GANDOLFI, Ubaldo
Figlio di Giuseppe Antonio e di Francesca Maria Baldoni nacque il 14 ott. 1728 a San Matteo della Decima (San Giovanni in Persiceto presso Bologna). Dal padre, di buona condizione sociale, gli fu concesso di trasferirsi a Bologna poco più che decenne per avviarsi allo studio del disegno. Ebbe come maestro F. Torelli sino alla morte di questo, nel 1748, anno in cui il G. licenziò i suoi primi dipinti, due ovati per la collegiata di San Giovanni in Persiceto (per questi e per le altre opere che si citeranno si veda Biagi Maino, 1990), e passò alla scuola di E. Graziani il Giovane. Nel contempo, apprendendo in bottega secondo la prassi i primi rudimenti di pratica, cominciò a frequentare l'Accademia Clementina di pittura, scultura e architettura, in quegli anni rifondata per volere di Benedetto XIV, e si aggiudicò, nel 1746, l'ambito premio Fiori assegnato per la frequenza e la qualità di un disegno dal nudo (ibid., p. 21). Il suo percorso d'artista prese dunque avvio nell'alveo di una grande tradizione che nella solida pittura di P. Tibaldi, dei Carracci, soprattutto, e del Guercino trova la linfa prima, sostanziata dall'attenzione alle più aggiornate teorie e pratiche artistiche che gli era concesso accostare grazie alla rinnovata vivacità culturale dell'istituzione. La pratica assidua allo studio dal vero, del modello in posa, destinata a divenire una costante del suo costume mentale, fu impostata dall'insegnamento accademico di E. Lelli, il notomista indicato dalle fonti quale suo terzo maestro.
Durante gli anni Cinquanta il G., completando il percorso di studi, si affermò sovente ai concorsi clementini che prevedevano prove di grafica; e A.R. Mengs, in visita all'Accademia, fece acquisto di suoi disegni lodandone l'autore, che divenne, ricorda C. Lodi, principe della stessa, esempio per i "giovani compagni" (ibid., p. 26).
A queste date il G. già affiancava la pratica disegnativa a quella dell'incisione, secondo le fonti le quali ricordano altre sue pitture a tutt'oggi ignote, al pari delle sue stampe giovanili; restano invece, in più che precario stato di conservazione, le decorazioni dei soffitti di tre sale al pianterreno del palazzo del conte C. Malvasia (edificio lodato da F. Algarotti in apertura del Saggio sopra l'architettura del 1756), Giove, Marte e Apollocon putti (la figura migliore nell'esibito studio anatomico) inscritte nelle quadrature di F. Minozzi, eseguite tra il 1756 e il 1758. È dell'anno successivo la prima affermazione pubblica, la pala con la Vergine Assunta e santi per Castel San Pietro, preceduta dal bozzetto degli Uffizi. In queste opere come nei ritratti eseguiti per la famiglia del suo mecenate, il conte G. Casali, nel medesimo 1759, si registra la volontà di superare fragilità e vaghezze della pittura rococò dei professori della Clementina (dai quali ancora il G. mutua il tono del colore giocato su accordi squillanti che ricordano, per esempio, la tavolozza di V. Bigari), per proporre una cultura di ascendenza classicista (Volpe, p. 98).
Nei ritratti citati (ai quali si aggiunge una coeva tela con Dama con cagnolino di collezione privata bolognese, in cui il G. si misura con la raffinata ritrattistica di L. Crespi), di G. e F. Casali e di una monaca del casato, si rileva, al di là di certa fragilità d'impostazione, la grande capacità di resa nel particolare - dei libri sciorinati, della spada in prospettiva, del teschio - già matura e concreta, che sarà tra le caratteristiche più apprezzate della pittura del G. e lo condurrà anche a provarsi con il genere della natura morta, nelle smarrite "merende con frutti" citate dalle fonti e nella magnifica Piccola colazione con fiasco, pane e cartoccio di formaggio di collezione privata bergamasca, della fine del decennio successivo. Nella pala citata, che deriva atteggiamenti e gesti dei personaggi dai modelli di G. Reni, Ludovico e Annibale Carracci, già è evidente in nuce quel fare grande e appassionato che sarà delle opere della maturità e che sperimenta nel primo lustro del settimo decennio nelle molte tele che gli furono richieste, per la devozione privata o per gli ordini religiosi (il S. Francesco di Sales che fu del conte Casali e il grande ovato con Miracolo di s. Filippo Benizzi eseguito entro il 1764 per i serviti di Bologna: entrambi in collezioni private); dipinti che testimoniano della sua fama che cresceva sicura a seguito, anche, della nomina ad accademico effettivo nel 1760.
A quella data, il cursus studiorum era stato completato attraverso brevi viaggi di studio che toccarono "Firenze, Venezia e altre famose scuole", come scrisse l'Oretti (Biagi Maino, 1990, p. 66 e 1995: il contatto con la cultura veneta avvenne anche per tramite del fratello Gaetano, che nel 1760 soggiornò a Venezia). Al G., fertile apparatore di dipinti per il clero anche del contado, affermato presso il coté politico e culturale bolognese, le cui opere saranno richieste anche dall'imperatrice di Russia Caterina II (Id., 1990, p. 14), i colleghi della Clementina affidarono, nel 1766, la pittura della XI cappella del portico di S. Luca, l'affresco con la Resurrezione di Cristo, opera esemplare del fare magniloquente e fervido del G., di suggestiva e coinvolgente teatralità (per il bozzetto di pinacoteca: ibid., p. 254; per la luminosa teletta che a uso del collezionismo il G. replicò da questo: Biagi Maino, 1997, p. 419). L'attività di frescante del G., misconosciuta anche dalla critica novecentesca più avveduta sino a tempi recentissimi (Roli, 1977; Volpe), fu molto importante per la cultura bolognese (i suoi modelli saranno impellenti ai pittori clementini sin entro l'Ottocento); per la nobiltà senatoria seppe figurare antichi e nuovi miti, come l'Aurora nel soffitto e le Quattro Stagioni rappresentate da giochi di puttini in una saletta di palazzo Segni Facchini. Nella stessa sede il G. eseguì numerose altre pitture che qui si rendono note.
Dipinse due dei Fatti di Ercole sulle pareti di una stanza; entro un riquadro a stella, nell'alcova, due putti che porgono papaveri; in un salone, Paride con il pomo e le tre dee, effigiate nelle sovrapporte dinanzi a paesaggi elusivi, che preannunciano le mirabili scene d'Arcadia dei tardi affreschi della Ca' Granda dei Malvezzi. Anche gli affreschi di palazzo Segni furono una commessa legata ai Malvezzi; l'edificio fu infatti riattato dal 1762 per le nozze con il conte L. Segni di Gertrude, nipote del cardinale V. Malvezzi, del quale il G. eseguì il ritratto. Probabilmente all'epoca, secondo quanto si evince dalla cifra stilistica dell'autore, solo la stanza dell'Aurora era compiuta e vanno scalate nel tempo le altre operazioni citate e ancora le due sovrapporte con concerto di putti e una piccola ninfa dormiente sorpresa da un satiretto; e soprattutto, magnifiche, le Parche, in tre sfondati nella galleria, Cloto con la rocca, Lachesi con il fuso e, di terribile immanenza, Atropo che taglia il filo.
Al 1769 si datano gli affreschi per il conte F. Bentivoglio, che in occasione del suo gonfalonierato volle decorate le sale al pianterreno del suo palazzo, "la bella Galleria dipinta a chiaro oscuro da Antonio Bonetti, le figure di Ubaldo Gandolfi, e segnatamente un Sagrifizio" (Oretti, Cronica, c. 40). Il Sacrificio a Minerva, un sopracamino, era noto (Biagi Maino, 1990, p. 258); la galleria, nella quale il pittore figurò storie della mitologia, è divenuta visibile solo da quando questa e altre stanze sono state adibite, non senza rischi per la conservazione, a pubblico esercizio (1997). In questa operazione nuoce al G. la compagnia di un quadraturista di modestissimo talento, che limita l'impeto della sua fantasia. Diverso sarà l'esito nell'intervento eseguito nel primo lustro degli anni Settanta in palazzo Bovio Silvestri, più ancora che nello sfondato con Apollo e Crono della sala al pianterreno, dipinta con D. Zanotti, nelle due del primo piano alla cui resa ebbe per compagno il dotatissimo S. Barozzi, attivo anche con il fratello del G., Gaetano, grande artista con il quale il G. fu costretto a misurarsi. Ma l'estro del G. più solidamente legato al sedimento del luogo, quella sua pittura concreta e soda nella resa dei corpi, dei personaggi, conduce l'artista a esiti superbi, per esempio, nelle favole profane: si vedano le tele dipinte nel 1770 per il gonfaloniere, Andromeda e Perseo e Diana e Endimione delle Collezioni comunali d'arte, le sei storie mitologiche eseguite qualche tempo dopo per i Marescalchi (Biagi Maino, 1993, p. 50), il Mercurio e Argo di Lund e un Bacco e Arianna, di collezione privata, che si aggiunge al suo catalogo, nel quale il ricco panneggio della veste della donna è un omaggio, nel disegno frammentato e nel colore, all'arte di D. Creti.
Fu comunque nella pittura sacra che si effuse largo e generoso l'ingegno del G., al servizio di quella religione alla quale era stato mosso, in gioventù, anche dalle missioni popolari di s. Leonardo da Porto Maurizio, la cui dialettica volta alla conversione attraverso un forte pathos e il richiamo ai valori più concreti della cristianità sembra essere il substrato per le tante eloquenti pale d'altare che il G. dipinse sicuro e forte del suo talento negli ultimi quindici anni della vita. Sono il S. Vincenzo Ferreri che si rivolge al Crocifisso (Budrio, chiesa di S. Domenico) e il patetico Beato Filippo Bertoni (Bologna, chiesa di S. Maria dei Servi), fulcro visivo della celebrazione della festa del beato del 1765, per la cui resa il pittore, "il quale in qualunque sua Operazione sempre applica molto", come scrisse il cronista dell'Ordine dei serviti, non tralasciò "fatica veruna per servir bene", poiché "lavora più per riputazione che per interesse" (Biagi Maino, 1990, p. 254). Con queste tele crebbe la fama del pittore: su operazioni da gran teatro barocco come la pala di Medicina (chiesa di S. Mamante) col Cristo in gloria e santi e come il S. Francesco che riceve le stimmate (Milano, Brera), composizione di appassionata retorica nei gesti, nei volti dei personaggi, nello splendido disegno delle vesti, delle ali dell'angelo che conforta il protagonista della sacra rappresentazione, riverberata dal tono luminoso, caldo, acceso della tavolozza. Conclude il fervidissimo decennio la grande tela di Imola (chiesa di S. Agostino), S. Nicola da Tolentino predica alle turbe, preceduta da un bozzetto (Pinacoteca civica) dalla resa matericamente sostanziata che gli fu compensata con "due merlettoni di Francia… una cassa di Sangiovese ed una sporta di cotechini" (ibid., p. 74); il dipinto è una colta e insieme amorosa meditazione sui grandi precedenti della cultura bolognese, sostanziata dall'attenzione alle poetiche artistiche coeve, romana, francese, veneziana. Attento alla resa degli attori del dramma e dei particolari più raffinati, nella descrizione dei panni, dei profili perduti, delle mani delineate secondo un ductus magistrale, riesce a riscattare, in virtù delle sue capacità d'esecuzione, anche opere di troppo prevedibile retorica, quali la pala di S. Benedetto, resa secondo un tono del colore morbido e sensuoso, di grande suggestione, e le due tele con le sante Costanza e Francesca di Chantal (entrambe a Bologna, Conservatorio del Baraccano), del 1768. Si confronta col Reni nella grande pala di Vigorso con i Ss. Marco, Sebastiano e Antonio e con i Carracci nel sontuoso ex voto di S. Domenico, preceduto, così come tutti i suoi dipinti, da più schizzi e da un disegno (Parigi, Louvre). Quello della grafica è un altro capitolo d'eccellenza del catalogo del G.; i suoi fogli furono richiestissimi dal collezionismo sin dal Settecento (i disegni sono nelle principali raccolte pubbliche internazionali) e sono stati oggetto di studi approfonditi.
Il G. fu uno dei più grandi disegnatori bolognesi del secolo, abile a delineare, nelle sanguigne, nei carboncini, negli schizzi a penna "un chiaro graticcio segnico, che sagomando in continuità forma accanto a forma, definisce un incastro strutturante di precisa consistenza plastica" (Roli, 1981, p. XLII). Sempre più disinvolto nel prosieguo della ricerca si mostra all'elaborazione delle forme, sino alla libertà del segno velocissimo e di sintesi di disegni quali la Madonna e santi di Berlino (Staatliche Museen), dal chiaroscuro fortemente modulato dall'acquarellatura, o l'Immacolata di Brera, che precede la splendente pala di Cingoli (chiesa di S. Spirito) dei tardi anni Settanta. Adottò, invece, un tratto morbido e sensuoso alla definizione dei rari quanto felici nudi femminili, delle bellissime scene agresti, dei racconti di vita quotidiana (Darmstadt, Hessisches Landesmuseum, inv. AE 1591), disegni coltissimi nei quali si misura con il precedente di A. Carracci e del Guercino, artista molto amato cui offrì il più alto omaggio nell'Annunciazione dipinto concepito per la patria di questo, Cento (Pinacoteca civica). Così come operando per la chiesa dei cappuccini di Castelbolognese, guardò al Reni e alla sua pala eseguita per l'Ordine, quella di Faenza. Pensando a Ludovico Carracci, dipinse il S. Gaetano da Thiene con il Bambino (Bologna, collezione privata), del quale Volpe (p. 101) sottolineava la "purezza di sintesi stilistica" che è la risposta di un pittore "cristianissimo" (e si veda anche il S. Francesco del Baraccano, capolavoro al suo catalogo), la più convincente, all'evoluzione in atto nell'arte europea, che il G. ben conosce; e quasi guida, in quel particolarissimo capitolo che è costituito dagli studi di carattere, le "teste al naturale", secondo Oretti (Biagi Maino, 1990, p. 84).
Tutt'altro che alieno dal piegarsi alle esigenze della ritrattistica come si credeva (e lo dimostra, accanto agli altri ritratti già noti, ai due fogli, cioè, della Pinacoteca bolognese con l'effigie di G. Casali, inv. 1823, e di F.M. Zanotti, inv. 1824, il ritratto di Don G.G. Vegezzi firmato e datato all'aprile del 1766 in collezione privata torinese, risposta esemplare alle sollecitazioni della pittura d'Oltralpe) il G. si produsse con feracità in più e più tele effigiando giovinette, bambini, garzoni di bottega, uomini e donne ritratti dal naturale, vecchi dal sembiante intensamente vero. L'attenzione alla resa dei volti non è solo memore degli insegnamenti accademici di C. Le Brun sulla figurazione delle passioni, ma soprattutto non sembra disattenta alle trattazioni sulla fisiognomica di J.C. Lavater, così apprezzate nell'ottavo decennio del secolo, che registra il maggior numero di opere di questo genere al catalogo del Gandolfi. È la profondità del sentimento poetico del pittore che offre vita e vigore a queste tante tele che gli si attribuiscono, che rende credibili e coinvolgenti la Fanciulla con collana di corallo, il Busto d'uomo in profilo, la Donna anziana con scialle, la Donna velata, la Bambina con abito bianco (Biagi Maino, 1990, nn. 92, 94 s., 106, 123), la Giovane donna del Louvre, magnifica nella definizione, attraverso il gioco di ombre e luci, del profilo elegante. Il fervore della ricerca si risolse, ovviamente, nel crescere delle operazioni e nell'impegno sempre più serrato per la Clementina, che presiedette nel 1772 e presso la quale ricoperse più volte l'incarico di direttore di figura ai corsi (Farneti), offrendo inoltre alla stessa, attraverso l'oculata scelta dei membri da eleggere nella classe d'onore, la possibilità di intrecciare fruttuosi rapporti culturali. Nell'ultimo decennio della sua vita dipinse per i cappuccini, per gli osservanti, per i certosini, per i celestini (Biagi Maino, 1990, nn. 146-148, 151, 155), in un brevissimo torno di anni, allorché offriva, con l'Educazione della Vergine di San Giovanni in Persiceto, un saggio di qualità superba dell'evoluzione, sempre perseguita, dello stile, in linea con i migliori raggiungimenti della pittura oltramontana e fervida di suggestioni, nell'enfasi coerente dei gesti e delle pose dei personaggi e nel risaltato impianto luministico. Per gli antichi committenti Malvezzi eseguì il superbo ciclo di affreschi della Ca' Granda, con la Scelta di Ercole e la sua Apoteosi contrappuntate da giochi di puttini, da figure quasi scomposte assise sulla quadratura di D. Zanotti, irridenti il mito; modellò per la chiesa di S. Giuliano le due più belle e risentite statue di tutto il Settecento bolognese (Riccomini), ma non poté condurre a compimento la prestigiosa operazione alla quale era stato chiamato da S. Barozzi, la decorazione della cupola e dell'invaso architettonico del tempio di S. Vitale a Ravenna. Fu coinvolto nell'ottobre del 1780; iniziò lo studio della composizione, secondo quanto documentano schizzi, disegni e un modelletto a olio (Biagi Maino, 1997) che resta a testimonianza della chiarezza della sua invenzione, che nella scelta compositiva torna a un modello della gioventù, l'arte di G.B. Piazzetta, appoggiandosi per la definizione del soggetto alle osservazioni d'iconografia offertegli dal letterato L.M. Montefani.
Il G. morì per febbri malariche il 24 luglio 1781 a Ravenna, dove da poco si era trasferito.
Ebbe molti seguaci (lo stesso F. Giani gli deve non poco), ma pochi allievi. Il collezionismo è sempre stato attento all'opera del G.; lo dimostra anche il fatto che ancora nel Settecento dai suoi bozzetti furono eseguite copie, tra le quali una in Francia, l'altra in Inghilterra ed erroneamente assegnata al G. (Cazort, 1993: l'originale era presso la galleria Derek Jones di Londra), quelle dalle telette già dell'Odorici, Cristo e la cananea, Cristo e l'adultera. Anche il bozzetto per la pala di Vercelli fu replicato, e così quello dell'Aurora di collezione Molinari Pradelli; a un'evidente fortuna presso la committenza non corrispose altrettanta fortuna critica. Allo stato attuale degli studi, si ricorda infatti che il G., pressoché ignorato nell'Ottocento, è stato compreso sostanzialmente solo da Longhi (1935); saranno il documentato intervento di Roli (1977) e soprattutto lo studio di Volpe a offrire utili suggestioni al recente intervento (Biagi Maino, 1990) che, nel ripercorrere la sua intera parabola artistica, gli restituisce il ruolo nell'ambito della pittura europea.
Dal matrimonio del G. con Rosa Spisani, ritratta in un dipinto dell'Ashmolean Museum (Oxford), nacque nel 1768 Giovanni Battista, unico dei cinque suoi figli che si provò a seguire le orme paterne. Frequentò l'Accademia, e nel primo volume del Catalogo de' premiati (Bologna, Accademia di belle arti), che custodisce gli studi dal naturale che si aggiudicarono il premio Fiori, sono conservate tre accademie di nudo che mostrano l'assiduo studio sui modelli del padre e più ancora, per certa morbidezza di dettato, dello zio Gaetano Gandolfi. Vinse il premio nel 1787, 1789, 1790; della sua carriera in Accademia altro non si conosce. Fu ferace inventore di immagini sacre approntate per i cosiddetti "sepolcri", allestimenti effimeri che alludevano visivamente ai sacri misteri nella settimana pasquale, nel 1789, l'anno successivo e il seguente ancora; ma nulla resta, se non le descrizioni raccolte da G. Giordani (Biagi Maino, 1990, p. 94), a documentare tale sua attività, che suscitò la "grande aspettazione" e la "grande speranza" di quanti auspicavano di veder risorgere attraverso il suo pennello l'arte del padre. Non fu così, l'unica pittura che a tutt'oggi gli si riconosce, la decorazione con la Gloria di Maria della cupola della cappella della Vergine di Gerusalemme di S. Francesco di Bagnacavallo, firmata e datata al 1798 (Riccomini; Biagi Maino, 1990, fig. LIV), mostra l'attenta meditazione sugli studi apprestati dal padre per S. Vitale di Ravenna, che cerca di contemperare con il modello della Gloria dipinta da Gaetano per S. Maria della Vita di Bologna: ma gli esiti di tante attenzioni sono raggelati dalla necessità, a evidenza impellente, di adeguare il suo stile, che i disegni mostrano fragile quanto sensuoso, alle novità di dettato che la pittura coeva gli offriva a referente, con esiti di qualità modesta. Operò anche per gli agostiniani di Rimini, secondo quanto risulta da documenti del 1791 (ibid.); non si conosce la data esatta della morte.
Il fratello del G. Rinaldo nacque a Bologna il 24 luglio 1718. Probabilmente con l'aiuto del G. e di Gaetano fu eletto nel 1767 tra gli accademici del numero, presso la Clementina, unico nella "cattegoria de' fonditori" (Piò, c. 326; Biagi Maino, 1990, p. 74). Membro della Compagnia dei fabbri, Rinaldo era stato avviato alla pratica della fabbricazione di strumenti di ingegneria e dei meccanismi di precisione da C. Fiorini, ed ebbe per maestro anche D. Fornasini (Bentini). Il suo esordio si riconduce all'esecuzione per l'Istituto delle scienze di un orologio a pendolo di precisione per la camera dell'Astronomia, nel 1750, una commessa di pregio che, stanti i risultati, gli concesse di accedere a numerose altre imprese tra le quali la più celebre fu quella della "machina dell'orologio pubblico", che egli fece e firmò nel 1773, oggetto (secondo Piò) di ingiuste critiche. Alla X Biennale d'arte antica di Bologna, accanto a tre quadranti ipoteticamente assegnati a Rinaldo, era esposto l'orologio firmato di S. Maria della Carità. Nel catalogo si ricorda anche un quartetto di campane, perdute, ad attestare la versatilità di Rinaldo, capace anche e soprattutto come bombardiere sin dal 1751, anno in cui entrò a fare parte del corpo. Tra il 1774 e il 1776 eseguì, dietro commissione dell'assunteria di Milizia del Senato bolognese e avendo per collaboratore L. Fabri, dodici pezzi con ornamenti in bronzo: per questi i fratelli gli fornirono alcune teste scolpite da fondere in bronzo (Bianchi, p. 60); molti disegni del G. o di Gaetano per oggetti da realizzare in metallo erano destinati alla sua bottega (Biagi Maino, 1990, p. 93). Un cannone da campagna, firmato "Rainaldus Gandulfus fec.", si trova presso le raccolte museali dell'Università di Bologna (Farinelli). Ma l'opera che gli ha restituito fama è il restauro della fontana del Nettuno del Giambologna, sul cui stato di precarietà egli stese una memoria pubblicata a Bologna nel 1762 (Stato dei difetti… nella statua del Nettuno…): si veda l'elogio di J.A. Calvi, che espresse il plauso dell'Istituto e del Senato bolognese (Discoprendosi nella pubblica piazza il Nettuno…, Bologna 1762); la critica moderna ha riconosciuto la validità del suo intervento (Cavalli). Rinaldo morì a Bologna il 29 febbr. 1780.
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