TURCHI, Alessandro detto l’Orbetto
Nacque a Verona nel 1578, figlio di Silvestro «spatarius» quondam Leonardi e di Isabeta. Ricaviamo questo dato dall’anagrafe della contrada di San Quirico del 1583, dove è detto di 5 anni. La conferma circa la data di nascita giunge dalle successive registrazioni, nella contrada di San Quirico (1596) e in quella di San Giovanni in Valle (1603), dalla quale apprendiamo che Alessandro era il maggiore di cinque fratelli – gli altri erano Bernardino, Simone, Agnese e Faustina – ed era già chiamato «pittor» (Regesto, 1999, pp. 250, 260 nn. 6-9).
Il nonno Leonardo, «spadar», era originario di Illasi, località a oriente della Lessinia veronese, come si ricava dall’anagrafe del 1552, allorché venne registrato di 45 anni nella contrada di San Quirico di Verona, residente nella casa di un Battista «armarolo». Da queste e da altre registrazioni anagrafiche si ricava che la famiglia era da generazioni dedita a lavorare il ferro, come molte delle famiglie residenti in quella contrada, i cui capifamiglia sono di frequente indicati come «spadari», «armaroli» e «ferrari» (pp. 250, 260 nn. 1-5).
Con il soprannome di Orbetto il pittore è celebrato ne La pittura trionfante (1615, p. 12) del bresciano Giulio Cesare Gigli (1570 circa - 1640): «E quell’Orbetto, che cotanto è chiaro, / che d’ogni lume è rilucente ospicio»; e ne Lo Stolone di Francesco Pola (1615, pp. n.n.; Alessandro Turchi, 1999, p. 265): «Ho pure in queste poche hore, che io sono fra queste vostre mura, udito nominare et i Farinati, et il Creara, et l’Orbetto, et l’Ottolini». Come già intuito da Bartolomeo dal Pozzo (1718, p. 164), l’epiteto passò dal padre al figlio a partire dal 1595, come si evince dalle registrazioni archivistiche. Nel campione d’estimo di quell’anno, il padre del pittore venne infatti registrato come «Silvester de Turcis cecus mendicans olim spatarius» e tassato per cinque soldi (Regesto, 1999, p. 250).
La rapida carriera cittadina di Turchi dovette molto alla frequentazione della bottega di Felice Brusasorci, il maggiore pittore tardomanierista veronese. Nel testamento di Lorenzo de Gipsis, orafo e forse collezionista d’arte, dettato il 28 aprile 1597, Turchi è citato infatti come «messer Alessandro pittore domestico di m[esser] Felice Brusasorzi pittore» (p. 260 n. 8). Alla morte del maestro, avvenuta il 22 febbraio 1605, il pittore si trovò a lavorare ad alcune sue opere rimaste incomplete come la Caduta della manna in S. Giorgio in Braida – lavoro condiviso con Pasquale Ottino, anch’egli allievo di Felice – e la pala di S. Raimondo di Peñafort dell’altare Mazzoleni in S. Anastasia sempre a Verona, come ricordato da Carlo Ridolfi (1648, 1914-1924) e da Dal Pozzo (1718, p. 75). Già nel primo decennio del XVII secolo non mancarono però commissioni autonome, come dimostrano la Maddalena penitente per l’altare Da Prato nella chiesa di S. Tomaso Cantuariense, firmata e datata «ALEX. TURCHIS. F. A.D. MDCV», e l’Adorazione dei pastori per l’altare dell’Arte dei Marangoni nella chiesa di S. Fermo Maggiore.
L’apprendistato presso la bottega di Brusasorci mise in contatto Turchi con l’Accademia Filarmonica, di cui Felice era membro dal 1564. Il 3 aprile 1606 gli accademici decisero di «dipingere dentro e fuori le portelle et la cassa di esso [organo] con quel miglior modo e prestezza», affidandone l’incarico a Turchi. Le quattro tele, ora conservate nella Royal Collection a Windsor Castle (inv. 830), vennero acquistate a Verona all’inizio del Settecento dal console Joseph Smith (1682-1770) già come opere di Turchi. Il rapporto del pittore con la potente istituzione culturale cittadina si consolidò tre anni dopo, il 12 dicembre 1609, con la sua nomina ad accademico. Nella supplica con la quale richiedeva di esservi ammesso, Turchi dichiarava «che sino dal principio di questa mia professione della pittura mi proposi di seguir l’orme del signor Felice Brusasorzi», e continuava affermando di aver «conceputo un ardente desiderio, non già d’occupar quel luogo ch’egli aveva vivendo, perché egli sarebbe occupato più dalla persona che dal merito, ma ben di dedicarmele qual devotissimo servitore che fu vivendo il sodetto signor Felice» (Regesto, 1999, pp. 251, 261 n. 15). Il suo successo cittadino fu di certo supportato dalle commissioni private dei potenti accademici filarmonici Agostino e Gian Giacomo Giusti, come documenta la descrizione della loro collezione nel poemetto Sileno di Francesco Pona (1620; Guzzo, 1998; Marcorin - Dossi, 2020): in essa erano conservate sei opere di sua mano. Tra queste si ricordino almeno le quattro superstiti, tutte di qualità altissima: un’Allegoria della Fama tra Mercurio e Pallade di collezione privata (M. Pulini, in Alessandro Turchi, 1999, pp. 84 s., n. 7) e le tre Allegorie della Fede, della Speranza e della Carità, conservate rispettivamente in collezione privata, nella National Gallery of Victoria a Melbourne (inv. 3077-4) e nel Detroit Institute of Arts (inv. 47400) (Regesto, 1999, p. 254).
La precoce fama dell’Orbetto sancita dalla Pittura trionfante del Gigli è dovuta con tutta probabilità alla sua prima commissione pubblica ufficiale, avvenuta l’11 settembre 1610 (Samadelli, 2017, p. 148). In quella data il Consiglio cittadino stabilì infatti di spendere «ex aere publico ducati sexaginta in pictura excellenti manu conficienda et ornanda» (Regesto, 1999, pp. 251, 261 n. 16) per celebrare la nascita di Girolamo, figlio del camerlengo veneziano Giacomo Marino, un’opera identificata con l’olio su pietra di paragone della Galleria degli Uffizi di Firenze (inv. 1409). Negli anni giovanili Turchi, come il suo maestro e tutti i suoi maggiori allievi, Sante Creara, Marcantonio Bassetti e Pasquale Ottino, dipinse raffinate opere di piccolo formato, tanto di soggetto religioso quanto di soggetto profano, utilizzando supporti preziosi come il rame e la pietra di paragone. Una produzione, questa, per la quale riscosse in seguito un notevole successo anche a Roma, presso il cardinale Scipione Borghese e altri committenti della sua cerchia (Magagnato, 1974, p. 308; Dossi, 2013). La prima commissione pubblica ufficiale di Turchi fu seguita da una seconda su scala monumentale, ovvero la dipintura del telero con la Vittoria dei veronesi sui vicentini a Pontalto per la sala del Consiglio di Verona, oggi al Museo di Castelvecchio (inv. 5895-1B619), firmata e datata 1613.
I documenti veronesi che lo riguardano tacciono a partire dal 1614, l’anno in cui dipinse la pala con la Fondazione di S. Maria Maggiore per la chiesa di S. Maria della Neve, ora al Museo di Castelvecchio (inv. 24526-1B3730, firmata e datata sul retro «ALESANDRO / TURCO DETTO / L’ORBETO / 1614». Il 22 agosto del 1616 Turchi è documentato a Roma – dove risiedette fino alla fine della sua vita – tra i pittori cui spettava un pagamento per la decorazione nel casino della villa pinciana del cardinale Scipione Borghese (Regesto, 1999, p. 252). Come intuito brillantemente da Roberto Longhi per via stilistica (1926, 1967, p. 293; Id., 1959, pp. 30 s.), Turchi è l’autore della Raccolta della manna nella sala Regia del Quirinale, per la quale esistono pagamenti dal 24 settembre 1616 al 4 agosto 1617 destinati ai soli Carlo Saraceni, Giovanni Lanfranco e Agostino Tassi (Regesto, 1999, p. 252). Questi documenti, come pure i due pagamenti di 45 scudi effettuati dal cardinal Borghese il 19 maggio e il 29 maggio 1617, entrambi «per un quadro fatto da lui», nonché il saldo di 60 scudi del 7 agosto 1619 per un dipinto destinato alla cappella della sua villa di Mondragone, sono testimonianza del successo di Turchi a Roma (ibid.). Un successo che corre in parallelo a quello di altri due allievi di Felice Brusasorci: Marcantonio Bassetti, anch’egli menzionato tra i pittori del casino Borghese nel 1616, e Pasquale Ottino, documentato a Roma prima di loro, tra il 27 aprile 1609 e il 1° gennaio 1610 (Pierguidi, 2001, pp. 93, 95). A Roma Turchi risiedette con il fratello Simone nel 1619 nella parrocchia di S. Maria del Popolo «in strada Paulina, a mano sinistra per andare alli Greci, nella casa delli Vittorj», e nel 1622 in piazza Trinità dei Monti. All’anno seguente risale il matrimonio con la nobildonna Lucia San Giuliano (Regesto, 1999, pp. 252, 254, 255).
La carriera romana di Turchi fu rapida quanto quella veronese. Nel 1618 venne nominato membro dell’Accademia di S. Luca, di cui divenne primo rettore nel 1634, mentre nel 1638 venne accolto nella Pontificia Accademia dei Virtuosi (pp. 252, 256 s.). Questi incarichi sancirono il suo inserimento a pieno titolo nel mondo artistico romano, come confermano anche le Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini (1617-21, 1956-1957), dove si dà notizia della Madonna con Bambino in gloria e i ss. Carlo Borromeo, Francesco e donatore per la chiesa di S. Salvatore in Lauro. Sempre allo scrittore senese dobbiamo la notizia che Turchi dipinse un Ercole e Onfale, da identificarsi con tutta probabilità con un dipinto in collezione privata, di cui esiste una versione monumentale presso la Alte Pinakothek di Monaco di Baviera (inv. 496), completata dal pendant con Ercole furente (inv. 490; Schleier, 2010, p. 136). Tra i committenti illustri di Turchi ci furono il cardinale Maurizio di Savoia (Pierguidi, 2009) e, come ricorda Giovanni Battista Passeri, il poeta Giambattista Marino, che verso il 1624 gli commissionò un dipinto con Aci e Galatea ora perduto (Scaglietti Kelescian, 1999, p. 31). Il pittore godette inoltre di una particolare fortuna in Francia, dove era menzionato dagli scrittori d'arte e negli inventari come «Alexandre Véronèse»: per Louis I Phélypeaux marchese de La Vrillière dipinse la Morte di Cleopatra (1637-40), mentre nelle collezioni del maresciallo barone François de Créquy e del cardinale Mazzarino si trovavano rispettivamente il Matrimonio mistico di s. Caterina d’Alessandria e il Diluvio Universale, tutti dipinti ora conservati al Louvre (p. 34).
Nonostante l’assenza da Verona, Turchi continuò a lavorare per la sua città natale. La commissione principale è senz’altro rappresentata dalla pala con il Martirio dei quaranta martiri per la cappella degli Innocenti presso la chiesa di S. Stefano, affidatagli da don Giulio Varalli nel 1619 circa (Dal Pozzo, 1718, p. 264). Tele dei colleghi veronesi Bassetti e Ottino decorano gli altri due altari, dando vita al monumento di maggiore importanza del Seicento veronese. In questo rapporto mai interrotto con Verona, cruciale fu il ruolo svolto dai Gherardini, una famiglia di mercanti di origine fiorentina, nobilitata da Francesco I d’Este duca di Modena nel 1633, con la quale Turchi era familiare fin dall’11 settembre 1621 (Regesto, 1999, p. 254). Il pittore ebbe un rapporto privilegiato con il marchese Gaspare (1598-1680), definito dallo storico veronese Dal Pozzo «suo particolar padrone e protettore» (1718, p. 166), quantomeno tra la fine del quarto decennio del secolo e gli inizi del quinto, come documentato dalle lettere inviategli da Turchi in quegli anni (Natale, 2007). Nel testamento di Gherardini del 22 novembre 1678 sono ricordati ben otto dipinti di Turchi, ma altri erano presenti nelle collezioni della famiglia, come si evince dalla lettura di Dal Pozzo (1718, p. 285) e da un inventario dei beni del nipote Giancarlo del 1755 (Repetto Contaldo, 1999, p. 42; Dossi, 2014).
La fortuna di Turchi nei suoi tardi anni romani dovette probabilmente molto a una bottega assai bene organizzata, che era in grado di soddisfare le numerose richieste di pale d’altare non solo destinate a Verona e Roma, ma anche ad altri territori, come le Marche, il Lazio, la Puglia e la Liguria (Samadelli, 2017, pp. 149 s.). Questo sistema di produzione trovò un grande supporto nella perizia grafica del pittore, autore di numerosi disegni (Schleier, 1971; Id., 1999). Con il trasferimento a Roma, Turchi aggiornò la sua cultura figurativa tardomanierista sotto l'influsso delle novità caravaggesche, mediate dai pittori emiliani. Come opportunamente evidenziato da Dal Pozzo (1718, pp. 166 s.), «in quest’autore s’osservano due maniere, la prima del gusto de’ nostri pittori, e l’altra, che fu sua particolare, acquistatasi dopo un lungo studio sopra l’opere di Roma, et è molto stimata, specialmente da’ pittori bolognesi, ch’apprezzano quest’uomo quanto il loro Annibale Carracci» (Dal Pozzo, 1718, pp. 166 s.).
G.C. Gigli, La pittura trionfante..., Venezia 1615; F. Pola, Lo Stolone, ovvero della Sala Pretoria veronese dall’illustriss. sig. Agostino Amulio podestà restaurata, Verona 1615, pp. n.n.; G. Mancini, Considerazioni sulla pittura (1617-21), a cura di A. Marucchi - L. Salerno, Roma 1956-1957, I, p. 255; F. Pona, Sileno, overo Delle bellezze del luogo dell’ill.mo sig. co. Gio. Giacomo Giusti, Verona 1620, pp. 17-21, 24-26, 35-37; C. Ridolfi, Delle maraviglie dell’arte, overo delle Vite de gl’illustri pittori veneti e dello Stato (1648), a cura di D.F. von Hadeln, II, Berlino 1914-1924, pp. 125 s.; B. dal Pozzo, Le vite de’ pittori, degli scultori et architetti veronesi, Verona 1718; R. Longhi, Il trio dei veronesi: Bassano, T. e Ottini, in Precisioni nelle Gallerie Italiane. La Galleria Borghese, in Vita artistica, I (1926), pp. 85-91 (ripubblicato in Id., Saggi e ricerche 1925-1928, I, Firenze 1967, pp. 287-293); Id., Presenze alla Sala Regia, in Paragone, IX (1959), 117, pp. 29-38; E. Schleier, Drawings by A. T., in Master Drawings, IX (1971), 2, pp. 139-153; L. Magagnato, A. T., detto L’Orbetto, in Maestri della pittura veronese, a cura di P. Brugnoli, Verona 1974, pp. 301-310; E.M. Guzzo, I dipinti di A. T. nella collezione Giusti e qualche aggiunta al primo Seicento veronese, in Arte Cristiana, LXXXVI (1998), 788, pp. 367-379; A. T. detto l’Orbetto, 1578-1649 (catal., Verona), a cura di D. Scaglietti Kelescian, Milano 1999; M. Repetto Contaldo, A. T. e la committenza veronese, ibid., pp. 37-44; D. Scaglietti Kelescian, A. T. Vita e opere, ibid., pp. 21-36; E. Schleier, A. T. disegnatore, ibid., pp. 59-67; Regesto, a cura di F. De Marco - M. Repetto Contaldo - D. Scaglietti Kelescian, ibid., pp. 250-262; S. Pierguidi, Precisazioni documentarie sulla committenza Montalto. Brevi note a Guido Reni, Pasquale Ottino e Antiveduto della Gramatica, in Bollettino d’arte, s. 6, LXXXVI (2001), 115, pp. 93-97; M. Natale, Sei lettere inedite di A. T., in Liber Veritatis. Mélanges en l’honneur du professeur Marcel G. Roethlisberger, a cura di L. el-Wakil - P.-A. Guerretta, Cinisello Balsamo (Milano) 2007, pp. 141-147; S. Pierguidi, A. T. e il cardinale Maurizio di Savoia: la provenienza delle Tre Virtù Teologali, in Verona illustrata, XXII (2009), pp. 37-39; E. Schleier, A. T.: Ercole e Onfale. Un capolavoro ritrovato, in Studi di Storia dell’Arte, 2010, n. 21, pp. 129-136; D. Dossi, All’ombra di Scipione Borghese: A. T. per Costanzo Patrizi e qualche altra precisazione, in Arte Cristiana, CI (2013), 879, pp. 460-466; Id., Gaspare Gherardini, «particolar Padrone, e Protettore» di A. T., in Storia dell’arte, 2014, n. 139, pp. 39-47; D. Samadelli, A. T. detto Orbetto, in La pittura veronese nell’età barocca, a cura di L. Fabbri - F. Magani - S. Marinelli, Verona 2017, pp. 147-156; D. Dossi - F. Marcorin, Le collezioni di Agostino e Giovan Giacomo Giusti a Verona. Storia e dispersione, Treviso 2020.