SAVELLI, Troilo
SAVELLI, Troilo. – Nacque da Troilo (che gli premorì il 18 aprile 1574 in seguito a una ferita riportata nella battaglia di Lepanto) e da Flaminia di Pietro Cesi, duca di Acquasparta.
Signore di Palombara, Castel Chiodato, Poggio Mariano, Aspra – che fu acquistata per lui dalla madre nel 1585 – e Contelupo, fu educato dalla madre, che lo affidò a «molti dotti» che insegnarono «non solo l’humanità, ma la filosofia ancora», come si ricordava in una tarda relazione sulla sua vita (Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat. 1704, cc. 297r-307r, cit. da Paglia, 1982, p. 167). Molto stretti erano i rapporti della madre e della sua famiglia di origine con Filippo Neri e la Congregazione dell’oratorio.
Dai sedici anni di età iniziò a condurre una vita dissoluta e violenta, frequentando meretrici, ‘bravando’ sia a Roma sia nei suoi feudi, insieme con altri rampolli di famiglie baronali romane come Conti e Caetani. Omicidi, saccheggi, abigeati furono compiuti con la banda capeggiata da Cola Gaetano (Niccolò Caetani) in Sabina e nelle terre dei Caetani di Maenza. Ignorando i bandi che Sisto V emanava per reprimere la prostituzione, Savelli in maniera provocatoria sfidava con altri nobili romani, insieme con Vittoria, sua ‘amica’, l’autorità del papa. La sua condotta divenne esasperante anche per le conseguenze sulla famiglia, in un momento di particolare attenzione di Sisto V e dei suoi successori ai comportamenti devianti e violenti della nobiltà romana, punita in maniera eclatante, come mostravano clamorosi episodi che assunsero un valore esemplare del rigore pontificio nei confronti della nobiltà violenta e collusa con i banditi. In questa politica repressiva non mancavano certamente le motivazioni economiche: la Camera Apostolica, infatti, confiscava i beni nobiliari, entrando in possesso di feudi che, spesso, venivano assegnati a personaggi graditi al papa o a esponenti della sua stessa famiglia.
Fu così che la madre Flaminia Cesi, ripetutamente minacciata, seviziata e percossa da Troilo, chiese a Clemente VIII, appena eletto, di intervenire e far arrestare il figlio. Savelli fu catturato a Roma in casa della sua ‘amica’ Vittoria e condotto prigioniero in Castel Sant’Angelo. Il 29 febbraio 1592 iniziò il processo dinanzi al governatore Desiderio Guidoni e l’interrogatorio fu condotto, almeno in parte, dal sostituto fiscale Tranquillo Ambrosino, autore di un noto manuale di pratica processuale (Processus informativus, sive de Modo formandi processum informativum brevis tractatus, Mediolani 1598). Savelli fu interrogato il 1° marzo 1592 nel carcere di Castello.
Nel corso del processo furono ascoltati anche Vittoria e suo fratello Santino e, proprio nel corso delle loro deposizioni, si palesarono i numerosi e costanti contatti con le più temibili compagini di banditi e le molteplici complicità di esponenti della nobiltà e del baronaggio romano nelle azioni criminose di Savelli che, ormai, raccontava numerosi dettagli dei suoi crimini. Così erano stati implicati esponenti della famiglia Monaldeschi, Luca della Cervara, ben noto alla giustizia romana per i suoi ‘eccessi’, alcuni parenti «delli card. Justiniani et Simoncello»; era accusato di aver dato ricetto a banditi Torquato Conti, duca di Poli, «che se ne sta a Poli suo castello, defendendosi bene dalle querele che li sono date di haver raccettato i banditi et per l’istessa causa si è fuggito Horatio, figliolo di Federigo Conti», come riferiva un avviso di Roma (Urb. lat. 1060, I, c. 147rv). Savelli aveva giustificato di essersi contornato di banditi «perché io havevo suspecto del Duca Savello [Bernardino Savelli] et li recettai con questa conditione che non dovessero far furberia alcuna [...] doppoi io intesi che facevano molte furbarie et che haveva tractato col duca Savello di farmi ammazzare» (Archivio di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi del secolo XVI, vol. 260 bis, cc. 313v-314r).
Come si evince, Savelli era già stato rinchiuso in Castello nell’autunno del 1591 e dalla prigione nel novembre dello stesso anno aveva scritto una lettera (c. 279r), allegata agli atti del processo del 1592, in cui commentava sarcasticamente le testimonianze rese contro di lui da «Giovanni venetiano» e impartiva anche ordini alla corte per punirne l’insolenza: «quest’huomo straparla et ardisce metter la bocca in cose che non deve un vassallo. Non mancherete subito di dar 3 tratti di corda perché questa è la mente mia» (c. 297r). I legami familiari con esponenti di spicco della Curia avevano spinto Savelli per ben due volte a cercare di essere graziato dei suoi crimini dai pontefici che erano succeduti a Sisto V. Nel corso del processo dichiarò infatti di aver dato a Gregorio XIV una lista dei suoi crimini, ma il papa «non ha spedito il Breve [di grazia] per la morte sua», e di aver ripetuto il tentativo di ottenere la grazia da Innocenzo IX, dopo aver dato la lista dei suoi misfatti al governatore di Roma Guglielmo Bastone «per mano di mons. Domenico Savorgnano, nipote del fiscale», ma anche questa volta senza successo.
Oltre ai crimini puntualmente confessati negli interrogatori, il fiscale pose al testimone Paolo Spina, notaio, la domanda se Savelli «ha altre volte sparlato de Iddio et del Papa e con che parole». La risposta del teste fu chiara: «Io ho inteso dire publicamente che il detto Sr Troilo disse che non haveva paura ne de Iddio ne del Papa ne anco del Diavolo che era suo amico»: la ricerca di crimini contro la fede e di proposizioni ereticali più o meno esplicite divenne assai frequente nei processi celebrati dal governatore contro esponenti della nobiltà.
I suoi legami con banditi famosi e con altri nobili facinorosi fecero circolare il timore del «pericolo di tumultuare Roma di notte nella Sede Vacante» (c. 261r). La cattura e il processo destarono curiosità e preoccupazione non solo a Roma, proprio per il coinvolgimento della nobiltà negli ‘eccessi’ compiuti da Savelli e dalle bande a lui fedeli.
Un avviso dell’11 marzo 1592 palesava il timore che la vicenda stava diffondendo: «Si dice che il Sig. Troilo Savello habbia confessato intieramente quanto pretendeva la Corte contra di lui et in particolare, oltre allo scritto che dovendo dare 200 scudi ad uno, lo facesse chiamare et uccidere per camino. Che alla sua Puttana sia stato trovato un vezzo di perle di 1500 scudi, tolto all’ultimo corriero di Venezia che fu assassinato, oltre alla continoa prattica che haveva con banditi et altre cose brutte et ha da vantaggio questo Savello intrigati più di 30 nominandoli per recettatori de banditi, secondo una lista data al Bargello di Roma che la va esseguendo…» (Urb. lat. 1060, I, c. 147r).
Cominciarono a fuggire da Roma per sottrarsi alla cattura alcuni suoi complici, come Orazio, figlio di Federico Conti; altri furono catturati, come «due Monaldeschi».
Il processo terminò il 29 marzo 1592 e per Savelli la fine era ormai segnata: il gesuita Angelo Biondi redasse un ampio testo della ‘conforteria’, destinato a diventare un modello per chi assisteva i condannati a morte e a diffondere un esempio di conversione del condannato davanti al patibolo. Nella ‘conforteria’ di Biondi si raccontano particolari sui rapporti con Filippo Neri, padrino alla cresima di Savelli, che avrebbe perorato la sua liberazione presso Clemente VIII e sarebbe stato rassicurato, e addirittura contento, per la certezza della salvezza della sua anima dopo l’esecuzione capitale, grazie alla conversione e al pentimento per i crimini commessi.
Il giovane Savelli fu decapitato il 18 aprile 1592 nel cortile di Castel S. Angelo e il suo corpo fu esposto a Ponte «sopra un palco con due torce bianche accese et la sera portato nella Chiesa Nova a Pozzo Bianco, ove fu sepolto; andò al patibolo contento et la Camera Apostolica ha preso possesso di Palombara et d’altri suoi luoghi per più di 6 mila scudi d’entrata…» (Urb. lat. 1060, I, c. 253v). In S. Maria della Vallicella fu sepolto di fronte alla cappella dell’Assunta.
L’avviso sintetizzava efficacemente il successo, simbolico e reale, che la morte di Savelli aveva avuto per la politica di Clemente VIII. Come molte altre ‘giustizie’ – racconti di processi ed esecuzioni capitali di criminali famosi, nobili e non – anche la narrazione della morte di Savelli conobbe una vasta diffusione manoscritta così come la ‘conforteria’, che fu tradotta in francese e inglese: Discours pitoyable de la mort du seigneur Troïle Savelle, décapité à Rome en l’âge de dixhuict ans, dans le chasteau Sainct-Ange, le samedy XVIIIe d’avril 1592, sur les huict heures et demie du matin [...] Par le P. G. Blondo, Traduit d’italien en françois par P.D.P. [P. de Pellevé], Paris 1600; The Penitent bandito, or the History of the conversion and death of the most illustrious lord signor Troilo Savelli, a baron of Rome. The 2d edition, by sir T.M. Matthews, knight, s.l. 1663. Numerose le relazioni della vita e della fine di Savelli che continuarono a circolare manoscritte e a stampa; nel testo furono aggiunti particolari spesso fantasiosi, alterando nomi di persone e riferimenti cronologici (Urb. lat. 1704, cc. 297r-307r, cit. in Paglia, 1982, pp. 159-162).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi sec. XVI, vol. 260 bis, cc. 209r-332r, 340r-367r; Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat., 1060, I, cc. 147r, 253v; 1704, cc. 297r-307r; V. Paglia, La morte confortata. Riti della paura e mentalità religiosa a Roma nell’età moderna, Roma 1982, ad ind.; I. Fosi, La società violenta. Il banditismo nello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1985, pp. 209-211, 289.