DELL'ORTO, Uberto
Figlio di Giuseppe e di Rosalinda Gavazzi, nacque a Milano il 6 genn. 1848, in un'agiata famiglia milanese; rimase orfano giovanissimo e fu allevato dagli zii materni che lo mandarono a studiare nel collegio "Longhi" a Tremezzol sul lago di Como. Si iscrisse poi all'università di Pavia, che lasciò per quella di Bologna, dove si laureò in ingegneria nel 1871. Non si dedicò però alla sua professione, e preferì entrare nello studio del paesaggista G. B. Lelli per imparare la tecnica pittorica. Successivamente fu allievo di E. Pagliano, autore di soggetti storici molto apprezzati a quel tempo e ritrattista legato all'ambiente accademico; nel frattempo frequentò la scuola serale di nudo presso l'accademia di Brera e quella di costume presso la Famiglia artistica. Nel 1880 apri uno studio in via Agnello e qui lavorò alacremente, dedicandosi soprattutto al paesaggio e al ritratto. Glì anni dall'80 al '90 furono i più produttivi per l'artista, che partecipò con numerosi dipinti alle mostre di Brera e a quelle della Permanente. Poi si ammalò e pochi anni dopo, appena quarantasettenne, morì a Milano il 29 nov. 1895.
Prima di essere colpito dalla malattia, era solito interrompere il lavoro in studio per fare lunghi viaggi in località marine e montane per trovare nuovi spunti e per mettere a fuoco le sue impressioni, confrontandole con la realtà. Si recò perfino in Egitto, attirato dall'idea di studiare un ambiente esotico pieno di luci e colori insolitamente vivi e squillanti. Grazie a questa sua appassionata analisi del vero e al tenaci e ripetuti tentativi di esprimere sulla tela le sensazioni che quella osservazione provocava in lui, pur non arrivando alla scomposizione dei toni degli impressionisti o a soluzioni vicine a quelle dei primi divisionisti lombardi, riuscì a rendere la sua pittura ricca di vibrazioni luminose, semplificando i volumi e riducendo moltissimo gli effetti chiaroscurali. Fra i suoi numerosi paesaggi, i migliori sono quelli lacustri, nei quali riuscì a infondere sensaziopi ed emozioni che risalivano alla sua infanzia. Ma anche le marine (Capri, Riviera ligure, ecc.) e i soggetti montani (Gignese, Maloia, Mottarone, ecc.) sono degni di nota. Nel generale prevalere di toni grigi e freddi, compaiono spesso macchie di colore intenso (un cespuglio fiorito, un ombrello, una veste di contadina, ecc.) e dovunque una luce viva e abbagliante. Per queste caratteristiche egli è a buon diritto ricordato fra i naturalisti lombardi del secondo Ottocento, che, a partire da Mosè Bianchi, abbandonarono le chiuse aule accademiche e uscirono all'aperto per studiare direttamente la natura, e costituirono una corrente moderatamente ma autenticamente verista che andò ad affiancarsi, seppure in tono minore sul piano della qualità artistica, alle contemporanee esperienze napoletane e toscane.
Nei ritratti, meno numerosi dei paesaggi, usò una tecnica più rifinita e accurata, sicuramente più gradita ai suoi committenti; solo in alcuni si nota una minore attenzione per la somiglianza e per i particolari dell'abito e dell'ambiente e una leggera eco delle opere di D. Ranzoni e T. Cremona. Nelle incisioni, non molto numerose, prevalgono i soggetti di genere e i paesaggi marini: per la sensibilità ai problemi della luce, esse si avvicinano alle esperienze degli scapigliati, e in particolare alle opere di L. Conconi. Si cimentò anche nel genere ornamentale, dipingendo a fresco una lunetta per la Società patriottica, raffigurante Cerere, nella quale si nota l'influsso del suo maestro E. Pagliano.
Partecipò a numerose esposizioni nazionali e internazionali e ottenne vari riconoscimenti sia in Italia sia all'estero; fu socio onorario della R. Accademia di Brera nel 1885 e consigliere accademico nel 1895. Nel 1896 la Permanente gli dedicò una mostra postuma, con ben 154 dipinti. Fra gli acquirenti dei suoi quadri figurano, oltre a numerose famiglie dell'aristocrazia e dell'alta borghesia lombarde, anche Vittorio Emanuele II e il ministero della Pubblica Istruzione. Ciò nonostante fu presto dimenticato dalla critica e venne rivalutato solo dopo lo studio di R. Calzini (1921), tanto è vero che alla Biennale di Venezia del 1922, figurava con ben tredici opere (cfr. catal., pp. 53 ss.; G. Nicodemi, in Rassegna d'arte, XXII[1922], p. 241; F. Sapori, in Emporium, LV [1922], pp. 324, 326). 1 suoi dipinti più importanti sono: Il giogo del San Bernardino, della Gall. naz. d'arte moderna di Roma e Artiglieria da montagna, della Gall. d'arte moderna di Milano. Un altro dipinto, pure conservato nella Gall. d'arte moderna di Milano e intitolato In giardino, porta la dedica al maestro Pagliano. La maggior parte dei suoi quadri sono nella raccolta degli eredi, alcuni altri in collezioni private lombarde; sappiamo che egli era molto geloso delle sue opere, che non le vendeva volentieri e che spesso le riacquistava.
Fonti e Bibl.: Necrol. in Natura e arte, VI (1895-96), 13; L'Arte illustrata, XIV (1896), p. 15; Veglie ital., I (1896), p. 46; Esposizione postuma delle opere di U. D. ..., Milano 1896; A. De Gubernatis, Diz. d. artisti ital. viventi, Firenze 1889, pp. 155 s .;[V. Bignami] La pittura lombarda del sec. XIX, Milano 1900, p. 78;R. Calzini, U. D., Roma 1921;E. Piceni-M. Cinotti, La pittura a Milano dal 1815 al 1915, in Storia di Milano, XV, Milano 1962, pp. 543 s.; E. Piceni-M. Monteverdi, Pittura lombarda dell'Ottocento, Milano 1969, p. 75; Milano 70/70, I, Milano 1970, p. 174; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, XXVI, p. 67 (sub voce Orto, Uberto dell').