PERUZZI, Ubaldino
PERUZZI, Ubaldino. – Nacque a Firenze il 2 aprile 1822, primo dei due figli di Vincenzo e di Enrichetta Torrigiani, appartenente a una delle famiglie aristocratiche fiorentine più facoltose dell’epoca.
Il ramo dei Peruzzi da cui discendeva il padre, imparentato direttamente con i Medici, rappresentava una delle più antiche casate del patriziato cittadino. La perdita nel corso del tempo della loro ricchezza non si era tradotta in una contestuale riduzione di influenza nella vita pubblica, fortificata da vincoli di parentela con altre illustri famiglie, fra le quali i Ricasoli.
Peruzzi cominciò gli studi nel 1828 in una scuola privata e li proseguì nel collegio Cicognini di Prato. Nel 1837 ottenne dal granduca l’ammissione al collegio Tolomei di Siena, luogo di formazione per molti figli della nobiltà toscana, godendo del privilegio della laurea in tre anni. Nel 1840 si addottorò in legge all’Università di Siena, ma dopo la laurea, dietro forti pressioni del padre e dei parenti più stretti, fu inviato a Parigi dallo zio paterno Simone, incaricato d’affari presso il re di Francia, per frequentare la prestigiosa École des mines, dove nel maggio 1843 conseguì il diploma di ingegnere minerario.
La formazione di taglio non tradizionale con cui tornò a Firenze, sostenuta dalla convinzione familiare che potesse risultare la più utile a consentirgli di vivere in modo conveniente al suo grado, era il sintomo di un rinnovato interesse per le miniere toscane e della disponibilità di parte del ceto dirigente a sondare le potenzialità economiche del progresso scientifico con nuove opzioni di investimento da affiancare alla rendita agricola. Lo stesso Vincenzo si era mostrato partecipe di tale clima diversificando il suo patrimonio con l’ingresso nelle prime società anonime promosse a partire da metà degli anni Trenta da intraprendenti esponenti dell’aristocrazia fondiaria e finanziaria che avevano investito soprattutto in settori nuovi come quello ferroviario, assicurativo o appunto minerario.
Durante il soggiorno in Francia, anche Peruzzi era apparso assai più colpito dai grandi lavori pubblici che scandivano le trasformazioni industriali piuttosto che dalle vicende politiche transalpine, manifestando un precoce interesse per le strade ferrate. Nel 1844 partì nuovamente per un lungo viaggio in Germania per conoscere miniere, stabilimenti e infrastrutture. Al suo ritorno fu ricevuto dal granduca, a testimonianza degli eccellenti rapporti con il sovrano, che lo volle accanto nella ricognizione di fonderie e miniere. Ad altri soggiorni di istruzione oltreconfine fra l’estate 1846 e la prima metà del 1847, non cessò di alternare visite ai giacimenti toscani, dalla Maremma al Volterrano.
Ciononostante, il bagaglio di conoscenze acquisito non fu riversato in quegli anni in alcuna iniziativa concreta, ma si espresse in memorie per l’Accademia dei Georgofili da cui trapelava un minore pregiudizio antindustrialista rispetto all’ortodossia dell’istituto e alla posizione di molti moderati toscani, timorosi dei ‘mali’ prodotti dallo sviluppo capitalistico.
La morte del padre, nel dicembre 1847, e l’avvio dell’impegno politico sull’onda degli avvenimenti di quell’anno contribuirono a distogliere Peruzzi dalle sue prospettive di carriera. Entusiasta delle riforme di Pio IX, sostenitore dell’accordo con i sovrani, nel maggio 1848 si era meritato un pubblico ringraziamento dal Municipio fiorentino per l’attività prestata nell’ordinamento della guardia civica; ad accrescerne la visibilità venne, nel settembre 1848, una missione di forte valenza ‘patriottica’ a capo della commissione incaricata di trattare il rientro dall’Austria dei prigionieri toscani. Dopo l’elezione nel nuovo Parlamento costituzionale, in novembre sostituì come gonfaloniere il cugino Bettino Ricasoli, ritiratosi per protesta contro la svolta democratica di Giuseppe Montanelli e Francesco Domenico Guerrazzi.
Pur avendo preso parte limitatamente al colpo di Stato patrizio-municipale del 12 aprile 1849 perché affetto dal vaiolo, contribuì a stendere il proclama con cui il Comune di Firenze assumeva i pieni poteri in nome del principe. Rientrato nelle funzioni di gonfaloniere, il suo primo atto fu l’invio, il 6 maggio 1849, al commissario straordinario granducale di un indirizzo che, lamentando il «non meritato dolore di un’invasione» (Cambray Digny, 1853, p. 197), costituì la prima manifestazione di delusione dei moderati per una Restaurazione operata con l’intervento armato austriaco. Dopo aver accolto in autunno il sovrano al suo ritorno in Toscana, e accettato di ritirare la medaglia granducale per i meriti nella controrivoluzione di aprile nella speranza che fosse possibile conservare le franchigie costituzionali, con il nuovo anno Peruzzi fu protagonista di una serie di crescenti tensioni. A parte alcuni rilevanti gesti simbolici, cruciale fu l’iniziativa verso il provvedimento del 21 settembre 1850 con cui il granduca sciolse a tempo indefinito il Parlamento riacquisendo ogni potere. Peruzzi capeggiò la protesta del Comune fiorentino con una petizione contraria alla decisione e la preghiera di riattivare le istituzioni rappresentative. La reazione fu durissima e il 29 settembre fu deposto con l’accusa di aver superato le proprie attribuzioni con un atto politico contrario alle competenze dei consigli municipali.
Frattanto, il 9 settembre 1849 aveva sposato la pisana Emilia Toscanelli, distintasi durante il 1848 per un’accesa passione risorgimentale, che rinvigorì il patrimonio non solidissimo dei Peruzzi con l’enorme dote di 300.000 lire ottenuta dalla famiglia, fresca di nobilitazione e ansiosa di entrare nel circuito di relazioni del patriziato fiorentino. In linea con la scelta attendista dei moderati, si ritirò nella sua villa dell’Antella, dedicandosi alla gestione dei poderi di famiglia in cui cercò di conciliare il tradizionale patto mezzadrile con le innovazioni del secolo. Alla cura delle fattorie unì, dal giugno 1853, una nuova attività legata alle sue competenze giovanili, ricevendo dai soci della ferrovia Leopolda, la più florida dei sodalizi ferroviari toscani sorti negli anni Quaranta, la nomina a direttore.
Il 27 aprile 1859, dopo la definitiva partenza di Leopoldo II, e prima del passaggio di poteri al commissario sardo, fu nominato a capo del governo provvisorio toscano, dove si preoccupò di conservare l’egemonia politica dei moderati minacciata dalla divisione fra unitari e autonomisti che cercò di gestire stemperandone le differenze. Tanto più che il suo unitarismo serbava una devozione di fondo alle tradizioni toscane ritenute superiori all’ordinamento centralizzatore del Piemonte. Pur fra tali oscillazioni, dopo il trattato di Villafranca (11 luglio 1859) fu inviato presso Napoleone III per perorare la causa toscana allo scopo di scongiurare il ritorno della vecchia dinastia.
Con l’elezione, nell’agosto 1859, all’Assemblea toscana ebbe inizio una carriera parlamentare che lo avrebbe visto dal marzo 1860 deputato per dieci legislature in rappresentanza del primo collegio di Firenze. Il suo ingresso da protagonista nella vita politica nazionale avvenne nel luglio 1860, quando fu nominato fra i membri della commissione temporanea di legislazione presso il Consiglio di Stato istituita per studiare proposte sulla delicata questione dell’assetto amministrativo del nuovo Regno. Peruzzi vi sostenne posizioni favorevoli a un significativo decentramento.
Entrato nel febbraio 1860 nel terzo governo Cavour come ministro dei Lavori pubblici, conservò la carica anche nel primo ministero Ricasoli.
Nel contrasto insorto nell’esecutivo fra il presidente del Consiglio e Marco Minghetti per la decisa svolta accentratrice imposta dal primo, come già nel 1859, mostrò opinioni autonomiste più radicate rispetto al più anziano cugino, restando il solo ad appoggiare in Consiglio dei ministri le istanze regionaliste e di decentramento proposte da Minghetti in alternativa all’estensione della normativa sarda al Regno d’Italia.
Sconfitte le sue posizioni, nella sua seconda esperienza ministeriale, proprio da responsabile dell’Interno nel gabinetto Farini - Minghetti (dicembre 1862-settembre 1864), tentò invano di attenuare la portata della scelta per l’accentramento con la presentazione di proposte di modifica della legge comunale e provinciale (legge Rattazzi) del 1859; nel contempo agì per favorire il riordino del dicastero e della sua burocrazia nella logica di una ‘spiemontesizzazione’ degli apparati statali. Tuttavia, il passaggio più importante della sua seconda esperienza governativa fu il coinvolgimento nelle manovre che, sulla scia della crisi d’Aspromonte (29 agosto 1862), portarono poi allo spostamento della capitale. Il 28 giugno 1862 aveva dichiarato in un provocatorio discorso che fin quando la sede del governo fosse rimasta in Piemonte appariva «difficilissimo dare all’amministrazione indirizzo, schiettamente, intieramente, largamente italiano» (Pavone, 1964, p. 176). Tali precedenti spinsero a identificare in lui il primo responsabile della Convenzione del settembre 1864 e soprattutto l’emblema del ‘tradimento’ verso Torino. Principale accusato della sanguinosa repressione delle proteste dei municipalisti sabaudi che gli valsero l’infame qualifica di «mitragliatore», fu però scagionato da una commissione parlamentare d’inchiesta che ne ratificò l’operato. Tali episodi, che videro protagonista Peruzzi, furono decisivi nel far emergere quel contrasto fra la cosiddetta consorteria e i piemontesi, destinato a condizionare tutta l’età della Destra e che solo l’abilità carismatica di Cavour aveva saputo contenere.
Più breve, ma non meno intenso, era stato l’incarico ai Lavori pubblici, per la necessità di infrastrutture percepite da tutti quale veicolo di unificazione del Paese, a partire dalle ferrovie verso cui Peruzzi manifestava competenze non del tutto disinteressate. La fretta nel promuovere leggi per attivare nuove linee e per completarne altre andò a discapito della trasparenza delle procedure, e talune critiche puntarono da subito sull’eccessiva facilità nell’affidamento di concessioni alle Strade ferrate livornesi, di cui Peruzzi era stato direttore fino a poche settimane prima e che erano sorte nel 1860 per suo impulso dalla fusione della Leopolda con le principali società toscane. Nel 1865 esse si unirono a loro volta con le società ferroviarie pontificie dando vita alle Romane, che assieme all’altro grande gruppo di derivazione toscana, le Meridionali di Pietro Bastogi, sancirono il dominio del capitale ex granducale sull’azionariato ferroviario.
Dopo i contestati fatti di Torino, Peruzzi fece ritorno stabilmente a Firenze, dove la moglie, uno dei principali esempi di donna notabile dell’Italia liberale, attivò quel ‘salotto rosso’ nel palazzo di borgo de’ Greci in cui si manifestò appieno l’estesa attività di patronage dei due coniugi. Nelle dinamiche largamente notabilari della politica postunitaria, l’attività in esso profusa si rivelò un contributo utile anche a fini elettorali nell’imporre candidati ‘filoperuzziani’ al cospetto delle difficoltà di più vecchi e austeri capi come Ricasoli e ad assicurare un sostanziale controllo della consorteria.
Da allora in avanti, Peruzzi non ebbe più cariche ministeriali, facendo della dimensione locale il suo campo d’azione, da cui non rinunciò comunque a influenzare la vita nazionale con un’attività parlamentare condita di sortite assai significative, soprattutto quando la politica romana finiva per interagire con le questioni territoriali o gli interessi da lui, anche personalmente, rappresentati.
Eletto nel 1865, e poi quasi ininterrottamente fino alla morte, nel Consiglio provinciale di Firenze, ne fu presidente dal 1865 al 1870, e dal 1865 entrò anche in Consiglio comunale. Il favore accordato alla politica locale coincideva con il trasferimento a Firenze della capitale, che schiudeva enormi opportunità, interpretate dalla giunta di Luigi Guglielmo Cambray Digny, sindaco dal 1865 al 1867, e dai suoi grandiosi progetti di espansione edilizia rappresentati dai ‘piani Poggi’ di ristrutturazione della città. Digny, che nell’assumere l’oneroso incarico aveva accettato contando sul fraterno amico Peruzzi, condivise e concordò con lui ogni sua scelta. Il periodo 1865-70 vide un’esplosione di società anonime, sintomo delle speculazioni favorite dal fervore edilizio e bancario, in un circuito stretto tra affarismo e politica di cui tiravano le fila in primis Digny e Peruzzi, ma che si estendeva a molti altri rappresentanti cittadini coinvolti in società collegate ai grandi appalti. Dall’ottobre 1868 Peruzzi sostituì pro tempore il dimissionario sindaco Lorenzo Ginori e dal 1871 fu chiamato a ricoprire in prima persona la carica affrontando il problema di ripensare il futuro di una città colpita dalla perdita dell’effimero titolo di capitale.
In un discorso del 1870, richiamandosi al mito dell’«Atene d’Italia», espose un controverso programma di sviluppo dal profilo antindustriale e interamente ‘terziario’, per una Firenze chiamata ad aggiornare la sua tradizione artistica e artigianale innervandola con un insieme di scuole tecnico-commerciali e artistico-professionali e con un virtuoso tessuto associativo (Relazione del sindaco Ubaldino Peruzzi al Consiglio comunale di Firenze nell’adunanza del 16 dicembre 1870, Firenze 1870). Questo ambizioso progetto mosse tuttavia solo alcuni disorganici passi, ostacolato nel giro di pochi anni dalle avvisaglie di quella crisi delle finanze comunali che sfociò nella ‘questione di Firenze’.
La necessità di trovare impieghi alternativi alla contrazione delle lucrose attività sostenute dal favore politico spinse peraltro Peruzzi, più di altri consorti, a una riscoperta di investimenti «più impegnati nella produzione» (Coppini, 1976, p. 146), in cui parve rinverdire le sue prime prove di Georgofilo. Da qui la scelta di essere fra i principali azionisti della Società borica travalese che cercava di orientare alcuni capitali fiorentini verso la nascente chimica industriale, la decisione di promuovere l’industria siderurgica con la presidenza della Società per l’industria del ferro e l’idea, nel 1872, di una banca industriale toscana diretta esclusivamente a finanziamenti di tipo produttivo. La poca fortuna di queste imprese poggianti su Peruzzi e le sue aderenze testimoniano l’esistenza, ma anche i limiti, del suo industrialismo, mai perseguito con una chiara determinazione imprenditoriale e preso fra le contraddizioni della sua formazione scientifica e i condizionamenti della tradizionale mentalità mezzadrile.
Gli anni Settanta portarono altri problemi, con attriti interni al mondo della Destra che coinvolsero direttamente Peruzzi e alcuni dei più influenti poli finanziari toscani, afflitti da crescenti difficoltà e sempre meno tutelati dalla politica dei piemontesi Giovani Lanza e Quintino Sella, oppositori dell’uscente esecutivo Menabrea, in cui Cambray Digny ministro aveva invece testimoniato l’influenza della consorteria. Così fra il 1872 e il 1873 le tensioni con Sella sulla Banca nazionale toscana, massimo soggetto finanziario della regione che aveva sostenuto molti affari dei consorti, videro Peruzzi e Digny mobilitare la loro influenza per cercare di modificare misure pregiudizievoli per l’istituto di emissione. Le tensioni si riverberarono anche sulla politica fiscale per i tentativi di avocare allo Stato margini di imposta sottratti alla finanza locale proprio nel momento in cui si palesavano le difficoltà del Comune, gravato dagli ingenti debiti contratti nel periodo di Firenze capitale.
In tale scenario altro grande versante di scontro divenne la questione ferroviaria, con l’aggravarsi della crisi delle Romane, costrette a rapportarsi con un esecutivo meno sensibile dei precedenti agli interessi della società. Una crisi che inaugurò la politica delle convenzioni indirizzate al riscatto perseguita da Sella, ma proseguita anche dal successore Minghetti, con gran smacco di Peruzzi che, rigettata l’offerta di un ministero, aveva però appoggiato l’ascesa del tradizionale alleato.
Sullo sfondo si estendeva sempre più minacciosa l’ombra lunga della ‘questione di Firenze’, certificata nel 1873 da un debito di 2.300.000 lire e fonte di dissapori con il governo, accusato di non fare abbastanza per rispondere alle richieste di aiuto del Comune, per cui non era sufficiente l’indennizzo già ricevuto a titolo di rimborso nel 1871.
A dare una copertura ideologica e ulteriore risonanza a queste tensioni a metà del 1874 sorse a Firenze la Società Adamo Smith, con lo scopo di ribadire la fedeltà alle dottrine liberistiche contro le crescenti spinte stataliste e protezionistiche. Peruzzi non solo fu tra i suoi fondatori, ma si segnalò anche come uno dei più risoluti nel fomentare polemiche che non contribuirono a svelenire il clima. Nel caso di molti toscani l’adesione, anche convinta, si accordò con gli interessi privati da cui il sodalizio traeva origine. Alla fine del 1875 la questione ferroviaria assunse un ruolo eminente e fece da detonatore ai molti fattori di tensione accumulati. Da qui il passo che portò alla «rivoluzione parlamentare» del 1876 fu breve; Firenze divenne il cuore dell’opposizione ai progetti governativi e Peruzzi il suo uomo di punta. Alla notizia della firma, nel novembre 1875, dell’ultima delle convenzioni, quella di Basilea, egli scrisse a Minghetti di voler provocare «un’agitazione contro l’assunzione dell’esercizio delle strade ferrate per parte del Governo che io reputerei […] la più grande sciagura che possa colpire […] l’Italia» (Berselli, 1997, p. 798). A differenza degli altri grandi maggiorenti toscani, tenuti all’oscuro di molte manovre e contrari a una rottura definitiva, nel gennaio 1876 Peruzzi fece da sponda agli abboccamenti con gli ‘impazienti’ della Sinistra guidati da Giovanni Nicotera, che a metà febbraio riuscì a far convergere Agostino Depretis sul suo progetto di provocare la caduta della Destra. Nonostante la volontà di non scoprirsi e la rassicurazione di voler aspettare la discussione sulle convenzioni ferroviarie, in una lettera a Digny del 12 marzo 1876, Peruzzi si lasciò andare a mezze e ambigue ammissioni sulla possibilità che la crisi si aprisse anche prima, come poi effettivamente avvenne con la mozione sul macinato.
Si tenne lontano da Roma, invocando la giustificazione della madre gravemente malata, ma l’esistenza di accordi fu testimoniata il 7 marzo dalla sua elezione, immediatamente rifiutata, alla vicepresidenza della Camera con i voti della Sinistra e di oltre trenta dissidenti. Tali atteggiamenti valsero ad accentuare l’impressione del ‘tradimento’, amplificati dalla sua scelta di disertare il Parlamento anche nella tornata del 18 marzo, allorquando tirò le fila dell’operazione da Firenze.
Non chiarite restano le sue aspirazioni o le sue reali possibilità di entrare in un ministero che radunasse le forze del 18 marzo; lo stesso Nicotera nel corso delle trattative non aveva mai precisato tale aspetto, a fronte della priorità accordata al comune obiettivo di far cadere Minghetti. Da alcune lettere della moglie si può supporre che accarezzò addirittura l’idea di una chiamata del re, anche se il suo primo e più immediato obiettivo era quello di rimuovere le minacce agli interessi dell’oligarchia fondiario-finanziaria fiorentina, identificati più in generale con quelli di Firenze e della Toscana, senza una cognizione ben chiara dei passi futuri.
Gli sviluppi successivi alla crisi avrebbero mostrato che in quell’operazione la pattuglia toscana aveva giocato un ruolo subalterno e gregario, ma Peruzzi riuscì a ottenere la soddisfazione dei suoi interessi più immediati. Riaprendosi, nel giugno 1876, la discussione sulla questione ferroviaria, intervenne per sostenere con impeto la politica del governo che, approvata l’urgente convenzione di Basilea, si impegnava a conservare ai privati l’esercizio delle ferrovie con un progetto di legge. Nel suo discorso rilesse in chiave critica tutta la politica ferroviaria del Regno a partire dalla legislazione del 1865, già affetta dal ‘germe pernicioso dello statalismo’. Soddisfazione ebbero inizialmente anche le sue petizioni sul problema del deficit di Firenze. Alle elezioni dell’autunno 1876 era andato in autonomia, ma con un atteggiamento di neutralità più conflittuale con i gruppi della Destra che non con il governo. Ricevuto all’inizio del 1877 dal presidente del Consiglio Depretis, riuscì a ottenere ascolto per il suo Comune e la promessa di una legge speciale. Ma le divisioni interne al governo e il successo largo della Sinistra, che relativizzò il peso dei dissidenti, rallentarono notevolmente l’iter dell’attesa legge, facendo precipitare la situazione. Nel marzo 1878 furono sospesi tutti i pagamenti ai creditori e circa due mesi più tardi, poco prima dell’istituzione di un’apposita commissione d’inchiesta, si ebbero le dimissioni del sindaco. Solo nel giugno 1879 si arrivò agli agognati provvedimenti speciali, e Peruzzi nella discussione sul disegno di legge ebbe almeno una vasta tribuna dalla quale difendere il suo operato e quello di Digny.
Nella sua autodifesa sottolineò che in un passaggio segnato da imprevedibili eventi gli errori commessi erano avvenuti per un eccesso di spirito patriottico e a causa delle disattese promesse governative, mentre anche la commissione all’uopo nominata avanzò dubbi sulla poca prudenza degli amministratori, ma nessuno sulla loro moralità.
Divenuto tuttavia il simbolo del disastro e il bersaglio di attacchi popolari accresciuti dalla presenza, fra l’enorme platea di creditori del Municipio, di tanti piccoli e medi risparmiatori fiorentini, Peruzzi decise di dimettersi anche da deputato. Per quanto subito rieletto nell’agosto 1879, aveva ormai perso la precedente influenza e uno degli ultimi momenti di protagonismo fu l’azione svolta per favorire l’approvazione delle convenzioni ferroviarie del 1884, che assegnavano l’intera rete a tre grandi gruppi societari. Si chiudeva una lunga partita che aveva più di ogni altra segnato la sua parabola politica.
Dagli anni Ottanta si addensarono anche le prime nubi sulla consistenza del patrimonio dei Peruzzi; dato l’intimo legame tra affari e politica, il declino nella vita collettiva si trasferì sull’economia familiare, mentre in una carriera in cui confini fra pubblico e privato erano sempre stati labili e opachi, assai simbolica fu la scelta, per la necessità di restringere le spese domestiche, di ritirasi all’Antella, presso Bagno a Ripoli, chiudendo di fatto dal 1882 il palazzo cittadino e il suo salotto.
Il crepuscolo personale andava di pari passo con quello della consorteria, ormai lontana dalla sua passata influenza e sempre più sbiadita nelle pratiche trasformistiche, in cui Cambray Digny e i dissidenti del 1876 risultavano sempre più attratti, e verso le quali Peruzzi mostrò indifferenza più che ostilità.
Nel 1889 ebbe inizio il definitivo rovescio del patrimonio, travolto dai debiti. Le gravissime difficoltà economiche, unite a un peggioramento delle condizioni di salute, lo spinsero a non ricandidarsi e, su sollecitazione della moglie e degli amici, a premere su Francesco Crispi per una nomina a senatore prontamente ottenuta nel dicembre 1890.
Morì a Bagno a Ripoli, nella sua villa dell’Antella, il 9 settembre 1891.
Fonti e Bibl.: L’Archivio della famiglia è depositato presso l’Archivio di Stato di Firenze. Il carteggio e i documenti di Peruzzi sono conservati nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze, su cui si rimanda a P. Panedigrano - C. Pinzauti, Le carte U. P. nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze, in Rassegna storica toscana, XXXIV (1988), 1, pp. 109-153; 2, 335-369; XXXV (1989), 2, pp. 223-251; XXXVI (1990), 1, pp. 139-168; 2, 321-350; XXXVII (1991), 1, pp. 115-137; 2, 255-301; XXXVIII (1992), 1, pp. 97-154. Lettere di Peruzzi sono pubblicate in: Lettere politiche di B. Ricasoli, U. P., N. Corsini e C. Ridolfi, a cura di S. Morpurgo - D. Zanichelli, Bologna 1898, pp. 85-116; I toscani del ’59: carteggi inediti di C. Ridolfi, U. P., L. Galeotti, V. Salvagnoli, G. Massari, C. Cavour, a cura di R. Ciampini, Roma 1959, pp. 13-79, 161-169; V. Pareto, Lettere ai Peruzzi: 1872-1900, a cura di T. Giacalone-Monaco, II, Roma 1968, pp. 595-637; Fra Parigi e Firenze. Carteggio P.-Ridolfi (luglio-novembre 1859), a cura di M. Nardini, Firenze 2011; Lettere familiari inedite di U. P. ed Emilia Toscanelli Peruzzi ed altri documenti dai manoscritti dell’archivio Ragozzino-Adami, a cura di U. Ragozzino, Firenze 2013. Inoltre: L.G. Cambray Digny, Ricordi sulla commissione governativa toscana del 1849, Firenze 1853; Jarro (G. Piccini), Vita di U. P., scritta e pubblicata lui vivente, Firenze 1898.
C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica. Da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano 1964, ad ind.; A. Salvestrini, I moderati toscani e la classe dirigente italiana, 1859-1876, Firenze 1965, ad ind.; R.P. Coppini, L’ opera politica di Cambray-Digny, sindaco di Firenze capitale e ministro delle Finanze, Roma 1975, ad ind.; Id., Patrimoni familiari e società anonime (1861-1894): il caso toscano, in Annali della Fondazione Luigi Einaudi, X (1976), pp. 122-186; Z. Ciuffoletti, I moderati toscani, la caduta della Destra e la questione di Firenze (1870-1879), in Rassegna storica toscana, XXIII (1977), 1, pp. 25-66; 2, pp. 229-271; U. P. un protagonista di Firenze capitale, a cura di P. Bagnoli, Firenze 1994; A. Berselli, Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l’Unità, Bologna 1997, ad ind.; T. Kroll, La rivolta del patriziato. Il liberalismo della nobiltà nella Toscana del Risorgimento, Firenze 2005, ad ind.; P.L. Ballini, Ricasoli e gli ‘unitari’, in La Toscana dal governo provvisorio al Regno d’Italia. Il plebiscito dell’11-12 marzo 1860, a cura di S. Rogari, Firenze 2011, pp. 27-54; Camera dei deputati, Portale storico, http://storia.camera.it/deputato/ubaldino-peruzzi-18220402#nav (10 febbraio 2015); Archivio storico del Senato, Banca dati multimediale I senatori d’Italia, II, Senatori dell’Italia liberale, sub voce, http://notes9.senato.it/Web/senregno. NSF/ P_l2?OpenPage (10 febbraio 2015).