FALENA, Ugo
Nacque a Roma il 25 apr. 1875 da Antonio e da Maria Belardinelli. Dopo una serie di lavori, non presi in considerazione dalla critica ufficiale e scritti mentre era segretario, poi direttore per un anno, della Compagnia stabile romana, nel 1907 ebbe le prime lodi per Il passato (in due atti, Compagnia stabile romana, teatro Argentina, 23 marzo).
D. Oliva in un minuzioso resoconto del lavoro testimoniò il "successo pieno, schietto, caloroso", pur ravvisandovi un certo sapore quinteriano ("... ma il Falena ha fatto più melanconico il sorriso dei commediografi andalusi e s'è palesato più filosofo", in Il Giorn. d'Italia, 25 marzo 1907). In effetti il F., autore crepuscolare prima, patetico e umoristico dopo, nell'intento di secondare un pubblico disimpegnato e pronto a cogliere ogni occasione di svago innocente (o presunto tale) non senza le lacrime di rito, si rivolgeva alle fonti più disparate, contaminando o replicando in versione casalinga i prodotti più collaudati soprattutto del teatro francese.
Proprio in quell'anno la Casa Pathé, preoccupata della concorrenza italiana, aveva impiantato a Roma una succursale, la Film d'art italiana, anche per smaltire nel nostro paese la pellicola vergine prodotta in abbondanza a Vincennes; direttore e regista venne nominato Re Riccardi, cultore di teatro e dì cinema, il quale affidò al F., che lasciò pertanto la Stabile romana, la direzione artistica della succursale stessa. I primissimi film del F. sono avvolti nell'oscurità, e bisogna arrivare al 1912 per il primo titolo sicuro, Dall'amore al disonore; di sicuro risulta che aveva scritturato per G. Lo Savio attori teatrali già celebri come F. Garavaglia ed E. Novelli, promuovendone il debutto cinematografico rispettivamente in Otello del 1909 e ne Il mercante di Venezia del 1910, e l'allora sconosciuta M. Jacobini, che esordì in Lucrezia Borgia del 1910. Dopo aver tradotto Il sire di H. Lavedan per la compagnia A. De Sanctis (1910), e ridotto La morte civile di P. Giacometti per il cinema (1911), egli colse ancora un successo teatrale con Il signor principe (in quattro atti, teatro Valle di Roma, compagnia Andò-Paoli-Gahdusio, 17 maggio 1911): dramma di ambiente romano moderno, arieggiante nel contenuto I fossili di F. De Curel, si impose per la "precisa scultura dei caratteri e la ricca umanità dei personaggi".
Il 1914 fu l'anno dei suoi maggiori successi cinematografici (da La colpa di Giovanna a Il giornalissimo, a La più forte, Il re fantasma, Rivelazione e fatalità) e segnò l'inizio del suo acclimatamento al gusto del dramma enfaticamente sentimentale dopo un incerto stazionamento nel genere in costume.
A proposito della sua unica trasgressione al cliché assegnatosi, Il giornalissimo, prima "turlupineide" cinematografica in un prologo e sei parti del F. e di I. C. Falbo, che riscosse grande successo a Roma alla vigilia della guerra e fu prontamente ritirata dallo schermo su intervento della censura, era basata sulla trovata di un paio di occhiali con i quali i lettori di un giornale vedono animarsi sotto i loro occhi tutto ciò che leggono, dalla rubrica di politica alla nota mondana, al romanzo d'attualità via via fino alla cronaca teatrale con la parodia di Lyda Borelli e all'apoteosi del giornalismo con il grottesco trionfo di monsignor Perrella e del Guerin Meschino.
Durante il conflitto passò alla Produzione Galatea, alla Tespi (dirigendo con quest'ultima due interessanti riduzioni da G. Verga, Cavalleria rusticana, 1917, e da R. Bracco, Il piccolo santo, 1918), continuò a coltivare il teatro (Gli assenti, compagnia Talli-Melato-Betrone, teatro Manzoni di Milano, 21 marzo 1918), poi fu alla direzione generale della Bernini, dove si cimentò nel grande apparato spettacolare prima costoso, poi man mano limitato e rabberciato, non ultima ragione, secondo M.A. Prolo, del dilagare del filisteismo e di quella paralisi produttiva che si annunciava prossima: ne furono esempi un Giuliano l'Apostata (1920), ancora sontuoso e "romanamente decorativo", e due torvi film storici, ambedue del 1921, Il tramonto dei Doria e La congiura dei Fieschi (in tale periodo tenne anche la critica drammatica su IlPopolo romano, precisamente dal gennaio 1920 al gennaio 1921). Nel 1923 concluse la sua attività di regista, di cui quasi nulla di memorabile è rimasto, con Il natalizio della nonna su soggetto suo, prodotto dall'UCI (Unione cinematografica italiana) (ma R. Chiti ravvisa le prove di un impegno più elevato della media nella sua tendenza verso le opere di edificazione religiosa basandosi invero su pochi titoli a disposizione).
Gli rimaneva, passione mai trascurata, il teatro: il 14 dic. 1922 presso il teatro della Pergola di Firenze andò in scena il Don Giovanni, in cui fu tentato l'ammodernamento, per vie esterne, del personaggio molieriano, e finalmente si meritò il consenso di R. Simoni, che vide la commedia in lingua a Milano nel marzo 1925, a proposito de Lo zio cardinale (dopo la prima in dialetto romanesco di Zi' cardinale al teatro Nazionale di Roma il 10 sett. 1924); questi riconobbe "una vicenda romantica, ravvivata dalla presenza dello zio cardinale che ha, in tono assai minore, l'arguzia del cardinale Lambertini e una bontà più verbosamente sentimentale", concludendo che i tre atti erano composti "con abilità".
L'ultimo lord (Milano, teatro Manzoni, 9 giugno 1925) era un'evidente derivazione de Il piccolo lord di F. E. Burnett e risultò per il Simoni "una modestissima commedia, d'una convenzionalità patetica non sgradevole, e con una certa vivezza di dialogo comico ... un saggio di teatro roseo, per signorine"; di rincalzo M. Praga lo definì "del genere tra il comico e il sentimentale", rilevando che, pur piacendo al pubblico, non ebbe il potere di tenere a lungo il cartellone (A. Genina ne ricaverà due film dallo stesso titolo nel 1926 in Italia e nel 1931 in Francia). Dopo un'altra prova in dialetto, Er giubbileo (Roma, teatro Nazionale, 14 ag. 1925), fragile divagazione estiva a carico della fedele compagnia Monaldi, subì dal Simoni un giudizio negativo a proposito de Il raggio di luna (lo vide a Milano nel maggio, dopo la prima al politeama Nazionale di Firenze dell'aprile 1927): "Ugo Falena ha avuto ... torto, quando s'è accinto a scrivere una commedia di maschere; e più torto ha avuto quando non le ha scatenate, o stupefatte o beffarde, tra le abitudini e i sentimenti del nostro tempo. Egli le ha lasciate nei loro rugiadosi e melliflui amoretti, fra i loro piccoli intrighi senza nervi e senza sorprese". Il riconoscimento congiunto del Simoni e del Praga gli venne, poco dopo, con Le nozze de Arlechin (teatro dei Filodrammatici di Milano, compagnia Micheluzzi 29 nov. 1927), che per il primo risultò una commedia "fatta veramente bene", con sceneggiatura garbata, dialogo saporito, "una grazietta comica proporzionata e una piccola e cara comicità", e per il secondo un "atto graziosissimo", "una cosetta ricca di grazia e di garbo".
A. Gandusio, con la sua sicura padronanza della scena, gli portò a un successo d'occasione Il favorito nel 1928 e al divertimento di un pubblico convinto la commedia forse migliore, La vendetta di Demostene (teatro Olimpia di Milano, 27 maggio 1930), nella quale il F. ebbe come trovata esilarante quella dell'improvvisazione, da parte di Bernardo Way, di un'orazione commemorativa delle virtù di un cliente sconosciuto (segnata da un fragoroso applauso a scena aperta durante il secondo atto): il Simoni sostenne che questo era tra i migliori personaggi usciti dalla sua penna e M. Ferrigni che la commedia, pur non aspirando "a originalità peregrine", era costruita con semplice ingegnosità e dialogata "con movenze eleganti". Ancora il Gandusio gli interpretò l'ameno Il duca di Mantova (teatro Vittorio Emanuele di Torino, 23 apr. 1931), una parodia del melodramma verdiano attraverso l'espediente del teatro nel teatro.
Nel settembre successivo il F. spedì alla compagnia Merlini-Cimara-Tofano il manoscritto de La corona di strass, poco dopo aver subito un difficile intervento ai reni che parve essere riuscito. Un'improvvisa recrudescenza dei postumi operatori ne causò la morte, a Roma, il 20 sett. 1931.
La commedia fu rappresentata postuma da quella compagnia presso il Vittorio Emanuele nel novembre successivo, dopo una breve, commossa commemorazione di L. Cimara; il Simoni, che la vide a Milano nel gennaio 1932, poté testimoniare che "quest'opera ... parve ... al pubblico singolarmente gioconda e, nella sua fresca lievità, divertentissima" (nel 1940 G. Gentilomo ne ricaverà il film La granduchessa si diverte). La serie dei suoi lavori drammatici si chiuse però tre anni dopo, quando il 9 ag. 1934 al teatro Adriano di Roma apparve un ultimo pallido fiore del suo talento, Diogene senza lanterna.
Fonti e Bibl.: Recensioni: Il Giornale d'Italia, 25 marzo 1907; La Stampa, 24 apr. 1931; necr. in Il Messaggero, 22 sett. 1931. Annali del teatro italiano, I, Milano 1921, p. 133 e passim; II, ibid. 1923, p. 16 e passim; M. Praga, Cronache teatrali 1925, Milano 1926, p. 185; Cronache ... 1927, ibid. 1928, pp. 356 s.; M. Ferrigni, Cronache teatrali 1930, Milano-Roma 1932, pp. 159-161; M.A. Prolo, Storia del cinema muto italiano, I, Milano 1951, pp. 38, 75 s.; R. Simoni, Trent'anni di critica dramm., II, Torino 1954, pp. 187, 233; III, ibid. 1955, pp. 60, 96, 331, 484; R. Paolella, Storia del cinema muto, Napoli 1956, pp. 83, 434; G. P. Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre, Milano 1975, p. 18; Enc. dello spettacolo, IV, coll. 1808 s.; Filmlexicon degli autori e delle opere, II, Roma 1959, coll. 605 s.