Foscolo, Ugo
Il F. attese allo studio sistematico e all'interpretazione di D. negli anni della sua vita inglese (1816-1827); ma il nome di D. compare nelle sue opere di poesia e di critica fin dalla prima giovinezza, testimonianza di un culto che gli derivava dall'Alfieri e dal Vico, la cui lezione egli riviveva in un originale ripensamento. A prescindere da un'ode del 1795 (A Dante), che non va oltre un generico entusiasmo letterario e morale, fin dal 1803, nelle pagine Della ragion poetica di Callimaco (La Chioma di Berenice, discorso IV), troviamo formulati alcuni principi che resteranno fondamentali nella critica foscoliana, particolarmente in quella rivolta a D.: che la poesia " non possa stare senza religione " e che " i poeti primitivi, teologi e storici delle loro nazioni, vissero... in età ferocemente magnanime ". In questa luce vichiana il F. vedeva Omero e Shakespeare, accanto ai quali collocava D., che aveva cantato " i tumulti d'Italia sul tramontare della barbarie, valoroso guerriero, ardente cittadino ed esule venerando ". Ma la felicità dell'intuito rapporto religione-poesia veniva limitata dal preconcetto che solo la religione greca rappresenti una continua fonte d'ispirazione poetica, in quanto essa sola accoglie " tutte le passioni e le azioni, con tutti gli enti e gli aspetti del mondo abitato dall'uomo ", mentre una religione " involuta da misterii incomprensibili " rilutta alla poesia, sicché anche l'ingegno sovrano di D. " non sì tosto arriva allo spirituale... s'inviluppa in tenebre e in sofismi ". Più felice, in confronto, il Tasso, che scelse come argomento del suo poema una religione armata e dei fatti eroici, evitando le astrazioni metafisiche.
Accanto all'idea del poeta primitivo, che gli svelava D. in una dimensione sconosciuta alla critica settecentesca, vi era nel F. un'istintiva propensione per ciò che è magnanimo e grande, per le passioni veementi e tempestose, anche se accompagnate da stravaganze e da colpe. In una lettera a Giambattista Giovio del 10 maggio 1809, dopo avere confessato questa sua propensione e la correlativa avversione per le abitudini meschine, per la calma di chi nutre segretamente i suoi vizi, trasferisce dal piano morale a quello letterario il suo punto di vista: accomuna i nomi di D. e di Shakespeare, poeti ricchi di difetti e di errori ma tali da magnificare e innalzare l'animo dei lettori, e ad essi contrappone l'eleganza e il raziocinio del Bembo e del Trissino, che intorpidiscono la mente con " il gelo, il sonno e la noia ". Ma, prima di questa lettera, dovremo ricordare il passo dei Sepolcri: " E tu prima, Firenze, udivi il carme / che allegrò l'ira al ghibellin fuggiasco " (vv. 173-174), dove non tanto importa sottolineare l'opinione che la Commedia fosse iniziata da D. prima dell'esilio - opinione oggi universalmente negata ma un tempo accolta da molti studiosi e restata nella storia sotto l'emblema di questi due celebri versi -, quanto precisare il significato dell'appellativo ‛ ghibellino ', che non può qui restringersi al fatto che i fuorusciti bianchi avessero stretto lega con gli esuli ghibellini per ritornare in patria, ma che esprime certo spirito giacobino e democratico già in precedenza manifestato dal F., al quale D. era apparso l'avversario della " fraudolenta tirannia dei pontefici ", colui che aveva combattuto implacabilmente " la frode guelfa e la papale avarizia ". Più tardi, scrivendo alla contessa d'Albany (lettera del 15 giugno 1814), condannerà il cambiar partito, ritenendo meno disonesto il persistere in quelle opinioni che ci vengono date fin dalla fanciullezza da circostanze al di sopra della nostra libera e consapevole scelta: " Dante era guelfo, doveva egli per questo diventar ghibellino perché i guelfi lo avevano maltrattato? "; e all'obiezione che i guelfi istigavano la licenza popolare sotto il pretesto della libertà opponeva che non meno colpevoli dovevano dirsi i ghibellini, i quali chiamavano le armi tedesche sotto il pretesto della tranquillità d'Italia. Inoltre nei Sepolcri la poesia della Commedia è celebrata come espressione di un fiero risentimento, essa stessa vendetta dell'esule; tale caratteristica sembra acquistare più netto rilievo dal contrasto con l'immagine del Petrarca; " quel dolce di Calliope labbro ", che spiritualizza nella sua poesia l'amore.
Appena un cenno, e non di rilievo, è dedicato a D. nella prolusione pavese del 1809; né aggiungono qualcosa di nuovo i versi decorativi del secondo inno delle Grazie (composti probabilmente nel 1813), in cui D. è raffigurato nella stereotipa immagine del pellegrino d'oltremondo, che, ritornato sulla terra, " spargea folgori e lieti / raggi, e speme e terrore e pentimento / ne' mortali; e verissime sciagure / all'Italia cantava ". Coloro che in queste parole hanno voluto scorgere già annunziato il nucleo dell'interpretazione che della Commedia il F. avrebbe dato un decennio più tardi, ne hanno in realtà dilatato il senso proprio alla luce di quella interpretazione.
Certo, prima che argomento di studio e di riflessione critica, D. fu consolazione e modello morale al F. esule. Da Hottingen scriveva a Quirina Mocenni: " Spesso io ripensando a' guai di quel grand'uomo, e alla magnanimità con che li convertì a invigorirsi il cuore ed esercitare l'ingegno, io mi sollevai dall'abbattimento in cui le disgrazie mie volevano pure prostrarmi: è dunque bene che io imiti il suo sdegno generoso... " (lettera del 12 marzo 1816). Ma non perciò diremmo che l'interesse per D. sia nato nel F. da un moto sentimentale, basato sull'affinità dell'esperienza dell'esilio, dal momento che le radici di questo interesse sono in tutta la storia della sua cultura e della sua arte.
L'esordio del vasto lavoro critico è rappresentato dai due articoli pubblicati sull' " Edinburgh Review "nel febbraio e nel settembre 1818; furono stesi in francese e tradotti in inglese da J. Mackintosh e F. Jeffrey; per necessità editoriali furono qua e là tagliati, come risulta dal carteggio foscoliano e dal confronto con gli abbozzi autografi che si conservano. Secondo la moda del giornalismo letterario del tempo, prendono spunto da recenti pubblicazioni: il primo da un saggio del commento a cui lavorava G. Biagioli e dalla traduzione inglese del poema, opera di H.F. Cary; il secondo dal libro del Cancellieri sulla questione dell'originalità della Commedia. Il F. ebbe immediatamente consapevolezza della novità e dell'importanza di quanto veniva compiendo: " Je crois - confessava a Lord Holland nel marzo 1818 - d'avoir decouvert une terre inconnue jusque à present "; e ne indicava la ragione nel fatto che gli storici della letteratura italiani non avevano mai osato trattare il Medioevo, troppo strettamente legato alla Chiesa, e gli stranieri, quali il Ginguené e il Sismondi, si erano fondati su citazioni di seconda mano, non affrontando la lettura di opere medievali, difficili da intendersi senza una particolare preparazione linguistica. L'intuizione centrale è che D. vada spiegato alla luce della cultura, delle passioni, delle vicende dei suoi tempi; il punto di partenza è la constatazione che, per quanto l'esegesi secolare si sia travagliata intorno alla Commedia, essa resti in massima parte avvolta da tenebre impenetrabili: " Il poema di Dante è come un'immensa foresta, che desta venerazione per la sua antichità e stupore per la mole degli alberi, che sembrano avere raggiunto la loro gigantesca statura d'un tratto, per la forza della natura aiutata da un'arte misteriosa. È una foresta affascinante per la vastità, ma spaventosa per la sua oscurità e i suoi intrichi. I primi viandanti che tentarono di attraversarla hanno dovuto aprirsi una strada. I successivi l'hanno allargata e illuminata: ma la strada resta la stessa e la maggior parte di questa foresta è ancora, dopo le fatiche di cinque secoli, avvolta nella sua primitiva oscurità " (" Edinburgh Review ", febbr. 1818, p. 454).
Il primo articolo è quasi interamente dedicato alla storia delle edizioni e dei commenti del poema. Il secondo si apre con la polemica contro il Cancellieri, che aveva indicato nella visione di frate Alberico l'opera che avrebbe suggerito a D. l'idea della Commedia: gli scarsi punti in comune s'incontrano anche in altre visioni del tempo, sicché o tutte o nessuna devono ritenersi fonte di Dante. Il F. procede tracciando un quadro storico dell'Italia dai tempi di Gregorio VII a quelli di Dante. È un'età a mezzo fra la civiltà e la barbarie, lacerata da profonde passioni, mistica e violenta: la Commedia ne è la voce poetica. Questo punto dell'articolo sarà ripreso e ampliato più tardi nel Discorso. D'accordo poi con H. Hallam e in polemica con F. Schlegel, che aveva riconosciuto in D. il massimo poeta cristiano ma gli aveva rimproverato una certa ruvidezza d'animo, sostiene che in quel grande spirito, accanto alle passioni violente, albergavano sentimenti teneri e delicati. Il silenzio della Commedia intorno a persone della cerchia familiare del poeta - che a noi appare l'ossequio a un canone retorico - non è certo indice di aridità sentimentale, ma della situazione in cui si trovava l'esule e dei feroci costumi politici del tempo. A mostrare la finezza psicologica di D., è esaminato " con molte ingegnose osservazioni ", come ebbe a dire il Berchet, l'episodio di Paolo e Francesca. Alcune di queste osservazioni furono accolte poi dal De Sanctis, che si muoveva però in un diverso clima culturale e i personaggi della Commedia considerava come pure creature di fantasia, laddove il F. concepiva la poesia in relazione con la realtà storica, sicché la conoscenza - attraverso ogni documento esterno - di notizie riguardanti quei personaggi rendeva a suo avviso più penetrante la lettura della poesia e ne svelava riposte bellezze.
Nel 1823 apparve il saggio A parallel between D. and Petrarch, ritenuto da molti il capolavoro critico del Foscolo. Non si tratta di un confronto accademicamente volto a stabilire superiorità attraverso il gioco delle coincidenze e delle differenze, ma di una stringente caratterizzazione di due opposti mondi umani e artistici, di due ideali che affascinavano del pari la mente del poeta moderno.
La contrapposizione aveva già attirato il suo pensiero e la sua fantasia, fissandosi nelle due immagini balenate a Didimo Chierico (Notizia, X): il " gran lago circondato di burroni e di selve sotto un cielo oscurissimo, sul quale si poteva andare a vela in burrasca " e i " tanti canali tranquilli ed ombrosi, dove possano sollazzarsi le gondole degli innamorati co' loro strumenti ". Ora veniva ripresa in un incalzare rapido di note caratterizzanti, che dal mondo interiore trascorrevano alla tecnica, dal linguaggio risalivano agli effetti morali, e nei sentimenti, nelle immagini, nel verseggiare coglievano l'impronta di due temperamenti diversi e di due diverse stagioni della storia. Di fronte allo squisito disegnare con " pennello delicatissimo " dell'uno, si ergono le " ardite e prominenti figure " ad altorilievo dell'altro; l'uno più melodioso, l'altro più possente. Il Petrarca ci mostra ogni cosa filtrata da una sola predominante passione, " ci avviluppa in oziosa melanconia, nelle più molli e dolci visioni "; il suo fuoco " più che bruciare, risplendeva ". D. eccita " tutte le facoltà dell'anima "; egli " come tutti i poeti primitivi, è lo storico de' costumi del suo secolo, il profeta della sua patria e il pittore dell'uman genere "; il suo fuoco fu " più profondamente concentrato; più di una passione non ardeva in quello a un tempo ". Alla differenza di tempra morale, che si rivela fin nelle qualità negative dei caratteri, quello dell'uno portato alla vanità quello dell'altro all'orgoglio, si aggiunge la differenza dei tempi e degli ambienti: D. trasfonde nella poesia l'impeto di una generazione impegnata nell'ultima lotta contro la tirannide e scende nel sepolcro " come gli ultimi eroi del medio evo "; il Petrarca vive tra coloro che preparano l'ingloriosa servitù secolare dell'Italia. La simpatia e l'adesione del F. non s'indirizzano verso un complesso di scelte simboleggiate dall'uno o dall'altro poeta, com'era accaduto nella vicenda secolare della loro fortuna; egli accoglie le due esperienze diverse, non per eclettismo ma in una comprensione storica nuova, come voce sì di due tendenze della sua anima e della sua poesia ma anche come voce di personalità e di civiltà diverse, di un mondo primitivo l'una e di una società raffinata l'altra, che, esprimendosi in poesia, rinnovano sul finire del Medioevo l'antica antinomia fra la forza barbara di Omero e la letteraria eleganza di Virgilio.
Al linguaggio di D., nella sua peculiarità e nella sua fortuna, sono dedicate alcune pagine delle Epoche della lingua italiana, precisamente della terza, composta fra il 1824-25 ma pubblicata postuma. Il F. portava in questa analisi, con la sua estrema sensibilità per i fatti espressivi, mente non di grammatico ma di critico e di storico, che nella parola vede specchiarsi " le facoltà tutte quante dell'uomo ". La lingua poetica di D., " talvolta sublime, talvolta strana, e spesso ineguale ", non può essere imitata dagli scrittori " né osservata con frutto da' legislatori di lingua ", perché espressione di un singolarissimo sentire: le frasi e le parole sue non si sciolgono in un impasto diverso, possono adoperarsi solo ove si voglia che spicchino nella pagina nuova. Pertanto egli può riuscire maestro di stile, se del suo stile si colga " l'essenza segreta ", che non è nelle particolari locuzioni ma nel vigore, nella profondità, nella concentrazione: Alfieri e Monti ne hanno saputo far propria la lezione, ma il linguaggio lo hanno cavato dall'Ariosto e dal Machiavelli. Felici sono in queste pagine anche certi spunti polemici contro la presunzione e gli abbagli dei dantisti - qui ne fanno le spese John Taafe e Isacco d'Israeli -, e importante quanto vi è detto sulla Vita Nuova: lasciando cadere tutte le discussioni accese sin dall'inizio del Settecento sul significato allegorico del libro, il F. ne indica l'importanza nell'impulso e nel progresso che in un subito aveva dato " non solo alla poesia, ma, quel che è più difficile in tutte le lingue, alla prosa italiana ".
Nel Discorso sul testo del poema di D. (Londra 1825) non solo si assommano e approfondiscono le precedenti intuizioni critiche, ma anche compare un pensiero nuovo e originale: che la Commedia sia il bando di un rinnovamento religioso, di una rinascita cristiana del mondo. Profeta e apostolo di questa reviviscenza evangelica è il poeta stesso, che vi si consacra " con rito sacerdotale nell'altissimo de' Cieli ". Del cattolicesimo egli accetta i dogmi, i riti e anche la gerarchia, purché ristretta nei confini dello spirituale: non vuole, come gli eretici di ogni tempo, rompere con l'ortodossia; mira soltanto a proteggere la purezza della fede e dei costumi dallo scandalo del ‛ pastorale congiunto alla spada '. Per il F. il viaggio di D. nell'oltremondo non è una finzione poetica su cui si struttura il poema, ma una visione vera, come quelle di s. Paolo e dell'Apocalisse. E di s. Paolo D. ha lo spirito indomito, che nelle imprese antepone lo slancio della fantasia al calcolo della prudenza. Il suo scopo era di fondare una " nuova scuola di religione in Europa "; egli non ignorava che " se le vittorie de' Ghibellini l'avessero fatto profeta veridico, la sua tomba sarebbe stata santificata, e il testo del suo Poema troverebbe commentatori che l'avrebbero concordato con le Scritture; e avvertito assai cose che eludono gli studj nostri; e adorato nel teologo ciò che oggi pare ridicolo nel poeta ".
A questa posizione il F. era giunto non solo attraverso uno scavo minuto dell'opera di D., ma anche attraverso un ripensamento delle sue idee sotto lo stimolo di delusioni e speranze. Pur conservando il suo scetticismo di fondo, per cui le più alte idealità religiose gli appaiono sempre dei modi con cui l'uomo illude sé stesso, ormai può guardare al cristianesimo come a una delle grandi forze morali della storia e, ciò che più conta per il suo punto di vista su D., considerarlo non come il limite ma come la condizione di quella fantasia. A questa scoperta lo guidava il fallimento dei miti illuministici e il superamento della brillante irrisione volteriana nei confronti del cristianesimo, per cui l'appellativo di " gotico " dato a D. in senso di condanna e di limite veniva ora a designare semplicemente le caratteristiche storiche della sua spiritualità e della sua arte. Così il ghibellinismo di D., su cui ritorna a insistere (tanto che la sua interpretazione verrà sbrigativamente catalogata come capostipite della critica laicista e anti-neoguelfa), è altra cosa da quel che intendeva il giacobino di una volta: D. resta sempre ai suoi occhi l'acerrimo avversario di pontefici indegni, la Commedia sempre l'opera che turberà i sonni degli apologeti del Papato, ma, come ben colsero certi teologi della Chiesa di Roma, primo fra essi il Bellarmino, non si può parlare di posizione ereticale quasi preannunzio della riforma di Lutero. E proprio ad attenuare le punte di un aspro rigore morale, di una fede difficile, timorosi di fronte al fiero proclama di D., gl'interpreti aprirono la via all'interpretazione allegorica.
Nella predominante passione religiosa il F. vede la forza che unifica tutte le altre passioni di una personalità straordinaria e dei tempi che la esprimono. E siccome egli vichianamente pensa che l'originalità di un ingegno poetico risulti in gran parte dalla originalità dei suoi tempi, illustrare i tempi di D. significava in definitiva illustrare la sua poesia. Di qui il disegno - lucidamente concepito, ma a cui si opposero le sventure e la morte - di far precedere a ciascuna cantica del poema un saggio dedicato rispettivamente alla vita politica, alle condizioni artistiche, allo stato della Chiesa tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo. Nel Discorso l'esigenza di condurre un'interpretazione storica di un'opera essenzialmente storica si accompagna con l'incalzante polemica contro le antiche e le recenti elucubrazioni allegoriche, che avevano " addensate tenebre a tenebre " intorno all'età e alla mente di Dante. E proprio gl'interpreti gesuiti, diffidenti di certi atteggiamenti ribelli e iconoclasti del poeta, confermavano il F. nella sua idea che il fine sommo, se non proprio l'unico, della Commedia fosse un'integrale riforma della Chiesa papale, sicché, se i contemporanei l'avessero conosciuta vivente il poeta, le stesse città ghibelline non avrebbero potuto sottrarlo alla fine di un Cecco d'Ascoli, congregandosi il fanatismo della plebe con lo spirito di vendetta dei frati. A tale missione D. disse di essere stato chiamato da una superiore investitura: il F. crede che egli sentisse veramente nell'animo questa chiamata, ma - aggiunge - se solo stimasse utile di farlo credere " è uno degli arcani de' quali gli uomini perseveranti a meta pericolosa ed altissima, non sogliono mai parlare che alla loro coscienza ".
La visione sacra si agitava nella mente del poeta forse fin dalla fanciullezza, ma essa non poteva essere che vagamente simile a quella che leggiamo; forse - pensa il F., che non giunge a intendere l'alta poeticità del Paradiso - la terza cantica, almeno nelle parti dottrinali, fu pensata e composta prima delle altre e ciò perché più delle altre è guasta dall'uso " di latinismi crudissimi, di ambiguità di sintassi e di modi ruvidi ". Ma circa la composizione in realtà sappiamo nulla e poco possiamo arguire: nessuna importanza ha il negare o provare che il poema fosse iniziato a Firenze (" il nodo sta tutto a trovare se que' primi canti fossero per l'appunto quali oggi noi li leggiamo "). Gli anni fondamentali per la composizione furono quelli successivi agli anni della grande speranza concepita fra il 1314 e il 1318, quando la sede papale era vacante, le città guelfe lombarde in pericolo, veniva su ambiziosa e ardita la giovinezza di Cane della Scala. Tramontato quel sogno, il poeta pose " tutta la mente e l'ardire, e la sua generosa ferocia a far divino il Poema. Allora forse i tratti più caldi su le calamità dell'Italia, e le riforme della religione furono scritti; e sentiva ch'ei non aveva da aspettarsi di rivedere Firenze, se non per decreti della provvidenza e della vittoria. Allora non che stimarsi esiliato, esiliava la sua patria da sé; ed ascoltava più forte il comando e le ispirazioni d'adempiere ad una celeste missione. La sua fantasia concitata dalle sventure, e dalle passioni, e dal secolo, congiurò col suo grande intelletto a raffermarlo nell'opinione ch'ei fosse predestinato a rinnovare la Chiesa ".
Di fronte a questo nuovo modo d'intendere la poesia di D. la critica settecentesca appare al F. persa in problemi esterni e oziosi, incapace di sollevarsi a una vera intelligenza, anche quando l'impegno erudito sembrava prometterlo come nel caso del Muratori, per una troppo angusta idea della poesia, perché le passioni gigantesche e barbare sembravano alla mentalità di quel secolo nemiche della grazia e dell'eleganza. Giudizio forse severo, ma giustificato dallo stesso entusiasmo che accompagnava, alla luce della sensibilità storicista e romantica, la riscoperta di Dante. Del resto le verità balenate alla mente del F. si venivano chiarendo proprio attraverso il confronto e la discussione minuta con quelle diverse posizioni. Di qui anche la mancanza di quell'architettura essenziale, che è delle verità pacatamente accettate più che delle verità che si fanno strada a fatica non senza contraddizioni e ambagi. E forse se al Discorso è mancato l'universale riconoscimento della sua azione stimolatrice, lo si deve anche a questa sua particolare struttura.
Inquietamente impegnato a migliorare e arricchire la sua opera era lo stesso F., come risulta dalle correzioni e aggiunte apposte su un esemplare conservato a Livorno, non tutte accolte nella edizione curata dal Mazzini e stampata dal Rolandi nel 1842. Il Discorso non chiudeva, ma intendeva aprire la grande opera dantesca disegnata dal F.: il commento filologico del poema, liberato da tutti gli errori introdottivi dall'ignoranza dei copisti, a cui oltre tutto sfuggiva l'intendimento perseguito da Dante. Abbiamo del F. le postille all'Inferno. Se la sua filologia è molto arbitraria e non ha un vero fondamento scientifico, pure alla sua sensibilità nutrita di vasti studi si devono alcune soluzioni illuminanti: si pensi, per citare un solo esempio, alla giustificazione che accompagna il tremesse nel primo canto del poema; e in ogni caso è da segnalare, accanto all'osservanza della linea fondamentale della tradizione del testo dantesco dal sec. XVI in poi (l'Aldina, la Crusca, ecc.) la sagacia con cui il F. cattura e valorizza alcune importanti lectiones della Commedia ereditate attraverso il Nidobeato o tradite dai due codici danteschi che egli possedette: il codice Roscoe (ora l'Egerton 2567 del British Museum) e il codice Mazzucchelli, ora non più identificabile. L'edizione critica non lontana permetterà di stabilire con sicurezza i limiti del lavoro foscoliano e degl'interventi del Mazzini: probabilmente non muterà il giudizio sul commento.
Bibl. - I due articoli danteschi del F. pubblicati sul " The Edinburgh Review " apparvero come recensioni anonime a: Dante: with a new Italian Commentary, By G. Baglioli (Sic), Parigi 1818; The Vision of D., traduz. di H.F. Cary, Londra 1818, e a Osservazioni Intorno alla Questione sopra la Originalità del Poema di D., di F. Cancellieri, Roma 1814, nei numeri, rispettivamente, XXIX (febbr. 1818) 453-474; e XXX (sett. 1818) 317-351. Presso la Biblioteca Labronica di Livorno sono conservati (Mss. foscolianl, XVII, CC. 1-45 e 327-333) gli abbozzi autografi in francese di due articoli; nel vol. XXVI, sez. A, l'apografo con correzioni autografe in francese del solo primo articolo. Traduzioni dei due articoli: Illustrazione dell'episodio della Francesca da Rimini nella D.C., in " Il Raccoglitore " (1819) 340-346 (traduz. di D. Bertolotti di una parte del secondo articolo); Esame critico dei commentatori di D., ibid (1820) 451-467 (traduz. di D. Bertolotti del primo articolo; altre traduzioni italiane derivarono da una traduzione francese [D.A. et son époque] apparsa nel luglio 1829 nella " Revue Brittanique ", tra cui quella accolta nella edizione delle Opere scelte del Foscolo, curata dal Caleffi, Firenze 1835): su questo problema si veda l'articolo di D. Bianchini, Lo scritto " D. e il suo secolo " è proprio di Ugo F. ?, in " Il Propugnatore " XIII 2 (1880) 3-11.
Inoltre: U. Foscolo, La Commedia di D. A. illustrata da U. F., I (il solo pubblicato, e contiene il Discorso sul testo del poema di D.), Londra 1825 (fu ristampato con lo stesso titolo a Lugano 1827; e col titolo D. illustrato: discorso sul testo del poema, ibid 1832); La Commedia di D.A. illustrata da U.F., Londra 1842-43, 4 voll. (ediz. curata da G. Mazzini). Per le altre opere del F. in cui si tratta di D., citate nel corso della voce, i riferimenti s'intendono relativi ai volumi dell'Edizione Nazionale. Per le recensioni, gli articoli, gli studi su F. dantista: A. Ottolini, Bibliografia foscoliana, Venezia 1928; R. Frattarolo, Studi foscoliani (1921-1952), Firenze 1956. Degli scritti posteriori al 1952 ricordiamo A. Chiari, D. e il F., in Indagini e letture, s. 3, Firenze 1961, 223-266; B. Nardi, D. letto da F., in Atti del I Congresso Naz. di studi danteschi, Firenze 1962, 56-74; T. Marcialis, La Commedia di D. illustrata da U.F., ibid 1965; L. Martinelli, D., Palermo 1966, 170-180, 281; A. Pagliaro, Aspetti dell'esegesi dantesca del primo Ottocento, ibid 75-98 (rist. in Ulisse 669-778); M. Sansone, D. nell'età romantica, in " Terzo Programma " 4 (1965) 183-192; P. Giannantonio, D. e l'allegorismo, Firenze 1969, passim.