ubiquità
Dal latino ubiquitas, l'u. è attributo divino che definisce il rapporto tra Dio e l'universo dal punto di vista della categoria locale. Dio, semplicissimo, non ha corpo né dimensioni, e perciò propriamente non è in alcun luogo, ma trascende ogni luogo; è dunque infinito e immenso. Se tuttavia si dice che Dio è ‛ in ogni luogo ', bisogna intendere non che egli è circoscritto da essi, ma che tutti i luoghi sono a lui presenti, anzi sussistono e si ‛ definiscono ' per rapporto alla presenza fondante e contenente di Dio, secondo una tesi capitale della dottrina cristiana (cfr. Act. Ap. 17,28 " in ipso [Dio] enim vivimus et movemur et sumus "). Il termine u. non occorre nell'opera dantesca, ma i molteplici riferimenti di D. alla categoria locale (v. LUOGO; sito; ubi) e in particolare la relazione tra i nove cieli e l'Empireo (v.), rende possibile un discorso sul rapporto Dio-mondo dal punto di vista del ‛ luogo ' secondo D., purché vengano tenuti presenti anche i termini forniti dal poeta per la chiarificazione di questo stesso rapporto dal punto di vista causale (v. CAGIONE) e dal punto di vista temporale (v. ETERNITÀ; quando; tempo).
Secondo D., Dio è causa prima di tutto, anche di ciò che è effetto dell'azione causale dei cieli. Da Dio il Primo Mobile (v.), trae la virtù ch'ei piove (Pd XXVII 111), che comunica ai cieli inferiori, i quali, ‛ partendola ', la dispongono a operare nel mondo sublunare. Effetto, fra gli altri, dell'influenza celeste è la virtù del ‛ luogo naturale ', dalla quale è potenziata ogni cosa operante in quel preciso luogo nel quale è stata disposta la sua generazione. Ma il Primo Mobile non ha altro dove / che la mente divina (vv. 109-110), della quale è riverbero il ciel ch'è pura luce (XXX 39) cioè l'Empireo (cfr. B. Nardi, La dottrina dell'Empireo nella sua genesi storica e nel pensiero dantesco, in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 167-214). All'intelletto di D. è chiaro che l'universo - la terra immobile al centro e i cieli rotanti intorno ad essa ma attratti dal Motore immobile - è contenuto nella pura luce dell'Empireo, riflesso della mente divina, e in definitiva in Dio, nella cui causalità ha la sua radice. Ma nella divina mente il mondo ha sede in un senso più radicale, in quanto essa è il ‛ luogo ' dei modelli, o esemplari, o paradigmi, di ogni cosa creata; è quanto D. coglie nel momento supremo della contemplazione di Dio: Nel suo [di Dio] profondo vidi che s'interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l'universo si squaderna: / sustanze e accidenti e lor costume / quasi conflati insieme, per tal modo / che ciò ch'i' dico è un semplice lume. / La forma universal di questo nodo / credo ch'i' vidi (Pd XXX 85-92). In definitiva, Dio ha creato il mondo a sua somiglianza, cioè guardando a quel mondo ideale che ‛ ab aeterno ' è presente nella sua mente; egli, inoltre, conserva nell'essere tutto il creato, sicché non solo l'origine, ma la permanenza stessa delle cose ha in lui la sua giustificazione ultima. Dio è presente attivamente da un punto di vista ontologico a tutte le cose; è dunque dappertutto: essendo il fondamento dell'essere delle creature, è perciò il punto di riferimento ultimo anche dei rapporti di luogo che corrono tra gli esseri, pur essendo fuori del luogo. Come l'eternità (v.) definisce l'essere divino per rapporto al tempo, nel senso che Dio è fuori del tempo (XXIX 16 in sua etternità di tempo fore) ma la successione e il divenire del tempo sono rapportati a Dio-eternità come i punti della circonferenza convergono, per via dei raggi, nel centro del cerchio (XVII 17-18 il punto / a cui tutti li tempi son presenti), allo stesso modo Dio, punto fisso, immobile, inesteso, non è in alcun luogo, ma ogni ‛ luogo ', ‛ sito ', ‛ ubi ' va ricondotto a lui come alla sua origine e alla sua misura suprema: egli è il punto da cui depende il cielo e tutta la natura (XXVIII 41-42); Beatrice vede la domanda inespressa di D., là 've s'appunta ogne ubi e ogne quando (XXIX 12). In particolare, nel Paradiso la ‛ condizione ' o ‛ stato ' degli angeli e delle anime beate è definito per rapporto a Dio (XXVIII 95 Io sentiva osannar di coro in coro / al punto fisso che li tiene a li ubi, / e terrà sempre, ne' quai sempre fuoro) non in senso ‛ fisicamente ' locale (XXX 121-123 Presso e lontano, lì, né pon né leva: / ché dove Dio sanza mezzo governa, / la legge natural nulla rileva), ma nel senso di una maggiore o minore partecipazione della grazia (III 88-90 Chiaro mi fu allor come ogne dove / in cielo è paradiso, etsi la grazia / del sommo ben d'un modo non vi piove). I cori angelici appaiono a D. mossi di moto velocissimo intorno al punto luminoso che è simbolo della divinità alla quale anelano di congiungersi (XXVIII 25-27, XXX 10-13).
La terzina con cui si apre la terza cantica (Pd I 1-3 La gloria di colui che tutto move / per l'universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove) riguarda per sé solo la manifestazione della gloria di Dio, ma nel commento fornito nell'epistola a Cangrande si ritrovano i testi classici dell'u.: Dicit enim Spiritus Sanctus per Hieremiam: " Coelum et terram ego impleo "; et in Psalmo: " Quo ibo a spiritu tuo? et quo a facie tua fugiam? Si ascendero in coelum, tu illic es; si descendero in infernum, ades. Si sumpsero pennas meas etc. ". Et Sapientia dicit quod " Spiritus Domini replevit orbem terrarum ". Et Ecclesiasticus in quadragesimo secundo: " Gloria Domini plenum est opus eius " (Ep XIII 62). Accanto a questi testi veterotestamentari è ricordato un passo della Pharsalia di Lucano (IX 580): " Iuppiter est quodcumque vides, quocumque moveris " (§ 63).
Il riferimento all'u. considerata attributo di Dio è ricorrente negli scritti dei padri e dei teologi. Molti testi dovevano essere familiari a D., ma è difficile stabilire a quali fonti in particolare egli abbia attinto. Gioverà nondimeno fare qualche accostamento. L'abbinamento dell'u. con l'eternità (Pd XXIX 10-12) è già in Ambrogio (De Spiritu Sancto I VII 81; Exp. in Lucam IX 23), in Agostino (Civ. XI 5; Trin. VI) e in Tommaso (Sum. theol. I 16 7 ad 2 " Deo competit esse ubique et semper ", e altrove); Pd XXIX 10-12, XXX 10-13 e XXXIII 85-90 sembrano riecheggiare un celebre passo di Tertulliano: " Deus in quo omnis locus, non ipse in loco " (Migne, Patrol. Lat. II 175); l'immagine di Dio che per l'universo penetra (Pd I 2) ha riscontro in Ambrogio De Fide ad Gratianum I XVI 106 e in Gregorio Magno Mor. II XII 20 (i due autori insistono a lungo sulla penetrazione divina; il verbo ‛ penetrare ' ritorna due volte nel passo di Ambrogio e ben quattro volte in quello di Gregorio); e anche i testi scritturistici riportati in Ep XIII 62 sono quelli solitamente addotti per provare l'u. di Dio: Geremia (23,24) è citato da Girolamo (Migne, Patrol. Lat. VII 580), Agostino (Conf. I Il), Gregorio (loc. cit.) e Tommaso (Cont. Gent. III 68, IV 17, Sum. theol. I 8 2); la Sapientia (1, 7) da Gregorio (loc. cit.) e Tommaso (Cont. Gent. IV 17); Ps. 138,8 da Girolamo (loc. cit.) e Tommaso (Cont. Gent. III 68).
La dottrina della presenza di Dio nel mondo creato, già rilevata, ricorre anche nel Convivio, nel De vulg. Eloq. e nella Monarchia, per ricevere uno sviluppo più ampio nell'epistola a Cangrande.
In Cv III II 4-9 D., iniziando il commento letterale della canzone Amor che ne la mente mi ragiona, spiega nel modo seguente la natura dell'amore: ciascuna forma sostanziale partecipa da Dio il suo essere e pertanto, per fortificare questo, desidera unirsi a lui; ma, poiché anche nelle cose create si mostra la bontà divina, l'anima umana brama di unirsi spiritualmente agli esseri intelligenti e questo unire è quello che noi dicemo amore (II 9). Commentando in seguito, prima secondo il senso letterale, poi secondo il significato allegorico, il v. 37 In lei [la donna] discende la virtù divina, D. dimostra la sua tesi rifacendosi alla presenza della divina bontade in tutte le cose (VII 2-7, XIV 2-5).
Nel De vulg. Eloq. D. tocca l'argomento in un paragone che introduce nel ragionamento costruito per dimostrare la presenza del volgare illustre in ogni città della penisola italica (I XVI 5): Dio, la semplicissima tra le sostanze, olezza (redolet), sia pure in misura diversa, in ogni cosa creata. A parere del Marigo (ad l.) il redolet trova rispondenza, per il concetto, nel già citato risplende di Pd I 2.
In Mn I VIII 2 è presentata la stessa dottrina: il primo agente, Dio, vuole che ogni cosa creata manifesti la somiglianza divina secondo la propria capacità; l'universo, pertanto, non è altro che vestigium quoddam divinae bonitatis (cfr. Pd I 103 ss., in partic. i vv. 106-107 l'orma / de l'etterno valore).
Finalmente, in Ep XIII 53-61, 64-65, D., commentando la prima terzina del Paradiso, dimostra, in forma rigorosamente scolastica, che il raggio divino penetrat, quantum ad essentiam; resplendet, quantum ad esse (§ 64).
Nei passi riguardanti la presenza di Dio nelle cose D. cita esplicitamente le seguenti fonti: il Liber De Causis (6 volte) e, una volta ciascuno, Gen. 1,26, Alb. Magno De Intellectu et intelligibili, Alpetragio, Aristotele Metaph. II, Avicenna, il De caelesti hierarchia dello pseudo Dionigi (per la conoscenza e l'uso delle fonti da parte di D., v. De Causis; Dio; cfr. M. Barbi, Introd. al Convivio, pp. XLVIII-LV; B. Nardi, Le citazioni dantesche del " Liber de Causis " in Saggi, cit., pp. 81-109). In questi testi l'influsso neoplatonico è innegabile; ma esso si compone con altre influenze. Così il Nardi (op. cit., p. 97) rileva che, nell'ispirarsi in Cv III II 5 alla quarta proposizione del De Causis, D. sopprime la parola " creaturarum ", superflua rispetto al modo aristotelico d'intendere l'essere ivi adottato; al § 5 D. aggiunge la precisazione importante: non che la divina natura sia divisa e comunicata in quelle [le altre ‛ forme '], ma da quelle è participata, che richiama piuttosto Tommaso Sum. theol. I 75 5 ad 1; l'espressione forma sustanziale di Cv III II 4 è aristotelica (Nardi, op. cit., p. 106). Né va escluso l'influsso di Agostino, del quale è ancora da ricordare Conf. I III che tratta della presenza di Dio in tutte le cose. Va notato, infine, che Sum. theol. I 8 ha ricevuto da Tommaso d'Aquino il titolo " De existentia Dei in rebus ".