PALLAVICINO, Uberto
PALLAVICINO (Pallavicini), Uberto. – Nacque probabilmente nel 1197 da Guglielmo, considerato il capostipite del ramo lombardo del gruppo parentale, che vantava vastissimi possessi nel contado padano, in particolare nei territori di Cremona, Piacenza e Parma.
Esponente di una famiglia discendente dalla stirpe marchionale degli Obertenghi, si sposò con Berta, figlia del conte Ranieri di Pisa, successivamente la ripudiò poiché questa non poteva avere figli e passò a seconde nozze. Dal testamento, datato 29 aprile 1267, si evince che suoi eredi sarebbero stati il figlio Manfredino e quattro figlie, delle quali, al momento della sua morte, una sola era sposata.
Il cronista parmense Salimbene de Adam (ed. 1966, pp. 501-504) descrisse l’aspetto fisico di Uberto con tratti poco lusinghieri per un condottiero: precocemente invecchiato, gracile, cagionevole di salute, privo di un occhio, strappatogli da un gallo in tenerissima età. Nel carattere avrebbe manifestato atteggiamenti propri di una persona assetata di potere, disposta a sacrificare anche stretti collaboratori per conseguire nuovi successi; tuttavia avrebbe saputo infiammare gli animi e suscitare grandi entusiasmi, riscuotendo così viva ammirazione.
Le prime notizie che lo riguardano risalgono al 1234, quando, alleato del Comune di Cremona, sconfisse i milites piacentini in Val Ceno; nominato nel 1236 podestà di Piacenza, venne in seguito espulso dalla città, unitamente al capo della parte popolare Guglielmo dell’Andito, su richiesta del legato papale. Negli anni successivi ricoprì la carica podestarile a Pavia (1239), Reggio nell’Emilia (1243) e Como (forse 1246). Federico II, al quale fu fedelissimo, gli conferì il titolo di ‘vicario generale del sacro romano impero in Lombardia’ e nel 1249 gli confermò i diritti feudali su tutto il territorio sotto la giurisdizione dei Pallavicino e, l’anno successivo, l’immunità, trasmissibile ai successori, da qualsiasi onere per le persone e i beni relativamente all’area suddetta, alle città di Piacenza, Cremona, Parma e a quelle di Lombardia e Toscana. La portata di tali concessioni venne vanificata dalla morte del sovrano nel 1250, ma Uberto continuò a rivendicarne la validità, mantenendo nel contempo il legame con la casata sveva.
Intorno alla metà del Duecento, al pari di Ezzelino da Romano, Uberto incarnava la figura di aspirante al potere personale su più città, secondo un modello volto a instaurare un regime signorile che, limitando al massimo il cambiamento degli ordinamenti comunali, necessitava sul piano della legittimazione dell’investitura da parte dell’autorità imperiale, o regia (vacante l’impero), o ancora degli Angioini. Nel 1249 con l’appoggio di Buoso da Dovara, uno dei maggiori esponenti dello schieramento ghibellino della città, ebbe il titolo di ‘signore perpetuo’ di Cremona. Tra il 1249 e il 1260 riuscì a costituire un vasto potentato padano che, dopo Cremona, vide molte altre città cadere sotto il suo dominio, seppure con tempi e modalità peculiari: Piacenza, Milano, Lodi, Brescia, Bergamo, Como, Novara, Alessandria, Asti, Tortona, Busseto e altre ancora. Esempi significativi delle caratteristiche del potere raggiunto da Uberto e delle linee politiche perseguite emergono dalle vicende di Cremona, Milano e Pavia. A Cremona, il luogo di residenza preferito, la signoria di Uberto, terminata nel 1266, fu caratterizzata da una politica di conciliazione delle parti contrapposte, milites e popolo; pur manifestando il signore sintonia con i primi, era concreta l’attenzione al popolo, visto che la podesteria dei mercanti venne affidata al fedele (almeno fino a una certa epoca) Buoso da Dovara; alle istituzioni comunali venne affiancato un consiglio ristretto, detto ‘dei sapienti della camera di Cremona’. L’atteggiamento generalmente intransigente nei confronti degli ecclesiastici in materia di fiscalità e giustizia, unito all’accusa alla città di Cremona di proteggere gli eretici, costò a Uberto la scomunica da parte di Innocenzo IV. A Milano è da rilevare la sostanziale coesistenza dell’incipiente signoria torriana, di tradizione antimperiale, con un altro potere personale: nel medesimo anno 1259, da un lato Martino della Torre venne proclamato ‘anziano del popolo’, dall’altro il filoimperiale Uberto assunse il titolo di ‘capitano generale del popolo’. Quest’ultima carica gli assicurò un preciso potere politico, esercitato nella scelta del podestà del Comune, come conferma il succedersi in tale funzione di membri della famiglia Pallavicino, quali Guglielmo di Scipione (1261), Ubertino (1262), Uberto detto Pellegrino (1264). Le due forme di signoria, inserendosi nella macchina amministrativa della città, complicavano sotto ogni punto di vista il quadro socio-politico. Una siffatta fragilità istituzionale determinò un cambiamento di strategia: terminato il quinquennio del capitanato del popolo di Uberto, i della Torre cercarono un coordinamento con Carlo d’Angiò, cui offrirono di nominare il podestà. Per quanto riguarda Pavia, il tratto più incisivo dell’azione di Uberto si concretizzò nelle iniziative di carattere economico, volte a creare una vasta area omogenea e solidale che coinvolgesse anche Vercelli, Cremona e Piacenza, con l’obiettivo di un’egemonia nel commercio padano verso Venezia, Genova e il nord Europa. Nel 1254 fu messo a punto un accordo di carattere monetario per rendere unico il mercato della maggior parte delle città lombarde ed emiliane e mirante quindi a potenziare i traffici con l’area orientale attraverso la via fluviale del Po.
Le fortune e il potere di Uberto volsero rapidamente alla fine tra il 1264 e il 1266, soprattutto in seguito alla discesa di Carlo d’Angiò in Italia e al suo abbandono da parte dei cremonesi. Distrutti il palazzo Pallavicino a Parma e la rocca di Soragna, l’ultima resistenza si consumò nelle campagne di Borgo San Donnino e Busseto.
Morì l’8 maggio 1269 nel castello di Gusaliggio in Val Mozzola.
Fonti e bibl.: Conradi IV Constitutiones, a cura di L. Weiland, in Mon. Germ. Hist., Leges, IV, II, Hannover 1896, pp. 450-451; Codex diplomaticus Cremonae, a cura di L. Astegiano, II, Torino 1898, pp. 216-217; Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, I-II, Bari 1966, passim, in particolare pp. 501-504, 695-697; Il Registrum magnum del comune di Piacenza, a cura di E. Falconi - R. Peveri, III, Piacenza 1986, nn. 762, 763, 786; Gli atti del comune di Milano nel secolo XIII, a cura di M.F. Baroni, IV, Alessandria 1997, doc. CLXIV; U. Gualazzini, Aspetti giuridici della signoria di Uberto Pelavicino su Cremona, in Archivio storico lombardo, LXXXIII (1956), pp. 20-28; E. Nasalli Rocca, La signoria di Oberto Pellavicino nella formulazione dei suoi atti di governo, ibid., pp. 29-43; G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Torino 1979, pp. 355-357; E. Voltmer, Personaggi intorno all’imperatore: consiglieri e militari, collaboratori e nemici di Federico II, in Politica e cultura nell’età di Federico II, a cura di S. Gensini, Pisa 1986, pp. 71-93; F. Menant, Il lungo Duecento 1183-1311: il comune fra maturità istituzionale e lotte di parte, in Storia di Cremona: Dall’Alto Medioevo all’Età Comunale, a cura di G. Andenna, Cremona 2004, pp. 322-326; L. Bertoni, Pavia alla fine del Duecento. Una società urbana fra crescita e crisi, Bologna 2013, pp. 69, 193-197, 206.