Foscolo, Ugo
Ugo Foscolo nacque a Zante nel 1778, da madre greca e padre veneziano. Si trasferì nel 1793 a Venezia. Dal 1797 al 1815 fu ufficiale del contingente italiano dell’esercito napoleonico e si dedicò prevalentemente all’attività letteraria, anche ricoprendo per pochi mesi la cattedra di Eloquenza all’Università di Pavia. Alla caduta di Napoleone lasciò per sempre l’Italia, stabilendosi dapprima in Svizzera e poi a Londra (1816), dove visse in gravi ristrettezze economiche e morì nel 1827.
Il suo nome è legato ad opere poetiche (Poesie, 1803; Dei Sepolcri, 1807; Le Grazie, incompiuto), a tragedie in versi (Tieste, 1796; Ajace, 1811; Ricciarda, 1813), al romanzo epistolare Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802, 1816 e 1817), a traduzioni di classici in poesia (Esperimento di traduzione del primo canto della Iliade di Omero, 1807) e di autori moderni in prosa (Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia di Laurence Sterne, del 1813) e a varie opere di saggistica, sia in lingua italiana sia in lingua inglese.
Il percorso linguistico foscoliano risulta del tutto eccezionale. Quando nel 1793 giunse a Venezia, utilizzava sicuramente il neogreco sia nel parlare sia nello scrivere. L’italiano era la lingua da conquistare, anche come segno di appartenenza alla comunità di cui era entrato a far parte. In pochi anni, anche grazie all’artificiosità della lingua poetica italiana, fu in grado di scrivere versi corretti. Rimasero però a lungo segnali d’incertezza, sia nell’applicazione delle regole grammaticali (in particolare nell’ortografia), sia nell’uso di espressioni in lingua greca nelle lettere.
L’esercizio poetico giovanile è caratterizzato dall’eterogeneità degli esperimenti, con il passaggio dalla lirica polimetrica di stampo tardo arcadico alla tragedia in endecasillabi di matrice alfieriana (Tieste). Il superamento dello sperimentalismo è costituito dalla drastica riduzione delle forme metriche (solo odi, sonetti ed endecasillabi sciolti) e dalla selezione di un numero ridotto di liriche (due odi e dodici sonetti) delle Poesie (1803). I ‘numi tutelari’ dal punto di vista stilistico e linguistico sono Giuseppe Parini e ➔ Vittorio Alfieri, attraverso cui Foscolo filtra ➔ Francesco Petrarca e la lirica del Cinquecento (Martinelli, in Foscolo 1987). Nei Sepolcri la lingua poetica fonde la lezione dell’Ossian di ➔ Melchiorre Cesarotti e di ➔ Vincenzo Monti (Il Bardo della Selva Nera) con quella desunta dalla lingua greca antica, da lui affrontata, contemporaneamente alla stesura del carme, nella traduzione del primo canto dell’Iliade. Nelle Grazie la riproposta dell’antico è condotta attraverso sequenze frammentarie che enucleano i temi fondanti della riflessione estetica.
Foscolo era consapevole delle difficoltà linguistiche che si presentavano a chi volesse scrivere in prosa. Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis la forma epistolare gli permette di ricorrere a un tono colloquiale che lo affranca dai modelli tradizionali (Telve 2003), pur nella sostenutezza complessiva del dettato (Serianni 1989). Nondimeno, la centralità dei riferimenti alla Sacra Scrittura è la chiave con cui Foscolo perviene a un’eloquenza dotata di un ‘calore’ primitivo ma universalmente riproponibile (Terzoli 1988; 1998).
La ricerca di una lingua adatta alla prosa fu realizzata da Foscolo anche attraverso l’attività di traduttore del Sentimental journey through France and Italy di Laurence Sterne (1768). La complessità del dettato sterniano, caratterizzato da una sintassi ‘labirintica’ e da giochi di parole e di citazioni che arrivano fino al pastiche, è per Foscolo un banco di prova delle possibilità linguistiche della prosa italiana (Lavezzi, in Foscolo, 1994-1995). Egli persegue il risultato attraverso l’esame e lo studio di testi toscani del XIV-XV secolo e l’attenta lettura e postillatura del Vocabolario della Crusca.
Il testo foscoliano più problematico dal punto di vista editoriale è senza dubbio Le Grazie. L’elaborazione del carme iniziò durante il soggiorno fiorentino nella primavera del 1813 e proseguì più intensamente a Milano tra il 1813 e il 1814. Il testo si presenta frammentario e incompiuto e la sua tradizione è quasi esclusivamente affidata a testimonianze manoscritte, prevalentemente autografe. L’unica edizione pubblicata dall’autore è quella di alcuni frammenti all’interno della Dissertation on an ancient Hymn of the Graces, edita a Londra nel 1822.
Complessa risulta invece la vicenda editoriale delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, di cui l’autore fornì tre edizioni approvate, nel 1802, nel 1816 e nel 1817. All’alter ego Didimo Chierico, cui Foscolo attribuisce la traduzione del Viaggio sentimentale di Sterne, è anche riferita la paternità dell’unica opera foscoliana in lingua latina: Didymi Clerici prophetae minimi Hypercalypseos liber singularis, scritta presumibilmente nel 1810 ed edita a Zurigo nel 1816 con falsa indicazione «Pisa 1815».
La prosa latina si modella su quella dei testi scritturali, da cui trae il tono profetico e sentenzioso. Durante il soggiorno in Inghilterra Foscolo non perfezionò mai la conoscenza dell’inglese (Dionisotti 1988: 74). Le sue opere di saggistica infatti furono redatte in francese; volte in inglese da un traduttore, furono pubblicate, talora a puntate e con tagli arbitrari, in prestigiosi periodici. A causa di tale procedimento l’autore non solo dovette snaturare lo stile della propria prosa, ma incorse anche in fraintendimenti e in manomissioni indebite.
L’alto livello di cristallizzazione della lingua poetica italiana determina la presenza nella poesia foscoliana di forme consolidate dalla tradizione. Si vedano, per quanto riguarda il verbo, l’uso della coniugazione del futuro di essere in fia, fìeno, del passato remoto in -uro, -aro, del condizionale sarien; l’imperfetto di fare fea, il passato remoto apocopato die’, fe’, e la terza plurale fer «fecero». Pressoché esclusivo è l’uso dell’indicativo imperfetto senza la labiodentale v (che in prosa viene limitato ai verbi avere, dire, fare): empiea, traluceano, traeano, apparia, salia, tenea, avvolgea, ecc. (con rare eccezioni, per lo più determinate dalla metrica: volgeva, fuggiva, nutriva, apprendeva, sedeva). Altre forme verbali tipicamente poetiche sono chieggio e ponno.
Un segnale innovativo è dato invece dall’uso del dittongo uo atono nei verbi suonare, risuonare. Evidente traccia di una poesia classicheggiante e raffinata è la propensione per forme rare come simolacro, poledro, sanguinente, giunghiglie (Telve 2003), cavriol antiquo, arciero, soprattutto nelle Grazie. Anche l’uso transitivo di verbi intransitivi è finalizzato a conferire al dettato poetico un tono elevato: si veda per es., veleggiò quel mar dei Sepolcri, o Fioritelo di gigli delle Grazie (Telve 2003), o imperioso / mi parlò una minaccia dell’Iliade. Notevole è l’interferenza di forme dell’italiano settentrionale nell’incertezza ortografica relativa all’uso delle doppie (➔ doppie, lettere) e delle scempie: scelleragine, innaccessa, innafia, lauretto, Apele, drapelli, Imeto, difusa (cfr. Longoni, in Foscolo 1994-1995: 582-583 e Telve 2003: 26).
La sintassi della poesia foscoliana è caratterizzata da forti inversioni, attraverso le quali il poeta tende a riprodurre il linguaggio solenne ed espressivo della poesia antica, con frequente ricorso all’➔iperbato («Mille di fiori al ciel mandino incensi», Dei Sepolcri, v. 172; «Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse / del mortale pensiero animatrici», Dei Sepolcri, vv. 228-229) e all’epifrasi («questa / bella d’erbe famiglia e d’animali», Dei Sepolcri, vv. 4-5; «inquiete / tenebre e lunghe», Alla sera, vv. 5-6; «e l’amoroso / apprendeva lamento a’ giovinetti», Dei Sepolcri, vv. 261-262). Altra caratteristica è il sapiente uso dell’enjambement, spesso implicato in una costruzione sintattica che tende a travalicare vistosamente la misura metrica.
Per i Sepolcri si aggiunga come le sequenze concettuali siano supportate e scandite dall’alternanza di ipotassi e paratassi (cfr. per es., vv. 3-15 e 16-22).
Per quanto riguarda grafia e grammatica, le scelte operate da Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis rispondono alla necessità di mettere a punto una prosa più moderna e vicina alla lingua colloquiale. Si assiste pertanto al rovesciamento degli usi del verbo già elencati nella lingua poetica, su cui prevalgono le forme moderne: sarà in luogo di fia, ecc.; indicativo imperfetto con -v-, a eccezione delle forme dei verbi dire, fare, avere (dicea, facea, ecc.), che conservano però la prima persona in -eva, secondo un uso non ancora mutato.
Anche a livello grafico, tra due forme concorrenti la scelta cade su quella più moderna (per es., dicembre, sacrificare, gruppo -ng- e non -gn-: cfr. Telve 2003: 27). Si rilevano anche in prosa le incertezze nell’uso di doppie e scempie già riscontrate in poesia (per es. avvanzata), talora complicate dall’uso di forme arcaiche (innondavano, innoltratomi). Le caratteristiche di modernità si accentuano nella traduzione del Viaggio sentimentale, dove compare la forma siano invece di sieno ed è più diffusa la presenza dell’imperfetto in -eva-. Il ricorso a forme arcaiche è finalizzato a intenti espressivi, e anche ironici, come nel travestimento trecentesco (ma mediato anche dagli autori comici cinque-secenteschi) della traduzione del capitolo LVIII.
Nella sintassi del periodo dell’Ortis prevale la ➔ paratassi, lontana dalla tradizione boccacciana (ad es. «La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla; e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto»: Ultime lettere di Jacopo Ortis, in Foscolo 1994:1995: 14; «Non sono felice! mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il cuore. Io camminava al suo fianco in un profondo silenzio», ivi: 20). Nella sintassi della proposizione, l’ordine degli elementi è per lo più regolare e privo di inversioni delle parti del discorso: a differenza di quanto avviene generalmente nella prosa settecentesca, non si trova il verbo posizionato in fine di frase; è rispettato l’ordine nome + complemento di specificazione e non il contrario (un mucchio di ruine; la morte di un suo cugino; l’orme de’ suoi piedi; piena di dolore); il participio segue l’ausiliare (è consumato; è perduto; ho lasciato; sono condannato; ho veduto). Solo l’aggettivo di relazione e il participio presente si possono trovare prima del nome al fine di accentuare l’enfasi del dettato (divini occhi; umane frenesie; donnesca galanteria; notturni pugnali; terrestre pellegrinaggio; immense acque; amarissime lacrime; antiche tirannidi e nuova licenza; ridente Aurora; spalancate Alpi; ondeggianti vesti; risplendente fantasma; cfr. Telve 2003: 32 e in generale Patota 1987).
Come ha notato Vitale (1988: 418), «per il Foscolo […] lo stile [era] la manifestazione della sostanza stessa dello scrittore, nella sua umana e intellettuale storicità, di cui la […] lingua era intimamente improntata». La lingua era il dato storico di riferimento; lo stile una conquista con cui lo scrittore esprimeva sé stesso e il suo tempo. Così, nei Sepolcri la forma del carme come ‘epistola’ e l’argomento trattato, di urgente attualità, conferiscono al dettato, difficile e oscuro, un «tono colloquiale» (Gavazzeni, in Foscolo 1974) che lo riscatta da qualsiasi gusto antiquario. Osserva Foscolo introducendo le sue note al carme: «Ho desunto questo modo di poesia da’ Greci i quali dalle antiche tradizioni traevano sentenze morali e politiche presentandole non al sillogismo de’ lettori, ma alla fantasia e al cuore» (Foscolo 1994-1995: 31). E così spiega nell’Intendimento del traduttore premesso all’Esperimento di traduzione della Iliade:
L’armonia, il moto, ed il colorito delle parole fanno risultare […] lo stile: […] io inerendo sempre al significato mi studio di dar vita alle mie parole con le idee accessorie e con l’armonia che mi verranno trasfuse nella mente dall’originale (Foscolo 1994-1995: 57-58).
In poesia Foscolo riproduce quei contrappunti tra passato e presente, tra antico e moderno, che attraverso il ‘chiaroscuro’ realizzino l’armonia. Ciò avviene nei sonetti, con evidenti alternanze di luce-ombra scandite tra quartine e terzine; e nei Sepolcri, attraverso sequenze e ‘transizioni’ che dipanano immagini cupe alternate a immagini solari. Il modello viene riproposto con totale consapevolezza nelle Grazie, ove la passione civile delle prove precedenti lascia il posto alla celebrazione dell’arte come valore universale, tanto più enfatizzata dalla condizione frammentaria, e quindi inevitabilmente sfuggente e sfumata, del testo. Per quanto concerne la prosa, Foscolo percepiva con assoluta chiarezza le difficoltà di trovare un modello linguistico e stilistico adeguato alla materia e all’argomento.
Le edizioni dell’Ortis e il processo correttorio che le riguarda testimoniano la ricerca di una prosa vigorosa e sentimentale, fatta di scatti e di riflessioni, di lirismo e di colloquialità: di contrasti, insomma, ancora una volta, di ‘chiaroscuro’. Il risultato rappresenta un vero e proprio punto di svolta nella prosa italiana e un modello imprescindibile del romanzo moderno.
Dal punto di vista lessicale la classificazione della lingua poetica foscoliana appare complessa e stratificata, presentando soluzioni fortemente tradizionali e auliche accanto ad altre di marcata novità linguistica. Notevole è l’impiego di ➔ latinismi formali (immago, arbore amica), lessicali (molcea, inclito) e semantici (diverso, cure, partendo, volubili, commettere). Tale uso non è dovuto al passivo adeguamento a una tradizione consolidata, ma costituisce una particolarità distintiva e ostentata della lingua foscoliana (Broccia 1980: 169; Telve 2003: 34), alla quale l’autore affida il ruolo di realizzare un’attualizzazione della poesia antica a livello sia formale sia semantico.
Tipico della poesia neoclassica (Serianni 1998: 27-36) è invece il ricorso all’onomastica mitologica, storica e geografica, caratteristica della Grecia classica (Sacro Ida, Latona, inachio clivo, Aonie, Cintia, Parrasia pendice, Nereidi, Esperia, Ilisso). Cospicuo è l’uso di forme mediate dalla letteratura neoclassica (Monti), soprattutto nelle odi e nelle Grazie: sostantivi deverbali femminili (animatrici, abitatrici, guidatrice, agitatrice) e diminutivi (giovinetto, fioretto, verginelle, pelaghetto, pecorelle); aggettivi di tradizione recente o rara (suburbano, lustrali). Peculiare e di marca latineggiante è l’uso di participi, in particolare con in- privativo (illacrimata, inseminato, inestinto, incompianto, incorrisposto, inaugurate). Altro uso neoclassico è quello dei nomi e degli aggettivi composti, anche mediati dalla traduzione omerica (lungi-saettante, pieveloce, lungi-oprante, tuttoveggenti). Tratto caratteristico del dettato poetico è il ricorso a verbi deaggettivali (➔ denominali e deagettivali, verbi) (vagolare, insanire) e denominali (imporporare, ralluminare). Accanto a parole ricercate (aliare, alunno) si trovano significativamente termini assenti nella tradizione poetica almeno fino a Monti o a Cesarotti: clamoroso l’evirati dei Sepolcri, così come fecondare, operoso, reliquie, soffermare, corrispondenza, patibolo, delitti, ecc.
Il lessico dell’Ortis è per lo più elevato e letterario, ma non mancano esempi di forme più vicine alla lingua parlata, in coerenza con la finzione epistolare che sostiene la narrazione. Significativi sono pertanto termini come babbo, ragazzate, espressioni come le tiene la mannaja sul collo (Serianni 1989: 100). Prevalgono tuttavia i richiami letterari, con vere e proprie parafrasi di versi della tradizione. Per es. «la famiglia dei fiori e dell’erbe» non solo rinvia al Canzoniere del Petrarca (CCCX, 2: «e i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia»), ma è poi recuperato nei Sepolcri. La finalità è quella di mantenere sostenuto il tono e di connotare in modo fortemente evocativo i passaggi più densi di valenze emotive.
Anche il lessico biblico è diffusamente presente nell’Ortis: quell’altare è profanato; maledirà i suoi giorni e i suoi genitori; conturberà con le sue querele le tue ossa nel sepolcro; sarai offerita dal padre tuo come olocausto di riconciliazione sull’altare di Dio (Terzoli 1988). Non mancano tuttavia (Telve 2003) forme tipiche del lessico toscano (come aggrezzato, baloccone, rammarichio, tapinare) e ➔ francesismi, utilizzati in accezione ironica contro le affettazioni esterofile (travaglio «lavoro», savant, gemmare); neoformazioni sono invece i verbi affratellarsi, agguerrirsi, anatomizzare.
Nella traduzione del Viaggio sentimentale Foscolo ebbe cura di superare il «gergo anglo-tosco» della sua prima, perduta, traduzione attraverso lo spoglio sistematico di autori tre-quattrocenteschi e del Vocabolario della Crusca. La ricerca era tesa alla selezione di espressioni colloquiali e vivaci che conferissero originalità alla traduzione rispetto al modello linguistico inglese. Il risultato non lasciò del tutto soddisfatto il traduttore, che espresse il dubbio di «essere incorso nell’affettazione cruschevole».
L’obiettivo principale di Foscolo fu quello di fornire alla letteratura italiana un nuovo modello di prosa e a tale impresa si accinse nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis. L’impegno era quello in seguito dichiarato in una nota al Viaggio sentimentale: «La lingua Italiana è un bel metallo che bisogna ripulire dalla ruggine dell’Antichità, e depurare della falsa lega della moda; e poscia batterlo genuino in guisa che ognuno possa riceverlo e spenderlo con fiducia» (in Foscolo 1994-1995: 320).
Sul versante della poesia, fu ➔ Giacomo Leopardi a mettere a fuoco nello Zibaldone come il linguaggio poetico foscoliano fosse «molto più propriamente e più perfettamente poetico e distinto dal prosaico, che non è quello di verun altro de’ nostri poeti» (Leopardi, Zibaldone di pensieri, Milano, Garzanti, 1991, p. 1788). Dal canto suo, Foscolo affrontò ripetutamente il problema della lingua, arrivando nella prima delle Lezioni pavesi sulla letteratura a identificare la tripartizione del «valore della parola»: primitivo (etimologia), accessorio (uso letterario), meccanico (fonetica). Tutto ciò, in epoca di dibattito sul ➔ purismo, appariva originale e aperto a sollecitazioni antipedantesche. Foscolo avvertiva che l’unica koinè dell’italiano parlato era quella di un «linguaggio […] che potrebbe chiamarsi mercantile e itinerario» (Foscolo 1958: 153; Trifone 1998: 211) e che la difformità linguistica era un ostacolo allo sviluppo di una lingua letteraria contemporanea. Pervenire a una lingua realmente scritta e parlata era sentito da Foscolo come imperativo all’interno di un più generale riscatto nazionale:
la lingua italiana non è stata mai parlata: […] è lingua scritta, e non altro; e perciò letteraria, e non popolare; e che se mai verrà giorno che le condizioni d’Italia la facciano lingua scritta insieme e parlata, e letteraria e popolare ad un tempo, allora le liti e i pedanti andranno al diavolo (lettera a Gino Capponi del 26 settembre 1826, cit. in Vitale 1984: 387).
La fortuna di Foscolo nella letteratura successiva non poté andare disgiunta dai sentimenti di adesione e di avversione suscitati dalla sua esperienza, sempre polemica nei confronti dell’attualità politica e culturale.
Leopardi intuì la portata innovativa dell’opera foscoliana e la necessità di attraversarla, linguisticamente e concettualmente, per approdare a nuove soluzioni espressive. La lingua delle Canzoni leopardiane appare infatti profondamente debitrice della poesia foscoliana, in particolare dei Sepolcri e dei sonetti (e anche del repertorio di immagini dell’Ortis), pur nella distanza ideologica e concettuale. La stessa misura del sonetto, rifuggita da Leopardi, nel corso dell’Ottocento non poté prescindere dalle novità metrico-sintattiche introdotte da Foscolo (frequenza di enjambement, inversioni), per trovare un nuovo artefice in ➔ Giosuè Carducci.
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