazione giunse a Genova, da dove poté trasferirsi a Lione, città formalmente imperiale, ma in pratica indipendente e vicinissima al confine francese.
Difficile pensare che il L. abbia accompagnato il pontefice nel suo viaggio in Francia, ma certo questa fortunata impresa lo rese famoso presso Luigi IX che, forse grazie alle referenze offertegli dal papa, pensò proprio ai due capitani protagonisti dell'avventuroso viaggio dalle coste romane a Genova per affidare loro, materialmente, l'organizzazione della flotta che avrebbe dovuto trasportare in Terrasanta la nuova crociata da lui proclamata in ringraziamento per la guarigione da una grave malattia. Fino ad allora, le spedizioni francesi in forma di crociata (quali quelle di Luigi VII e di Filippo II Augusto) non erano state accompagnate da una vera e propria politica della Francia nel Mediterraneo. Il Regno, del resto, sebbene estendesse da sempre i suoi confini al tratto di costa tra i Pirenei e il Rodano, solo dopo la crociata contro gli albigesi era riuscito a imporre il proprio diretto dominio sulla Linguadoca, acquistata neppure quindici anni prima. La Francia però, nel Mediterraneo, non possedeva ancora alcuna struttura navale degna di questo nome, nonostante lo stesso Luigi IX avesse identificato nel porto di Aigues-Mortes la futura base marittima del Regno e il luogo di dove sarebbe ufficialmente partita la crociata. Per radunare una flotta adeguata a trasportare nel Levante l'esercito "franco" il sovrano ricorse, come già i suoi predecessori, ai tradizionali fornitori genovesi, veneziani e, in misura minore, marsigliesi e provenzali. Gli appelli del re trovarono scarso seguito a Venezia, timorosa di mettere in pericolo i buoni rapporti esistenti col sultano d'Egitto, mentre incontrarono l'entusiastica adesione dei Genovesi, pronti a cogliere una buona occasione di guadagno.
Nell'agosto 1246 giunse a Genova, ricevuta con tutti gli onori, una delegazione francese che prese contatto, per il tramite del Comune, con i principali armatori cittadini e, in primo luogo, con il L. (in quell'anno uno degli otto "nobili" del Consiglio del podestà) e Iacopo da Levanto i quali, nell'ottobre 1247, assunsero la direzione organizzativa dell'impresa, con il titolo di ammiragli regi.
L'allestimento della flotta, iniziato già sul finire di quell'anno, procedette con maggiore intensità nei primi mesi del 1248. I due, operando in perfetta sintonia, fecero costruire galee, acquistarono armi e munizioni, assoldarono marinai e balestrieri e soprattutto stipularono contratti di nolo con numerosi armatori, quasi tutti esponenti delle famiglie più in vista della nobiltà genovese (Doria, Usodimare, Vento, Gattilusio), partecipando essi stessi con alcune navi di cui erano comproprietari. A tal fine, per meglio sfruttare le opportunità di arricchirsi da questo gigantesco affare, il L. e Iacopo da Levanto costituirono tra loro, alla vigilia della partenza per Aigues-Mortes (15 giugno 1248), una società per dividersi a metà i proventi derivanti dal servizio regio. In questo modo, per l'agosto di quell'anno, dopo vari rinvii, essi riuscirono a radunare 16 delle 38 grandi navi che costituivano la flotta regia, oltre a 32 galee e ad alcune decine di imbarcazioni minori. Il 25 agosto, come stabilito, il re si imbarcò ad Aigues-Mortes con il suo numeroso seguito, ma la posizione dei Genovesi cominciò, fin dall'inizio, a divenire secondaria perché, non si sa per quale ragione, quasi tutti i balestrieri assoldati vennero lasciati a terra, dove crearono non pochi disordini. Anche il L. e Iacopo da Levanto, del resto, vennero di fatto esautorati di ogni comando una volta che la flotta ebbe raggiunto Cipro, prima tappa della spedizione. Qui, dopo una lunga sosta, venne deciso di dirigere la crociata anziché su Gerusalemme, verso l'Egitto, in modo da colpire al cuore l'impero degli Ayyubiti.
Il ruolo del L. (e di Iacopo da Levanto) in questa fase della spedizione fu del tutto secondario, perché il re prese le sue decisioni esclusivamente con il consiglio dei principi e dei grandi baroni francesi che lo avevano accompagnato. È pertanto assai probabile che nessuno dei due ammiragli abbia preso parte né alla conquista di Damietta né alla sconfitta di Mansura e alla successiva ritirata durante la quale il re venne fatto prigioniero (aprile 1250).
A differenza di Iacopo da Levanto rientrato a Genova, il L. rimase in Oriente e insieme con altri mercanti e finanzieri genovesi partecipò alla raccolta dell'enorme riscatto richiesto dagli Egiziani per la liberazione del re e degli altri prigionieri.
Il L. morì ad Acri prima dell'ottobre del 1250.
Nell'ottobre successivo il figlio Belmustino, da Genova, incaricò il fratello Giovanni di recarsi in Francia per riscuotere la rendita ("feudo") di 50 lire tornesi concessa al L. dal re, mentre nel marzo 1251 lo stesso Belmustino richiese agli zii paterni, Guglielmo e Giacomo, di recuperare una grossa somma di denaro e gli effetti personali del padre, depositati in casa di Lanfranco Cebà, ad Acri.
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