GAMBARA, Uberto
- Nacque a Brescia all’inizio di febbraio del 1489 dal conte Gianfrancesco e da Alda Pio di Carpì. Apparteneva a una famiglia eminente di parte ghibellina ed ebbe un’ educazione di impronta umanistica, che traspare dai rapporti epistolari intrattenuti con Pietro Bembo nei primi anni del Cinquecento.
Brescia viveva in quel periodo una stagione drammatica. Nel maggio 1509, dopo la sconfitta dei Veneziani ad Agnadello (o Ghiaradadda), la città cadde in mano ai Francesi, favoriti da coloro che, come i Gambara, si dimostravano piuttosto insofferenti verso il dominio veneto. I Veneziani la riconquistarono tra gennaio e febbraio 1512, profittando dell’isolamento politico-militare della Francia dopo la stipulazione della Lega santa (1511), ma non riuscirono a impedire che le truppe di Gaston de Foix, accorse poche settimane dopo, ne entrassero nuovamente in possesso, sottoponendola a un feroce sacco.
I buoni rapporti con i Francesi permisero al G. e alla sua famiglia di attraversare senza conseguenze queste convulse vicende; anzi, dopo il sacco i Gambara ebbero delle ricompense per la fedeltà dimostrata a Luigi XII. Ma la fortuna dei Francesi declinò rapidamente e, dopo il loro ritiro dal Ducato di Milano nell’estate 1512, in ottobre cedettero Brescia alle truppe spagnole del viceré Raimondo Cardona. L’incerta situazione della città consentiva qualche spazio di azione politica e il G. si schierò con quanti auspicavano l’instaurazione del dominio dell’imperatore Massimiliano I.
L’occasione si presentò dopo che il Cardona ebbe lasciato il governo al suo luogotenente L. Icardo, che nel dicembre 1514, per guadagnare consenso fra i ceti più in vista della città, permise di ricostituire i Consigli municipali. Il G. fu tra gli eletti e si sforzò di indirizzare il Consiglio verso il partito filoimperiale. Quindi, all’inizio del 1515, quando stava per riaccendersi la lotta per il Milanese, che vedeva unite Francia e Venezia, il G. fu inviato con altri consiglieri presso l’imperatore, per chiedere protezione. Questi, però, in un’ambigua fase delle trattative fra le potenze, si limitò a generiche promesse. Gli eventi precipitarono l’anno seguente: nei primi mesi del 1516 Brescia fu isolata dalle truppe venete e conquistata dall’esercito francese di Odet de Foix, visconte di Lautrec (maggio 1516).
Il G., che insieme col fratello Brunoro aveva attivamente partecipato alla difesa della città, nonostante l’indulto garantito da Venezia preferì riparare dapprima a Correggio, presso la sorella Veronica, quindi a Roma, dove ebbe da Leone X (probabilmente acquistandolo) il titolo di protonotario apostolico. Nel marzo 1519 egli tentò una prima riabilitazione presso il Senato della Serenissima, professando di voler essere «bon marchesco» (Sanuto, XXVII, col. 85). Ma fu a Roma che il G. iniziò la sua carriera politico-diplomatica. Leone X, infatti, decise di affidargli un’iniziativa contro Ferrara.
La conquista del Ducato estense era uno dei punti principali della politica italiana del pontefice, che mirava al consolidamento a Nord dei domini dello Stato della Chiesa e al monopolio sulla fiorente produzione del sale. Ma questi disegni erano avversati dalle maggiori potenze italiane ed europee, che consideravano pericolosa ogni espansione territoriale pontificia, sicché Leone X fu obbligato a muoversi con le sue sole forze. Cosi, dopo una sfortunata spedizione contro Ferrara guidata alla fine del 1519 dal vescovo Alessandro Fregoso, toccò al G., nel 1520, «tentare nuove insidie» (Guicciardini, Storia d’ltalia, p. 1377). Il G. prese contatti con un capitano della guardia del duca Alfonso d’Este, Rudolf Hell, che con un compenso di 2000 ducati avrebbe garantito l’accesso alla città alle truppe radunate da G. Rangoni e da F. Guicciardini, governatore di Modena. Tuttavia la trama fu sventata.
Nell’estate del 1521 il G. seguì le operazioni dell’esercito pontificio nel Milanese, nel quadro dell’alleanza tra Leone X e Carlo V contro il re di Francia, Francesco I; ma in dicembre la guerra fu interrotta dalla morte del papa. Durante il breve pontificato di Adriano VI il G. probabilmente non ricoprì gli incarichi di rilievo menzionati da alcuni antichi biografi: certamente non fu legato in Francia, né è attestata alcuna sua attività come nunzio in Portogallo, come recenti studi hanno dimostrato. Invece la sua carriera riprese slancio con l’elezione di Giulio de’ Medici, Clemente VII.
Già nel dicembre 1523 il nuovo pontefice lo inviò a Milano per reclamare presso il duca Francesco Sforza, reinsediato da Carlo V nell’aprile 1522, la salvaguardia delle rendite ecclesiastiche, in più occasioni esatte arbitrariamente. Similmente, per ottenere concessioni alla Sede apostolica in materia beneficiarla, nel corso del 1525 il G. si recò in Francia. I successivi impegni lo portarono sul terreno propriamente diplomatico.
Clemente VII, infatti, dalla fine del 1524 aveva rotto la sua neutralità, schierandosi con la Francia contro Carlo V, al fine di vedere riconosciuto il dominio dello Stato della Chiesa su Parma e Piacenza. Ma la grave sconfitta francese a Pavia nel febbraio 1525 compromise tutto e il pontefice, dopo alcuni tentativi di accordo con Carlo V, decise di rafforzare i negoziati per la lega inviando il G. in Inghilterra (Sanuto, XL, col. 874).
Il G. partì da Roma all’inizio di marzo del 1526. Giunto presso il card. Th. Wolsey, lord cancelliere, chiese subito un deciso coinvolgimento dell’Inghilterra nella Lega (stipulata il 22 maggio 1526 tra il papa, la Francia, Venezia e Francesco Sforza), per approfittare appieno della difficile situazione politicomilitare di Carlo V in Italia. Enrico VIII e Wolsey avrebbero dovuto altresì spingere il re di Francia, pressato invece dalla diplomazia imperiale, a un più tempestivo intervento militare in Fiandra e in Navarra. Ma dalla corte inglese venivano al G. solo risposte vaghe, che adducevano a scusante sia l’ambiguo atteggiamento di Francesco I, sia l’ingente credito nei confronti di Carlo V. Dopo l’inizio delle ostilità in Italia, nell’autunno 1526 il G., secondo le nuove istruzioni di Roma, chiese alla corte inglese almeno un sostegno finanziario: la situazione militare, infatti, nonostante i primi successi in Lombardia, precipitava velocemente. Quindi nel novembre 1526, anche a causa della ribellione dei Colonna, i baroni romani alleati dell’imperatore, Clemente VII fece sapere al G. che avrebbe gradito una mediazione inglese per la stipulazione della pace con Carlo V.
Il G. esegui, ma trovò più difficoltà del previsto: le richieste dei diplomatici imperiali apparivano gravose, mentre la Francia e l’Inghilterra accordavano i primi aiuti finanziari. Un’intesa fra il papa e Carlo V fu infine raggiunta alla fine di gennaio, ma fu rotta dopo qualche successo militare dell’esercito pontificio a Sud. Nella primavera, gli eventi presero una piega drammatica: fallite l’invasione del Napoletano e la difesa dei domini della Chiesa a causa della calata dei lanzichenecchi, Clemente VII non poté evitare, né con un armistizio con il viceré Charles de Lannoy (15 marzo 1527), né con la ripresa delle ostilità (24 apr. 1527), la caduta e il saccheggio di Roma (6 maggio 1527). Da Castel Sant’Angelo, dove era rinchiuso insieme col pontefice, l’influente datario G.M. Giberti lanciò un appello - privo di speranze - al G. e al Wolsey.
Queste vicende mutarono radicalmente la missione del Gambara. Nell’agosto 1527 egli segui il Wolsey ad Amiens per l’incontro con Francesco I, nel quale si rese ufficiale l’alleanza tra Francia e Inghilterra e si discusse dell’aiuto da prestare al pontefice.
Il Wolsey progettava di inviare il G. con credenziali inglesi presso Clemente VII, al fine di farsi affidare la reggenza della Sede apostolica. In questo modo il Wolsey avrebbe anche garantito al suo sovrano l’ambito annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona. Il G. passò in Italia e all’inizio di novembre del 1527 era a Parma, in attesa di un salvacondotto per raggiungere Roma, ancora in mano agli Imperiali. Quando poi in dicembre il G., insieme con l’ambasciatore inglese W. Knight, riuscì a incontrare il papa, questi aveva superato la fase più drammatica della crisi e si trovava libero in Orvieto.
Clemente VII inviò il G. di nuovo in Francia e in Inghilterra, con l’incarico formale di ringraziare i due sovrani per il loro operato durante la sua prigionia e di riferire a Enrico VIII alcune proposte riguardanti la bolla di annullamento del matrimonio. Ma lo scopo del viaggio era di sondare le possibilità di un intervento delle due Corone per la restituzione di Cervia e Ravenna, occupate dai Veneziani, e di Modena e Reggio, prese dal duca di Ferrara nell’estate 1527. Senza assicurazioni in proposito il papa non sarebbe uscito dalla neutralità in cui si era chiuso, tanto più che, a riguardo, l’imperatore gli faceva esplicite offerte di aiuto.
In questo clima, i colloqui del G., dapprima con il Lautrec, a Bologna (23 dic. 1527), poi presso le corti francese e inglese (gennaio-febbraio 1528) non produssero alcun risultato favorevole: la Francia, l’Inghilterra e i maggiori Stati italiani, tra cui Venezia, tornavano alle armi contro Carlo V. Al G. riuscì solo di eludere le richieste di Wolsey riguardo allo scioglimento del matrimonio di Enrico VIII, secondo le istruzioni di Roma che salvaguardavano gli interessi dell’imperatore, nipote della regina Caterina d’Aragona.
Al suo ritorno il G. fu nominato governatore e vicelegato di Bologna e vescovo di Tortona (maggio 1528). La consacrazione episcopale fu rinviata, su dispensa papale, di un anno: in effetti fu consacrato solo nel febbraio 1533 da G.M. Giberti a Bologna (Pagano, p. 37 e nn. 121 s.). Lasciò la sua diocesi nell’incuria più totale per quasi un ventennio, fino a quando un suo pronipote, Cesare Gambara - cui fu rassegnata nel marzo 1548 -, ne iniziò la riforma.
Al G. Clemente VII assegnò invece (ottobre 1528) il compito di insidiare in tutti i modi il duca di Ferrara, con cui ogni precedente accordo era stato rotto. Il G. dapprima commissionò a Paolo Luzasco un agguato al duca Alfonso con 200 cavalleggeri sulla via di Modena (novembre 1528); quindi, fallito il colpo, nella primavera 1529 prese contatti con G. Pio, al fine di occupare Reggio. Ma il duca fu messo al corrente della trama e il capitano giustiziato.
Dopo la fine delle ostilità in Italia, nell’estate 1529, con la completa vittoria di Carlo V, il G. si insediò nel governo di Bologna. Qui lo raggiunsero degli emissari di Enrico VIII, il quale voleva un parere dei giuristi dello Studio favorevole alla dispensa matrimoniale. Ma il G., nonostante si professasse fedele al re, intervenne contro le sue tesi. Partecipò quindi agli incontri che si tennero nella città tra Carlo V e Clemente VII tra il dicembre 1529 e il marzo 153°, durante i quali fu ridisegnato l’assetto politico della penisola e stipulata una lega tra l’imperatore e i suoi antichi nemici, primo fra tutti Clemente VII. In questa occasione il G. e il fratello Brunoro, gentiluomo di corte di Carlo V, ottennero la revoca delle condanne comminate da Venezia a loro danno.
Una delle immediate conseguenze degli accordi di Bologna fu l’appoggio militare di Carlo V al papa contro la Repubblica di Firenze, ricostituita nel maggio 1527. Il G., verosimilmente per conto del pontefice, assistette alle ultime operazioni militari dell’ estate 1530 e, dopo la caduta della città, il 12 agosto, parve il candidato più probabile al governo provvisorio dello Stato. Ma nuovi impegni di più alto respiro lo portarono Oltralpe.
Durante il 1530 le inquietudini e i pericoli per la stabilità dell’Impero, originati dai movimenti religiosi di riforma in Germania, avevano spinto Carlo V a chiedere ripetutamente al pontefice la convocazione di un concilio generale, ultima alternativa alla repressione militare dell’eresia, dopo il fallimento del tentativo di conciliazione nella Dieta di Augusta (agosto 1530). Ma Clemente VII, fermo nella condanna delle nuove confessioni, era contrario all’idea di un concilio che entrasse nel merito delle divergenze. Cosi, fu stabilito che il G., gradito alla corte asburgica, dovesse rendere note all’imperatore le condizioni poste da Roma.
Il G. partì il 30 dic. 1530. Le istruzioni, redatte dal cardo Tommaso De Vio, contenevano alcune obiezioni di carattere teologico. A voce, poi, il papa aveva illustrato al G. i limiti precisi alla richiesta dell'imperatore, riguardo agli argomenti da trattare (solo le eresie e la lotta contro i Turchi, non la riforma della Chiesa), alla sede del concilio (una città italiana scelta dal pontefice), alla rappresentanza (diritto di voto solo a chi riconoscesse le costituzioni canoniche). Infine si ritenevano indispensabili sia la presenza di Carlo V per tutta la durata dei lavori sia una formale domanda di convocazione da parte dei riformati.
Il G., su cui alla corte asburgica erano peraltro giunte accuse di indegnità morale, incontrò l'imperatore il 17 genn. 1531 a Liegi e gli espose i termini del negoziato. Carlo V rese nota al G. (4 apr. 1531) una replica in cui, lasciando al pontefice il compito di superare le difficoltà, originate anche dal contesto internazionale, ribadiva la necessità di convocare un concilio, senza troppe limitazioni. Il G. fece solo qualche concessione di scarso rilievo e prima di partire, a Bruxelles, mise in guardia l'imperatore contro il pericolo che il concilio si dichiarasse superiore al pontefice. Consigliò altresì di aspettare almeno due anni, dimostrando come il vero scopo della sua missione fosse quello di prendere tempo.
Il G. tornò a Roma a metà maggio, con un donativo di 1500 ducati d'oro da parte di Carlo V. Gli fu offerta una nuova ambasceria in Inghilterra, ma rifiutò adducendo motivi di salute. Nell'estate del 1532 accompagnò invece il cardo Ippolito de' Medici, inviato a Ratisbona presso Ferdinando d'Asburgo, per consegnargli un sussidio di 20.000 ducati d'oro per la guerra contro gli Ottomani.
In questa occasione il G. cercò altresì gli appoggi necessari per la propria promozione a cardinale, cui ambiva fin dal 1529. Quindi nell'inverno seguente si trattenne a Venezia, per vincere l'opposizione della Repubblica al godimento di alcuni suoi benefici, che rendevano complessivamente circa 8000 ducati annui.
La stagione delle missioni diplomatiche era conclusa. Tuttavia il G. fu scelto per difficili incarichi di governo temporale. Nel marzo 1533 Clemente VII gli affidò il compito di ridurre all'obbedienza i Baglioni, antichi signori di Perugia che aspiravano ancora al dominio, fomentando disordini. Il G. agì energicamente, espugnando, in aprile, tutte le loro roccheforti nel contado. Alla morte di Clemente VII, nel settembre 1534, spettò altresì al G. l'onere di garantire la quiete della città di Roma durante il conclave, insieme col governatore, Bernardino Della Barba. Dopo l'elezione di Paolo III (13 ott. 1534) il G. fu ancora inviato a Perugia, sconvolta durante la sede vacante da nuove tensioni, per reggere il governo della città in attesa dell'arrivo del pontefice, che nel settembre 1535 la riportò, almeno per qualche tempo, all'ordine.
Ma gli interessi del G. erano a Roma e i suoi legami con papa Farnese (il fratello Brunoro aveva infatti sposato Virginia Pallavicini, vedova di Ranuccio, figlio di Paolo III) alimentavano la sua speranza di diventare cardinale. Il G. agiva tanto scopertamente che non sfuggì a P. Giovio una cena offerta al papa «a colpi di pavoncini indiani, pappagali e fenicotteri per incappar le frange» (Lettere, I, p. 162, lettera a R. Pio di Carpi, 20 ag. 1535).
Anche il suo attivismo durante il soggiorno di Carlo V a Roma - nell'aprile 1536 parve un mezzo per guadagnare il favore imperiale allo stesso fine.
Paolo III rimandava, ma considerava il G., passato già dal 1533 nei ranghi dell'amministrazione come chierico della Camera apostolica, persona della massima fiducia. Nel 1537lo incaricò di dirimere una questione di confini a Montalto, infeudata nel 1535 a Pierluigi Farnese. Poi, quando il pontefice si trasferì a Nizza per presiedere all'incontro tra Carlo V e Francesco I, nel quale si stabilì una tregua alla guerra riaccesasi nel 1536, il G. tornò a sovrintendere al governo di Roma (aprile-luglio 1538).
Nello stesso tomo d'anni il G. entrò nel Consiglio segreto del papa. Era però anche molto legato all'imperatore, dal quale riceveva una ricca pensione annua (circa 1000 scudi). Così, nell'autunno 1539, in un momento assai difficile dei rapporti tra Paolo III e Carlo V, insospettito dall'ambiguo contegno politico del pontefice, il G. indirizzò a quest'ultimo un memoriale in cui delineava chiaramente la necessità di «congiungersi con l'Imperatore, et con ogni via cercare di placarlo et di unirsi con lui» (Bibl. apostolica Vaticana, Barb. lat. 5303, C. 135r). In questo modo poteva essere assicurato il precario ordine interno dello Stato della Chiesa e scongiurare il pericolo di un attacco all'autorità pontificia da parte del concilio (convocato nel 1536, dopo le ennesime pressioni di Carlo, e sospeso nel giugno 1539). Soprattutto, riguardo al consolidamento della famiglia Farnese, obiettivo primario del papa, il G. sosteneva di non vedere «dove per ogni tempo questa casa Ill.ma si possa meglio appoggiare che a S. M.tà» (ibid., c. 138r).
L'accorta collocazione del G. fra Paolo m e l'imperatore gli valse, nel dicembre 1539, la promozione cardinalizia: infatti, per superare le difficoltà originate dalla sua trascorsa condotta di vita, intervennero Carlo V e i figli del papa, Pierluigi e Costanza Farnese. Per lo stesso motivo il G. fu chiamato a far parte della commissione di cardinali che accompagnò il papa a Lucca all'incontro con l'imperatore (settembre 1541), durante il quale si trattò, senza esiti di particolare rilievo, del concilio e della tesa situazione tra Francia e Impero, a un passo dalla guerra.
Nel gennaio 1542 Paolo III affidò al G. il governo di Parma e Piacenza, col titolo di legato di Lombardia: a dispetto delle proteste dei Francesi, il G., amico personale di Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto e governatore di Milano, sembrava il più adatto a proteggere i territori padani della Chiesa, di nuovo a rischio per l'imminente ripresa dello scontro tra Francia e Impero.
Difatti il G. non tardò a dare notizia a Roma (poco prima che si aprissero le ostilità nell'estate 1542) di alcuni progetti maturati in ambienti filofrancesi per impadronirsi di Parma o Piacenza. Il G. vedeva il rischio di sommosse anche a Ravenna, ad Ancona e a Bologna, dove l'inquieta nobiltà, simpatizzante con la Francia, poteva facilmente operare un colpo di mano. La corte di Roma provvide inviando a Parma rinforzi. Nel contempo, sul piano interno, il G. cercò di opporsi a quella parte della nobiltà feudale passata alla fazione francese, che rischiava di attirare nei territori della Chiesa gli eserciti imperiali. Il G. giunse addirittura a ipotizzare la revoca delle concessioni in feudo, ma la prudenza consigliò di non procedere oltre. Peraltro l'azione antisignorile del G. si dirigeva anche contro i nobili di parte imperiale, dai quali avrebbe preteso la consegna delle loro fortezze.
Fino a quando non fu firmata la pace di Crépy (settembre 1544), il G. continuò a vigilare sui rischi di invasione della Legazione. Quindi tornò a Roma dove, insieme con Apollonio Filareto, segretario di Pierluigi Famese, si adoperò per l'investitura di Parma e Piacenza allo stesso Pierluigi.
Il papa, infatti, pur deciso ad affidare a uno della propria famiglia quegli importanti territori, era ancora molto titubante, sia per la preferenza accordata da Carlo V a Ottavio Farnese, figlio di Pierluigi, sia per la netta opposizione del Collegio a una mossa che appariva rispondere a criteri di spregiudicato nepotismo. L'azione di persuasione del G. presso il pontefice, più serrata a partire dall'aprile 1545, fu coronata da successo e Pierluigi ebbe l'investitura del Ducato di Parma e Piacenza, dopo un movimentato concistoro (agosto 1545).
La posizione del G. alla corte imperiale si fece delicata, poiché Carlo V non approvò la creazione del Ducato. Alcune richieste di nuove pensioni da parte del G., nel gennaio 1546, rimasero così inascoltate. Altresì, il G. ricevette dal pontefice nell'agosto successivo la scomoda commissione di avvicinare i diplomatici imperiali a Roma per sondare la possibilità di una sospensione del concilio, aperto a Trento alla fine del 1545, a causa dei pericoli originati dalla guerra di Carlo V contro i principi tedeschi protestanti. La reazione fu ovviamente negativa.
L'opera del G. tornò tuttavia preziosa all'imperatore dopo l'assassinio di Pierluigi Farnese (10 sett. 1547) per mano di congiurati che avevano avuto l'appoggio del governatore di Milano, Ferrante Gonzaga, e dello stesso Carlo V: il G. patrocinò in concistoro la causa dell'imperatore, respingendo vivamente l'ipotesi di una sua diretta responsabilità.
Il favore del G. presso il papa subì certamente una flessione per il suo palese schieramento. Paolo III si avvicinava nel contempo alla Francia, meditando di formare una lega antimperiale insieme con Venezia. Tuttavia il papa non rinunciò a servirsi del G. per spingere Carlo V a restituire Piacenza, occupata dalle truppe del Gonzaga.
Il G. scrisse più volte all'imperatore, tra la fine del 1547 e il settembre 1548, invitandolo a riconoscere la successione di Ottavio Farnese, suo genero, e ad abbandonare la città. Era però una trattativa difficile, onerosa per il G., stanco e malato. Le sue ultime occupazioni furono la distribuzione dei benefici vacati in seguito alla morte del cardo Gregorio Cortese, di cui fu esecutore testamentario.
Mori a Roma il 14 febbr. 1549 (nelle fonti la data è oscillante), dopo aver ricevuto dal papa la facultas testandi e aver lasciato alla famiglia rendite per un totale di 10.000 ducati d'oro.
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