Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alle radici della cultura europea che si esprime nelle lingue volgari neolatine si colloca la tradizione della lirica trobadorica, situata tra i secoli XII e XIII nelle corti di quella che oggi è la Francia meridionale. L’attività dei trovatori si incarna soprattutto nell’elaborazione di una lingua letteraria, l’occitanico, intorno a cui si costruisce una coscienza di “scuola” e una nuova poetica dell’amare e del cantare. I trovatori sono poeti e cantori e a loro, nel cuore dell’Europa latina, si deve l’elevazione a genere alto del canto in volgare e di quella forma poetico-musicale che ancora oggi si chiama “canzone”. Poesia e canto dei trovatori occitani
Bernard de Ventadorn
Chantars no pot gaire valer
I Trovatori
Cantare a nulla può valere / se d’entro il cuor non muove il canto; / né il canto può muover dal cuore, / senza un cordiale e fin’amore. / Perciò è perfetto il mio cantare / che intenti ho a gioia d’amore / la bocca e gli occhi e il senno e il cuore.
Testo originale:
Chantars no pot gaire valer, / si d’ins dal cor no mou lo chans; / ni chans no pot dal cor mover, / si no i es fin’amors coraus. / Per so es mos chantars cabaus / qu’en joi d’amor ai et enten / la boch’e•ls olhs e•l cor e•l sen.
La lirica praticata nelle corti dell’Occitania (l’attuale Francia meridionale) non si autodefinisce come riferibile alla musica, con il proprio apparato teorico – che all’epoca è di matrice boeziana –, ma semplicemente come prassi del “cantare”. Così, nel descrivere i suoni dei loro canti, i trovatori non fanno riferimento se non eccezionalmente a termini della teoria musicale, ma ricorrono invece a immagini prese dal mondo naturale, in primo luogo dal canto degli uccelli, per il quale esiste un lessico ricco e variegato.
Arnaut Daniel
Doutz braitz e critz
All’insegna del pesce d’oro, vv. 1-8
Dolci cinguettii e gridi
e canti e melodie e trilli
odo degli uccelli che nella loro lingua fanno preghiere,
ciascuno alla sua compagna, così come noi facciamo alle amiche delle quali siamo innamorati:
e dunque io, che della più bella sono innamorato,
debbo fare più di ogni altro una canzone di tal fattura
che non ci sia parola impropria né verso senza rima.
Testo originale:
Doutz braitz e critz
e chans e sos e voutas
aug dels auzelhs qu’en lur lati fan precx
quecx ab sa par, atressi cum nos fam
ab las amiguas en ci entendem:
e doncas ieu, qu’en la gensor entendi,
dei far chanso sobre totz de tal obra
que no.i aia mot fals ni rim’estrampa.
Arnaut Daniel, All’insegna del pesce d’oro, a cura di M. Eusebi, Milano, Testori, 1984
Quale sia il senso della lirica trobadorica è stato ed è ancora oggetto di numerosi dibattiti su diversi fronti, anche se si è riscontrata recentemente una convergenza fra gli studiosi nel riconoscere una certa varietà di modi di intendere il canto lirico nella stessa Occitania antica. Indiscutibile l’importanza, per la storia della cultura europea, dell’elaborazione di una poetica colta, centrata sull’uso della lingua volgare, nell’Europa in cui lingua di cultura è il latino. Centro tematico di tale poetica sembra l’idea della fin’amor – il cosiddetto “amor cortese” –, che trova declinazioni diverse secondo gli autori e che pure non esaurisce gli interessi delle liriche. Dante Alighieri li suddivide in tre aree: virtù, guerra e amore. Amore è invocato in quanto autentico ispiratore dell’attività poetica, poiché, come canta Bernart de Ventadorn, è dalla dedizione amorosa di bocca, occhi, senno e cuore che viene la perfezione del canto.
Tra i canzonieri che raccolgono la lirica occitanica, compilati tra Italia, Francia, Occitania e penisola iberica a partire dalla metà del secolo XIII, solo pochi contengono notazione musicale. I più antichi manoscritti con melodie di liriche d’oc sono nordici, dedicati prevalentemente alla lirica d’oïl. Il corpus melodico pervenuto corrisponde a circa 250 esempi – la decima parte di quello letterario – ma pare abbastanza rappresentativo di autori e generazioni.
La mancanza di segni ritmici nella notazione di queste melodie ha dato luogo a numerose ipotesi rispetto alla loro effettiva natura ritmica. La tesi più seguita è che esse non abbiano un profilo ritmico misurato ma seguano principalmente la declamazione del testo letterario. Ciò non toglie che il repertorio possa anche accogliere tradizioni ritmiche diverse; a ritmi di danza misurati si deve necessariamente pensare per le dansas e le estampidas, pure marginali nel repertorio.
Alcune melodie sono registrate in più fonti, con varianti anche significative, da collegarsi alla trasmissione prevalentemente non scritta di questi repertori; la trascrizione delle melodie sembrerebbe infatti successiva alla loro composizione e diffusione. Tali varianti però non offuscano in genere i caratteri delle melodie che conservano una chiara identità tra fonti diverse.
Guglielmo IX d’Aquitania
Mi sento di cantare
Pos de chantar m’es pres talenz
Pos de chantar m’es pres talenz,
Farai un vers, don sui dolenz:
Mais non serai obedienz
En Peitau ni en Lemozi.
Guglielmo IX d’Aquitania, Poesie, a cura di N. Pasero, Modena, Mucchi, 1973
Bel seiner Dieus, tu sias grasiz
Le Jeu de Sainte Agnès
Bel seiner Dieus, tu sias grasiz
Quar nos as ves tu convertiz,
Que non siam trastut periz.
Grasiz sias de nostra salut.
Le jeu de sainte Agnès. Drame provençal du XIVe siècle, a cura di A. Jeanroy, Parigi, Champion, 1931
Alcune delle melodie intonate in lingua d’oc circolano anche con testi in altre lingue, latina, francese, tedesca; in alcuni casi c’è, tra le varie fonti, un rapporto di imitazione e “prestito” diretto. Ad esempio, la melodia di Can vei la lauzeta di Bernart de Ventadorn, che vanta la tradizione più ricca, si ritrova intonata anche con diversi testi in francese e in latino. Un frammento melodico di una canzone del duca Guglielmo IX d’Aquitania è noto solo attraverso l’uso della stessa melodia nell’occitanico Mistero di sant’Agnese, del secolo XIV.
La tradizione della lirica occitanica si fa risalire al duca Guglielmo IX d’Aquitania e al visconte Eble di Ventadorn – del secondo non si conosce però nessuna lirica. Le due figure più illustri intorno alla metà del secolo XII sono il principe di Blaya, Jaufre Rudel, cantore dell’amore lontano, e Marcabru, di umili origini, aspro censore dei costumi e della morale. Tra questi autori vi sono notevoli differenze, nelle scelte tematiche così come in quelle stilistiche e forse anche in quelle melodiche.
Geoffroi de Vigeois
Scherzo ad Ebla
Recueil des historiens des Gaul
Eble si era reso molto gradito al conte Guglielmo per la sua abilità nel comporre canzoni. Un giorno egli arriva alla corte di Poitiers all’ora di pranzo. Gli fu servito un pranzo sontuoso, ma i preparativi avevano richiesto un certo tempo. Finito il pasto, Eble disse al conte: “Non era necessario disturbarsi tanto per ricevere un piccolo visconte come me.” Qualche tempo dopo, un giorno che Eble era appena tornato a casa proprio all’ora del pranzo, sopraggiunge Guglielmo che gli era alle calcagna, ed entra senza preavviso, scortato da più di cento cavalieri. Eble, comprendendo che il conte voleva prendersi gioco di lui, fa subito versare l’acqua per lavarsi le mani. Intanto si requisivano viveri presso tutti i sudditi dei dintorni e si portavano in fretta in cucina, dove si ammontinavano polli, anatre, ogni sorta di volatili. Rapidamente fu servito un festino degno di nozze regali. Verso sera, senza che Eble ne sapesse nulla, ecco venire uno dei suoi sudditi su un carro tirato da buoi, che grida: “Avvicinatevi, cavalieri del conte di Poitiers, e guardate come si distribuisce la cera alla corte del visconte mio padrone!” Sale sul carro, armato di una grossa ascia e si mette a sventrare i barili: ne cadono in gran quantità candele della cera più fine. Il suddito, come se si fosse trattato di una merce a poco prezzo, risale sul carro e se ne torna tranquillamente al suo villaggio di Maumont. A questo spettacolo il conte Guglielmo non finiva di elogiare il valore e la cortesia del suo vassallo. Più tardi Eble compensò il suddito concedendogli il feudo di Maumont a titolo ereditario.
Si individua in un nutrito gruppo di autori, attivi tra la seconda metà del secolo XII e l’inizio del seguente, il periodo “classico” della lirica occitanica, cui porrebbe un limite ad quem l’espansione francese in terra d’oc. In un certo senso, “classico” è anche Bernart de Ventadorn, benché cronologicamente precederebbe poeti come Guiraut de Bornelh, Bertran de Born e Arnaut Daniel, celebrati dallo stesso Dante.
Il nomadismo distingue l’attività di molti trovatori, nobili o di altra estrazione. Il duca Guglielmo IX va alla crociata di Terrasanta e combatte nella penisola iberica. Jaufre potrebbe essere morto a Tripoli. Marcabru passerebbe dalla corte del figlio di Guglielmo IX a quella del re di Castiglia Alfonso VII. Esponenti delle generazioni “classiche” come di quelle successive sono spesso nelle corti di diverse aree europee, in Italia, nella penisola iberica e a nord. Peire Vidal avrebbe soggiornato anche presso la corte d’Ungheria.
L’egemonia francese non interrompe la tradizione lirica in lingua d’oc ma ne muta profondamente il contesto culturale e l’area geografica, finché nella seconda metà del secolo XIII la crisi dell’identità occitana e lo sforzo di conservazione appare evidente nella produzione di raccolte manoscritte, grammatiche e trattati di poetica, fino a quando il tolosano Consistòri del gai saber, nel secolo XIV, promuove concorsi poetici e fa redigere l’imponente trattato Las flors del gay saber estier dichas las Leys d’amors.
Joan de Castelnou
Las flors del gay saber estier dichas las leys d’amors
Monumens de la Littérature Romane
Tre cose sono necessarie in ogni tempo per fare un’opera: e se una di queste manca, l’opera non può giungere al termine né alla perfezione. Volere è la prima cosa: essa pone il fondamento di ogni opera. Sapere è la seconda cosa: essa dispone l’opera come si deve. Potere è la terza cosa: essa porta a compimento l’opera; e quando il potere manca, le altre cose servono a poco. Ma queste tre cose nessuno può averle senza Dio: poiché tutti i beni vengono da Dio, e senza di Lui, nulla può essere fatto. Perciò lo preghiamo umilmente che ci venga in aiuto e ci doni sapere, potere e forza, poiché noi abbiamo la volontà, di redigere le leggi d’amore, secondo i buoni antichi trovatori.
Joan de Castelnou, Monumens de la Littérature Romane, trad. a cura di Aguilar e Escouloubre, rivista e corretta da Gatien-Arnoult, Toulouse, Paya, 1841-1843
La lirica occitanica cortese compare tutta strutturata secondo principi metrici e melodici analoghi a quelli della nuova canzone latina, con frasi melodiche regolari e spesso simmetriche, versi ad accentazione qualitativa, rime e forma strofica regolare, con la ripetizione della melodia di strofa in strofa.
Il repertorio presenta due diverse tendenze nella composizione della melodia, che è comunque sempre misurata sulla strofa: melodie basate sulla ripetizione di stesse frasi melodiche (come la maggior parte di quelle di Bernart de Ventadorn); melodie nella forma dell’oda continua, senza ripetizioni interne alla strofa, cui sembra legarsi l’ideale di uno stile più “alto” (come Can vei la lauzeta dello stesso Bernart de Ventadorn o le due melodie rimaste di Arnaut Daniel).
Studi recenti mostrano come le melodie dei trovatori non siano conformi all’idea comune secondo la quale seguirebbero formule indifferenti al testo letterario e, al contrario, rivelano come invece rispondano, a vari livelli, alle sollecitazioni dello stesso – si veda, ad esempio, quanto scrive Elizabeth Aubrey. Uno stile melodico caratterizzato da una “dolce” e ordinata gradazione nel salire e scendere dell’intonazione sembra riconducibile proprio alla canzone amorosa e lo si ravvisa nelle melodie di Jaufré Rudel e in quelle di Bernart de Ventadorn, come nella sola melodia pervenutaci per un tema d’amore tra le liriche di Marcabru. Nella tenzone tra un certo Peire e Bernart de Ventadorn viene rievocato il repertorio letterario e melodico del Limosino, istituendo un sottile gioco parodistico che sottende una coscienza della personalità artistica del trovatore.
Il cosiddetto contrafactum – nuovo testo per una melodia preesistente, attestato in un certo numero di esempi pervenuti – non può essere inteso come una prassi rappresentativa dell’atteggiamento generale verso la melodia e deve pur confrontarsi con l’insistenza, sia nei testi lirici sia nei trattati, sul carattere di novità che deve avere soprattutto la melodia della canzone di tema amoroso.
Il termine usato per definire le liriche nelle prime generazioni trobadoriche è vers, corrispondente al latino versus, a prescindere da differenze contenutistiche, stilistiche e formali. Ben presto emerge anche canso ma ancora il trovatore Raimbaut d’Aurenga sostiene l’intercambiabilità dei due termini. Raimon Vidal, forse all’inizio del secolo XIII, distingue i componimenti in base a un denominatore linguistico: lingua francesca per romanzi e pastorelle, l’occitanico (lemosin) per vers et cansons et serventes. Raimon raccomanda inoltre che si tenga conto dell’unità della materia trattata, la razo, successivamente indicata come principale elemento distintivo tra i generi.
Un vero e proprio sistema dei generi (dictats) sembra delinearsi solo nei trattati del secolo XIII, in particolare nella Doctrina de compondre dictats, in cui si indicano con il termine canso i componimenti che hanno tema amoroso, mentre sirventes sarebbe usato per i temi politici o morali, benché nel repertorio questi aspetti si trovino spesso accostati nella stessa lirica. Una distinzione fondamentale tra i due generi, secondo i trattati, riguarderebbe il livello melodico: mentre la canso deve avere una melodia nuova, fatta dal poeta che è anche autore del testo lirico, per il sirventes è indicato l’uso di melodie non originali. Forme esplicite di dialoghi poetici, reali o fittizi, sono la tenso e il partimen, in cui due o più interlocutori cantano a strofe alterne, usando anche melodie preesistenti. La maggioranza di melodie pervenute riguarda comunque esempi di canso amorosa, mentre per gli altri generi le melodie disponibili si contano sulle dita di una mano. Spesso le indicazioni dei trattati non trovano conferma nei caratteri del repertorio; per le melodie dei generi “minori”, come la pastorela, l’alba, il planh, è difficile trarre conclusioni a riguardo, data la scarsità di esempi melodici pervenuti.
La tipologia sociale dei trovatori è quanto mai varia fin dalle prime generazioni, secondo quanto si legge anche nelle vidas, brevi racconti biografici contenuti in alcuni dei canzonieri. Trovatore dell’alta nobiltà è il duca Guglielmo IX e nobile è anche Jaufre Rudel, mentre origini umili avrebbe Bernart de Ventadorn e qualche nome apparterrebbe alla borghesia, come Folquet de Marselha e Peire Vidal.
La qualifica di trovatore, dal mediolatino tropator (da tropus), non denota uno stato sociale né una professione ma la stessa attività poetica dell’inventare liriche, parole e melodie. Tra i trovatori si annoverano anche alcuni giullari, quali Perdigon, Albertet e Pistoleta.
Jean Boutière e Alexander Herman Schutz
Sulla vita di Giraut de Bornelh
Biografie dei Trovatori
Girautz de Bornelh era del limosino, del paese di Excideuil, un ricco castello del visconte di Limoges. Di umile condizione, ma savio uomo di lettere e di senno naturale. E fu miglior trovatore di tutti quelli che erano stati prima e furono dopo di lui, e per questo fu chiamato Maestro dei trovatori, e lo è ancora per tutti quelli che si intendono di poesie amorose e morali, sottili e ben congegnate […]. E la sua vita era tale che per tutto l’inverno stava a scuola [!?] e imparava le lettere, e tutta l’estate andava per le corti e conduceva con lui due cantori che cantavano le sue canzoni. Egli non volle giammai prender moglie, e tutto quello che guadagnava lo donava ai suoi parenti e alla chiesa della città in cui era nato, la qual chiesa aveva nome, ed ha ancora, Saint-Gervais.
in Biographies des Troubadours, a cura di J. Boutière e A.H. Schutz, Parigi, Nizet, 1950
I trovatori compongono solitamente parole e melodia, e le vidas sottolineano spesso le maggiori o minori abilità letterarie o musicali di questi poeti. Le testimonianze fanno pensare a una composizione cui il poeta dedica tempo e lavoro lento e paziente; in alcuni casi di tenzoni si è di fronte invece a testimonianze certe di improvvisazione pubblica. Si è ipotizzata la scrittura del testo per metterlo a disposizione di giullari o di destinatari diversi, mentre più difficile è argomentare quale fosse l’apporto dello scrivere nella composizione stessa – né forse lo si può ricondurre a un univoco denominatore. Si è parlato per le liriche dei trovatori di “intertestualità” e di “dialogismo”, e frequenti sono i casi di dibattiti a distanza tra poeti, i quali si producono in liriche diverse intorno a uno stesso tema abbondando in imitazioni e citazioni; le tenzoni sono solo i casi più evidenti di prassi dialogiche.
Al centro del “rituale” lirico c’è il cantore cui un pubblico presta attenzione – che spesso però è difficile mantenere con continuità. Pare opportuno pensare a una varietà di situazioni per l’ascolto, in cui sembrano prevalere però occasioni private, con pubblico limitato, più che momenti di festa con pubblico numeroso. Non sembra inoltre che un’enfasi mimica fosse particolarmente apprezzata e che quindi il pubblico cortese non attendesse comunque una rappresentazione “drammatica”. Rare sono le raffigurazioni e scarsi sono i riferimenti agli strumenti musicali, la cui presenza è stata collegata da alcuni studiosi all’esecuzione di repertorio in uno stile più basso, “popolarizzante”.