Tubercolosi
La tubercolosi è una delle malattie più antiche nella storia dell'umanità, e come tale fu descritta e studiata da molti ben prima che ne venisse conosciuta la causa, cioè Mycobacterium tuberculosis, che è stato identificato da R. Koch nel 1882. Come molte altre malattie infettive, la tubercolosi è stata inizialmente trasmessa all'uomo da altri animali; vari autori ritengono che il primo micobatterio tubercolare a causare epidemia nell'uomo sia stato Mycobacterium bovis al tempo della domesticazione del bovino. Mycobacterium africanum è l'altra specie in grado di causare tubercolosi anche nell'uomo.
sommario. 1. Cenni storici. 2. Epidemiologia. 3. Microbiologia e diagnostica microbiologica. 3. Patogenesi e immunità. 4. Clinica e terapia. □ Bibliografia.
Il Mycobacterium tuberculosis è un batterio gram-positivo, asporigeno e acido-resistente. Espulso dal paziente tubercolotico attraverso la tosse, lo sputo o mentre parla o canta, rimane vivo e infettante nell'aria per parecchie ore e può sopravvivere in ambiente chiuso per anni. Con queste premesse, si comprende come l'evoluzione storica della tubercolosi sia legata ai processi di civilizzazione che hanno portato l'uomo a formare insediamenti popolosi e confinati, come per es. le grandi città inglesi del Seicento, dove le epidemie della malattia falcidiavano 1 persona su 4, o le riserve degli indiani nordamericani dell'Ottocento, dove la popolazione aveva un tasso di mortalità da tubercolosi di quasi 1 su 10. Nei secoli dei grandi viaggi e delle grandi scoperte continentali, l'uomo europeo è stato il grande untore di tubercolosi nel mondo. è noto, infatti, che furono gli emigranti europei a portare il bacillo di Koch in America, e lo stesso si deve dire di altri paesi oggi fortemente colpiti dalla patologia, che in passato, prima dell'arrivo degli europei, ne erano totalmente privi, come, per es., l'Africa subsahariana. Così come la descrizione della malattia, anche l'ipotesi che la tubercolosi fosse causata da un elemento trasmissibile risale a tempi antichi. Una sicura idea del contagio e della trasmissione dell'agente infettante inizia a farsi strada, nel 16° secolo, a partire dall'opera di G. Fracastoro (De contagione et contagiosis morbis et curatione). Nel 19° secolo, con le osservazioni di B. Marten e di J.-A. Villemin, si rafforza l'idea che la tubercolosi sia provocata da un agente infettivo trasmissibile per via aerea, ma è dalla scoperta del micobatterio tubercolare, dal suo isolamento in coltura pura e dalla dimostrazione della sua patogenicità sperimentale, effettuati da R. Koch, che comincia l'era dello studio e del controllo della tubercolosi e dell'intera microbiologia medica. Nella stessa epoca L. Pasteur riusciva a immunizzare contro la rabbia, il carbonchio, il colera dei polli. Lo studio degli agenti microbici di malattia che venivano isolati dava impeto alla ricerca delle modalità con cui prevenire le malattie attraverso l'uso dei batteri stessi, inattivati o resi avirulenti, e di alcuni loro prodotti. In questo clima, A. Calmette e A.-F.-M. Guérin coltivarono una variante avirulenta di Mycobacterium bovis che tuttora costituisce l'unico vaccino antitubercolare disponibile, il BCG (bacillo di Calmette-Guérin).
A differenza, però, di altre malattie che sono state nel tempo ben controllate o addirittura eliminate dalle vaccinazioni (per es., la poliomelite e il vaiolo), ciò che ha consentito il vero progresso nel controllo della tubercolosi fino ai giorni recenti è stata la chemioterapia, cioè l'uso di antibiotici (chemioterapici) i cui capostipiti sono stati la streptomicina e l'isoniazide, cui seguirono l'acido paraminosalicilico, la pirazinamide, l'etambutolo e quindi la nuova, potente e più sicura rifampicina. Prima con monoterapie, poi con trattamenti di associazione di più farmaci, Mycobacterium tuberculosis sembrava avviato alla sconfitta. La storia delle malattie infettive insegna, però, che fin quando un agente infettante non è eradicato da tutto il globo terrestre, le mutate condizioni sociali e ambientali, gli scambi commerciali e di persone, le migrazioni, l'evoluzione del microrganismo stesso e le nuove interazioni con altri agenti possono provocare la risorgenza della malattia, nei paesi dove era lentamente ma costantemente diminuita d'incidenza, o renderla più diffusa dove non s'era mai arrestata. Questa è appunto l'odierna situazione anche in Italia, dove, come in altri paesi dell'Europa occidentale e negli Stati Uniti, si è assistito negli ultimi anni a una risorgenza della patologia. è di fondamentale importanza a tale riguardo il fatto che la tubercolosi non sia stata mai controllata in vari paesi in via di sviluppo, dove essa costituisce, insieme all'AIDS, una minaccia alla sopravvivenza di intere popolazioni. Si calcola che oggi esistano più di un miliardo e settecento milioni di persone infette da Mycobacterium tuberculosis, con varie decine di milioni di ammalati di tubercolosi e alcuni milioni di decessi ogni anno.
Nel considerare l'epidemiologia della tubercolosi è necessario tenere ben distinta l'infezione da Mycobacterium tuberculosis e la malattia tubercolare. Infatti, nella grande maggioranza dei casi si è solo contagiati e infettati dal batterio senza mai sviluppare tubercolosi. Coloro che non sviluppano la malattia tubercolare nel periodo immediatamente successivo all'infezione rimangono, tuttavia, sempre a rischio di malattia. Distinguere le due fasi è anche importante perché i fattori di rischio per lo sviluppo di infezione sono diversi da quelli responsabili della progressione verso la malattia. Le diverse fasi della storia naturale della tubercolosi, cioè l'evoluzione in condizioni normali a partire dall'esposizione all'agente infettante, possono essere così descritte: alcune settimane dopo l'esposizione a un caso contagioso, si determina un'infezione latente dalla quale dopo un tempo indefinito ha origine la malattia. Per caso contagioso si intende un soggetto ammalato di tubercolosi polmonare (o, più raramente, laringea) che emette batteri vivi e virulenti nell'ambiente circostante; tale soggetto è generalmente e prontamente diagnosticabile tramite l'osservazione microscopica di un preparato di espettorato opportunamente colorato, seguita da conferma colturale (v. oltre).
Per infezione latente si intende la presenza di micobatteri vivi nell'organismo, senza che a essa consegua alcun segno o sintomo di malattia clinicamente rilevabile; il soggetto con infezione latente è, nella maggior parte dei casi, prontamente diagnosticabile tramite una reazione di ipersensibilità ritardata (intradermoreazione di Mantoux), consistente nell'indurimento cutaneo (da 5 a 20 mm) entro 48 ore dall'inoculazione nella zona in cui viene iniettata la tubercolina, cioè un estratto di antigene proteico di Mycobacterium tuberculosis. La malattia tubercolare non è altro che l'insieme dei segni e sintomi clinici riflessi dei danni organici che definiscono la tubercolosi. Nella storia naturale della malattia dell'era preantibiotica il decesso era un evento molto frequente (50% nei primi 5 anni dall'insorgenza dei sintomi) e, a lungo andare, pressoché inevitabile, visto che solo una piccola percentuale guariva spontaneamente. Oggi, con l'avvento della chemioterapia di combinazione a più farmaci, il decesso è un evento assai raro.
Esistono numerosi fattori che influenzano la storia naturale della tubercolosi. Essi riguardano la probabilità di esposizione all'agente infettante, che varia a seconda di quanti casi di tubercolosi contagiosa esistono nella popolazione, nonché della durata e frequenza dei contatti con il caso contagioso; la carica di micobatterio inalato, a sua volta dipendente da quanto esteso e stretto è il contatto con il caso contagioso; le condizioni dell'ospite, particolarmente importanti dal momento che la qualità e la bontà della risposta immunitaria sono un fattore decisivo per evitare che dall'infezione si progredisca verso la malattia. Per es., nei casi di AIDS si ha un rischio di sviluppare la tubercolosi circa 100 volte maggiore rispetto alla norma. Infine, sembra evidente che esistono fattori genetici, sia di popolazione sia individuali, nella diversa suscettibilità alla tubercolosi. La presenza di alcuni alleli del gene di isocompatibilità associati al DR2 o alcune mutazioni nei geni codificanti per il recettore polimorfo dell'interferone-γ (IFN-γR) rendono l'individuo più suscettibile.
a) Meccanismi di trasmissione e diffusione della malattia tubercolare. Come già accennato, la sorgente della trasmissione della malattia tubercolare è un paziente affetto da tubercolosi, nella sua forma polmonare e/o laringea, che emette all'esterno goccioline di saliva, in forma di aerosol, in cui sono presenti batteri vivi e virulenti. Non è stata mai determinata con precisione la carica batterica necessaria per l'infezione ma, a parità di virulenza del ceppo emesso, la diffusione all'esterno, attraverso tosse e starnuti, di una notevole quantità di aerosol costituisce una sicura fonte di infezione per soggetti a stretto e continuo contatto con il paziente. è da notare che il batterio, se in gran quantità, può entrare nell'organismo anche attraverso la via digestiva, come è storicamente dimostrato dalla tubercolosi contratta attraverso l'ingestione di latte non pastorizzato proveniente da mucche infette da Mycobacterium bovis. è altresì evidente da quanto detto in precedenza che un soggetto che presenti solo la reazione positiva alla tubercolina (test di Mantoux) non può trasmettere la tubercolosi a meno che non sia anche contemporaneamente malato di tubercolosi polmonare.
b) Incidenza e diffusione della tubercolosi in Italia. Nel nostro paese, l'incidenza della tubercolosi (cioè il numero dei nuovi casi di malattia che si verificano in una popolazione in un dato periodo) è andata man mano diminuendo a partire dal periodo postbellico (fine degli anni Quaranta del 20° secolo) sino all'inizio degli anni Novanta, raggiungendo un minimo di casi notificati di 3-4000 per anno, massimamente concentrati nelle classi di età adulte e anziane (dai 55 anni in su). Dal 1992, tuttavia, questo declino si è arrestato e si è assistito a un nuovo insorgere della malattia presso fasce d'età giovanile. Come in altri paesi occidentali simili al nostro per struttura della popolazione e andamenti epidemiologici delle malattie infettive, le ragioni di questo nuovo insorgere e della ridistribuzione dei casi di malattia sono state essenzialmente l'epidemia di AIDS e l'immigrazione. Infatti, nei paesi industrializzati a elevata recente immigrazione, in cui vi è una elevata prevalenza di infezione da HIV, Human immunodeficiency virus (come l'Italia), i gruppi a rischio sono i soggetti coinfettati da HIV/Mycobacterium tuberculosis e gli immigrati da paesi con alta prevalenza di infezione tubercolare. In entrambi i gruppi sono anche altamente prevalenti i fattori che fortemente favoriscono il passaggio da infezione a malattia tubercolare (povertà, tossicodipendenza, disagio sociale, istituzionalizzazione in carcere e ospedali). è da notare che nei soggetti tossicodipendenti con coinfezione HIV/Mycobacterium tuberculosis vi è un alto rischio di non adesione alla terapia: ciò comporta sia un'elevata prevalenza di fonti di infezione nella popolazione sia una maggiore probabilità di selezione di ceppi tubercolari mono- e multiresistenti.
Per quanto attiene specificamente all'impatto del fenomeno immigrazione sulla tubercolosi in Italia, e solo come esempio, i tassi di incidenza, calcolati utilizzando come denominatore dati sugli stranieri residenti forniti dall'ISTAT, evidenziano per il 1995 un'incidenza pari a 8,3/100.000 nei cittadini italiani e a 80,2/100.000 negli stranieri. Tra gli stranieri, incidenze particolarmente elevate sono state osservate nei soggetti provenienti dall'Africa subsahariana (22,3/100.000), dall'America Centrale e Latina (135,9) e dal Sud-Est asiatico (102,2). Le principali caratteristiche della malattia in immigrati da paesi ad alta endemia di tubercolosi sono le seguenti: un rischio maggiore di tubercolosi nei primi 3-5 anni dopo l'ingresso nel paese; povertà, sovraffollamento e difficoltà di accesso ai servizi sanitari quali importanti fattori di rischio tubercolare; maggiore frequenza delle forme di tubercolosi extrapolmonare e di resistenza ai chemioterapici antitubercolari.
Sul piano clinico, la tubercolosi deve essere considerata nella diagnostica differenziale di ogni patologia non altrimenti inquadrabile, specialmente se con andamento subacuto o cronico e/o refrattaria a un trattamento antibiotico non specifico, o se interessa soggetti appartenenti a gruppi di popolazione a maggior rischio di tubercolosi. Si deve notare che i sintomi e segni clinici, compresi quelli radiologici, hanno bisogno di una diagnosi di certezza che si ottiene con l'isolamento e l'identificazione del micobatterio dai materiali patologici. Nel caso più frequente della tubercolosi polmonare, la prima evidenza batteriologica della presenza di micobatteri si ottiene, come già accennato, colorando i vetrini sui quali è stato strisciato un campione di espettorato, con il metodo di Ziehl-Neelsen: i micobatteri assumono una colorazione rossa per la loro peculiare caratteristica di trattenere tenacemente la calbolfucsina contenuta nel colorante anche dopo decolorazione con acidi e alcol (acidoresistenza). Tale informazione è di grande valore pratico per la diagnosi presuntiva di infezione da micobatteri; il referto microscopico non rivela però se quello osservato è Mycobacterium tuberculosis o un altro micobatterio. Per ottenere l'identificazione di specie occorre allestire appropriate indagini colturali e prove biochimiche sulle colonie isolate che, se positive per la ricerca di Mycobacterium tuberculosis, confermano la diagnosi di tubercolosi. Oltre all'identificazione di specie, le colonie e le brodoculture arricchite in micobatteri vengono sottoposte alle prove di sensibilità ai farmaci antitubercolari. Nel complesso, le procedure diagnostiche per la tubercolosi sono accurate, discretamente sensibili e assai specifiche, ma sono purtroppo lunghe e indaginose. La necessità di renderle più rapide ha dato notevole impulso agli studi basati su tecniche di biologia molecolare. Tra le varie metodiche vanno ricordate sia quelle fondate sull'identificazione rapida di Mycobacterium tuberculosis a partire dalle colonie o dalle colture liquide mediante reazione con sonde molecolari specifiche, sia le più ambiziose, in grado di identificare Mycobacterium tubercolosis direttamente sui campioni clinici. Queste ultime si basano su reazioni di amplificazione del DNA (PCR, Polymerase chain reaction) o dell'RNA ribosomiale (TMA, Transcription mediated amplification); sia pur dotate di elevata sensibilità e precisione, esse devono però essere considerate con cautela in quanto possono dare falsi negativi e positivi rispetto all'esame colturale, che rappresenta ancora il golden standard.
Negli ultimi anni si è assistito, insieme alla risorgenza della malattia tubercolare, a uno straordinario progresso nei relativi studi immunopatogenetici, sia in modelli sperimentali sia nell'uomo, favorito dall'applicazione di tecniche di biologia molecolare, mirate a definire con precisione i fattori di virulenza e gli antigeni micobatterici, nonché dal grande sviluppo delle conoscenze sul sistema immunitario con particolare riguardo alla natura e alle funzioni delle distinte popolazioni linfocitarie che mediano la risposta cellulare, nonché delle sostanze immunoregolatrici, dette collettivamente interleuchine (IL) o più propriamente citochine, che queste popolazioni producono e da cui esse sono vicendevolmente attivate o soppresse. Le citochine sono sostanze di natura polipeptidica o glicoproteica prodotte principalmente da linfociti e macrofagi. Esse regolano, in varia e complessa interrelazione, la proliferazione e il differenziamento delle cellule immunitarie (per es., la produzione di anticorpi di un certo isotipo, l'attività helper o citotossica di linfociti T, la capacità microbicida di leucociti polimorfonucleati o macrofagi ecc.).
Un'altra fondamentale scoperta immunologica da cui lo studio della tubercolosi ha ricevuto grande impulso, è stata la suddivisione dei linfociti T CD4+ e, probabilmente, anche dei CD8+ in due distinte e spesso contrapposte categorie. Le cellule di tipo 1 secernono citochine quali l'interferone-γ (IFN-γ), l'interleuchina-2 (IL-2) e il tumor necrosis factor α (TNF-α), promuovono l'induzione di immunità cellulomediata e la sintesi di immunoglobuline IgG2α (IgG1 nell'uomo), particolarmente coinvolte nel favorire l'opsonizzazione batterica. L'immunità cellulomediata è di fatto il meccanismo principe nel controllo dell'infezione tubercolare ed entra in gioco in tutte le infezioni da patogeni intracellulari. Le cellule linfocitarie di tipo 2 producono altre citochine, principalmente IL-4 e IL-10, che promuovono la produzione di isotipi anticorpali distinti dalle IgG2α, in particolare le IgE e le IgM, e inibiscono l'attivazione macrofagica. Questo tipo di linfociti svolge quindi un maggior ruolo nel controllo delle infezioni da elminti e da batteri tossigeni ed extracellulari. è essenziale altresì il contrasto tra i due tipi di cellule e delle loro citochine nella risposta infiammatoria, aspetto critico della risposta immunitaria al micobatterio e della patogenesi della tubercolosi. Le citochine di tipo 1 sono forti agenti infiammatori o proinfiammatori, mentre quelle di tipo 2, in particolare l'IL-10, sono forti agenti antinfiammatori. è stato inoltre chiarito che le cellule fagocitiche elaborano, oltre a sostanze chemoattrattive, citochine che indirizzano la risposta successiva dei linfociti in uno dei due tipi. La sostanza di maggior rilievo in questo contesto è l'IL-12. Essa è prodotta soprattutto dai macrofagi e dai granulociti polimorfonucleati e stimola irreversibilmente la maturazione di una risposta linfocitaria di tipo 1. Al contrario, la stimolazione antigenica di granulociti basofili, mastociti e altre cellule linfocitarie induce la produzione di IL-4, che fa partire la risposta di tipo 2.
Oggi si pensa che il bilancio iniziale tra quantità di IL-12 e quella di IL-4, con la partecipazione in positivo o in negativo di altre citochine, sia il fattore critico nella scelta di una risposta in un senso o nell'altro. Per la protezione contro la tubercolosi, fondamentalmente dovuta alla risposta cellulomediata, l'attivazione di un pattern citochinico di tipo 1 è assolutamente critica. Tuttavia, la sostenuta e continua induzione di citochine infiammatorie, proprie di tale pattern, è probabilmente anche critica per la patogenesi della malattia e per i quadri infiammatori di tipo cellulare che si instaurano nella reazione locale (granuloma tubercolare e cavitazione).
a) Rapporto patogenesi/immunità. Le più accurate indagini patologiche e cliniche, nonché le numerose osservazioni in modelli animali, hanno con chiarezza dimostrato che l'ingresso di Mycobacterium tuberculosis nel macrofago alveolare del polmone è il primo evento chiave nell'infezione tubercolare. All'interno del macrofago, il batterio fagocitato non solo resiste ai meccanismi propri del killing fagocitario (digestione e ossidazione), ma entra in moltiplicazione e può diffondere e infettare altre cellule macrofagiche fin quando la risposta immune specifica adattativa (che normalmente si sviluppa tra 2 e 3 settimane dopo il contatto iniziale con il batterio) non ne controlla moltiplicazione e diffusione.
Questa risposta immune è mediata da cellule quali il macrofago stesso e i linfociti T, ha carattere sistemico e protegge da una successiva infezione tubercolare, anche quando non riesce a eliminare completamente il primo focolaio infettivo polmonare. Spia di questo stato di immunità cellulomediata antitubercolare è la già citata reazione alla tubercolina che denota uno stato di sensibilizzazione al batterio tubercolare o di infezione latente con esso. Poiché solo circa il 10% dei soggetti infettati da Mycobacterium tuberculosis sviluppa la malattia tubercolare durante l'arco della propria vita, appare evidente che la sopraddetta risposta immune è nella maggioranza dei casi in grado di arrestare la moltiplicazione batterica e impedire il danno organico. Poiché il batterio ha vita intracellulare, la risposta immune protettiva deve essenzialmente consistere nell'armare e attivare il macrofago dandogli la possibilità di uccidere il batterio, al limite anche sacrificando la stessa cellula macrofagica. Le cellule che armano il macrofago sono i cloni linfocitari T, specifici per gli antigeni tubercolari, e producenti citochine quali l'IFN-γ e il TNF-α. La produzione di citochine attivanti il macrofago è il secondo evento chiave nella risposta antitubercolare e nella patogenesi della tubercolosi.
Oltre alla diretta attivazione delle capacità citocide del macrofago, esse inducono una forte componente infiammatoria di tipo cellulare, con reclutamento, moltiplicazione e trasformazione di cellule che formano in ultima analisi un granuloma (tubercolo), all'interno del quale si forma una cavità centrale con liquefazione e necrosi cellulare. La formazione di questo granuloma è di fatto il terzo evento chiave nella risposta antitubercolare e sottolinea l'evoluzione positiva naturale dell'attacco microbico a un ospite in grado di reagirvi efficacemente. Infine, un ultimo punto chiave nella risposta antitubercolare è l'attivazione e la moltiplicazione di varie altre cellule linfoidi e monocitoidi che possono attaccare il macrofago infettato e, uccidendolo, eliminare i batteri al suo interno o rendere questi aggredibili da altri macrofagi più attivi. Alcune citochine sono in grado di indurre la morte programmata (apoptosi) del macrofago infettato. è intuitivo come la morte del macrofago sia un evento negativo per il Mycobacterium tuberculosis, poiché lo costringe a infettare altri macrofagi che, durante l'infezione, possono essersi fortemente attivati.
Tutto questo fervore di mobilitazione cellulare e produzione di citochine, che probabilmente non ha eguali in altre infezioni, non è senza prezzo per l'ospite, in quanto la risposta infiammatoria risulta molto intensa e prolungata, con rilascio di sostanze citotossiche e ipersensibilizzanti. Tutte le citochine protettive hanno questa caratteristica, ma soprattutto il TNF-α possiede forti proprietà citotossiche e cachettiche. Sembra che questi eventi abbiano luogo soprattutto quando la risposta cellulomediata specifica non è ancora in atto e IL-1β e TNF-α sono prodotti da macrofagi ancora non attivati. Quindi, il ruolo di queste citochine è in realtà duplice: se da un lato controllano l'infezione, dall'altro possono causare fenomeni immunopatologici se la loro produzione è continuativamente elevata. Per es., il TNF-α è in grado di indurre febbre, perdita di peso e necrosi tessutale, tutti segni clinici presenti, nel loro insieme, nella tubercolosi. è comprensibile dunque quanto sia importante che questa risposta infiammatoria, utile per controllare il batterio, non sia esagerata. Per questo motivo, il sistema immune ha elaborato una strategia di contrappesi che consiste nella produzione di altre citochine (per es., IL-10 e IL-4) che neutralizzano l'attività infiammatoria. Come abbiamo già accennato, le cellule linfocitarie che producono IFN-γ sono distinte da quelle che producono IL-10 e sono reclutate e attivate con citochine diverse.
In questo contesto, il ruolo svolto dal micobatterio stesso nella patogenesi è quello di sfuggire alla morte intramacrofagica inibendo uno o più meccanismi con cui il macrofago uccide i batteri al suo interno. è stato per es. dimostrato che uno dei più peculiari componenti di Mycobacterium tuberculosis, il LAM (lipoarabinomannano) è in grado di inibire i meccanismi d'attivazione indotti dall'IFN-γ. Sia l'infezione da HIV sia le modificazioni endocrine che inducono uno switch da una risposta Th1 a una Th2 (T helper) sono associate a un significativo aumento della malattia tubercolare. è il caso per es. della formazione di calcitriolo, un metabolita della vitamina D₃, nelle lesioni tubercolari. Il calcitriolo inibisce il pattern citochinico di tipo 1. Inoltre, in presenza di infezioni concomitanti, quali per es. le elmintiasi così frequenti nei paesi tropicali e subtropicali e che inducono un forte pattern Th2, la malattia tubercolare è meno controllabile. Anche alcuni insuccessi della vaccinazione con BCG (v. oltre) in questi paesi sono stati spiegati con la presenza di elmintiasi nelle popolazioni vaccinate. Infine, una condizione quale la vecchiaia (specie se associata a emarginazione e istituzionalizzazione in carceri e ospizi), con la disregolazione delle risposte immunitarie conseguenti all'invecchiamento del sistema immune, è ben in grado di spiegare di per sé i fenomeni di riattivazione della malattia tubercolare.
b) Vaccino antitubercolare. Un'efficace prevenzione vaccinale contro la tubercolosi sarebbe importantissima per il controllo e l'eliminazione della malattia. Il vaccino antitubercolare, il BCG, costituito da un ceppo di Mycobacterium bovis vivo reso avirulento attraverso una prolungata coltivazione su terreni artificiali, è sicuro ma poco efficace nella tubercolosi polmonare e non controlla la trasmissione dell'infezione. Un largo uso del BCG nei paesi occidentali non è indicato sia per la relativa inefficacia contro la malattia contagiosa degli adulti, sia perché il BCG induce sensibilizzazione e cutipositività all'antigene tubercolare, mettendo con ciò in crisi una delle principali misure di controllo della diffusione del micobatterio, cioè l'individuazione dei contatti recentemente infetti e la loro chemioprofilassi. La vaccinazione con BCG rimane indicata in bambini cutinegativi di età fino a 5 anni recentemente esposti al contagio di un caso di tubercolosi polmonare bacillifera, nei quali il rischio di malattia sistemica progressiva è assai elevato. Sono in corso numerosi studi che hanno come finalità ultima la preparazione di nuovi vaccini antitubercolari, in particolare costituiti da misture di antigeni protettivi o dei relativi DNA codificanti. Alcuni dei nuovi vaccini si basano sull'uso del BCG stesso dopo modificazioni geniche che incorporano in esso antigeni protettivi e citochine di tipo 1.
La malattia tubercolare, pur potendo coinvolgere numerosi organi e avere carattere sistemico, colpisce, da solo o con altri organi, prevalentemente il polmone, con una localizzazione ai segmenti apicali posteriori. Nelle forme tipiche e più gravi, essa porta rapidamente alla formazione del granuloma tubercolare e di lesioni cavitarie, all'interno delle quali l'attiva moltiplicazione del batterio e la reazione immunitaria-infiammatoria comportano sia la liberazione di grandi quantità di batteri emessi all'esterno con la tosse, sia una forte infiammazione locale a carattere cellulare. Insorgono dunque quei numerosi segni e sintomi clinici, quali tosse produttiva, anoressia, sudorazione notturna, febbricola e perdita di peso, che pur nella loro aspecificità, si accompagnano all'evoluzione della malattia e portano il paziente all'attenzione del medico e quindi alla diagnosi. è da notare che la diagnosi posta a questo stadio fa sì che il paziente possa essere efficacemente trattato, ma non evita che il soggetto stesso abbia potuto prima infettare una o più persone. Pertanto, la diagnosi di caso di tubercolosi polmonare in comunità dovrebbe essere immediatamente seguita dalle indagini sull'infezione dei contatti attraverso il test della tubercolina, con conseguente messa in atto delle misure di profilassi.
Una volta diagnosticata, la tubercolosi può essere efficacemente affrontata con la terapia medica (talvolta con quella chirurgica). La terapia medica si basa sulla chemioterapia di combinazione (cioè con più farmaci insieme) ed è rimarchevolmente più lunga (almeno 6-8 mesi) di quella adoperata nella maggior parte delle malattie infettive. Oltre all'ovvio obiettivo di curare il paziente, essa deve avere anche la finalità di annullare o ridurre fortemente la sua contagiosità, nonché di evitare che l'agente di infezione diventi resistente ai chemioterapici. L'uso contemporaneo di più farmaci ad azione battericida per lungo tempo è quindi 'mandatorio'. In conseguenza di ciò, la cura richiede un'elevata adesione da parte del paziente; i regimi terapeutici che si sono mostrati più efficaci sono quelli sotto diretta osservazione, intendendo con ciò che il medico stesso, un suo collaboratore o un familiare del paziente si assicura che questo prenda i farmaci secondo prescrizione.
I farmaci con i quali è realizzata la terapia medica della tubercolosi sono relativamente numerosi e vengono generalmente divisi in chemioterapici di prima e di seconda linea. I farmaci antitubercolari di prima linea sono quelli che per maggiore efficacia antibatterica associata a una tossicità accettabile sono comunemente impiegati nei pazienti mai trattati in precedenza. Essi sono l'isoniazide, la rifampicina, l'etambutolo, la pirazinamide e la streptomicina. Con l'eccezione dell'etambutolo, sono tutti battericidi. I farmaci antitubercolari di seconda linea (per es., cicloserina, capreomicina, etionamide) sono utilizzati nel trattamento di pazienti con tubercolosi resistente a uno o più farmaci di prima linea o quando, per qualunque altro motivo, i farmaci di prima linea non sono adoperabili. Sono poco maneggevoli alle dosi necessarie a ottenere una reale efficacia clinica, sono perlopiù batteriostatici, nonché assai più tossici di quelli di prima linea. Dovrebbero essere usati solo in centri altamente specialistici.
La continua sperimentazione di nuovi protocolli terapeutici negli ultimi quarant'anni del 20° secolo, ha condotto all'individuazione di cicli polichemioterapici di durata relativamente breve (6-9 mesi; i cosiddetti short-courses dell'Organizzazione mondiale della sanità) con bassa tossicità e ottima efficacia. In realtà, la sola combinazione di isoniazide (300 mg) e rifampicina (600 mg), assunti quotidianamente per via orale a stomaco vuoto per 9 mesi, è assai efficace in tutte le forme di tubercolosi farmacosensibile. Tuttavia, è ormai accettato e raccomandato da tutte le associazioni mediche e organizzazioni sanitarie internazionali, in particolare dall'OMS, che l'aggiunta ai sopraddetti due farmaci di altri due quali l'etambutolo e la streptomicina o la pirazinamide sia vantaggiosa, specie in termini di prevenzione dell'insorgenza di farmacoresistenza, un fenomeno che in alcune epidemie di tubercolosi in pazienti HIV positivi ha assunto dimensioni allarmanti. Nei fallimenti terapeutici (persistenza di colture positive dopo 2 o più mesi dall'inizio del trattamento) il rischio di trovarsi di fronte a una tubercolosi farmacoresistente impone di prelevare campioni biologici per l'esame colturale e i test di farmacosensibilità, prima di sottoporre tali pazienti a nuovo trattamento. A causa dell'elevato rischio di tubercolosi farmacoresistente, questo nuovo trattamento deve essere comunque supervisionato e utilizzare almeno due farmaci attivi per 18-24 mesi. Una positiva interazione tra clinico e laboratorista, sempre auspicabile, diventa essenziale nell'approccio terapeutico al paziente con tubercolosi farmacoresistente.
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