Troiani
La gloria di costituire l'Impero universale di Roma era riservata ai discendenti dei T. superstiti che, dopo la lunga guerra in cui la loro virtù aveva dovuto soccombere dinanzi all'insidia dei Greci e la conseguente distruzione di Troia, approdarono dopo infiniti travagli, sotto la guida di Enea, sulle coste del Lazio. Lasciando, come osserva il Renucci (D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, 253), ai Tebani, che popolano i cerchi infernali, il triste monopolio degli orrori, degli odi, delle crudeltà e dell'empietà, D. mise in risalto dei Greci soprattutto l'astuzia volta al male e relegò, salvo rare eccezioni, i T. nel Limbo, sino a osare di collocare nel Paradiso (XX 67 e 118 ss.) quel Rifeo, di cui Virgilio aveva detto: " iustissimus unus / qui fuit in Teucris et servantissimus aequi " (Aen. II 426-427). Per D. i Romani sono i diretti discendenti dei T., coi quali talvolta osa anche identificarli, sicché in tutti i passi del corpus dantesco in cui se ne fa menzione, questi ultimi sono sempre considerati in funzione di questa sua convinzione che, come si sa, costituisce un aspetto molto importante dell'interpretazione che egli dà del formarsi dell'Impero universale di Roma e della sua funzione nella storia del mondo.
Una menzione dei T. è in If XIII 11, ove D. descrive la selva dei suicidi trasformati in piante straziate dalle Arpie, che cacciar de le Strofade i Troiani / con tristo annunzio di futuro danno. Vi si riecheggia la profezia che una di esse, Celeno, fa alla fine del passo virgiliano (Aen. III 209 ss., rielaborato da D. in nuova sintesi nella descrizione delle Arpie) in cui si narra dell'approdo dei T., dopo una tempesta, nelle Strofadi, isole del mare Ionio, abitate da questi esseri mostruosi, che insozzarono le loro mense prima di costringerli a prendere il largo (Aen. III 253-257; v. ARPIE).
In Cv III XI 16, a esemplificazione dell'asserto che tanto il termine degli atti, quanto il termine delle passioni sono chiamati talvolta col medesimo nome dell'atto e della passione, D. adduce l'esempio di Virgilio nel secondo de lo Eneidos, che chiama Enea [a Ettore]: " O luce ", ch'è atto, e " speranza de' Troiani ", che è passione, ché non era esso luce né speranza, ma era termine onde venia loro la luce del consiglio, ed era termine in che si posava tutta la speranza de la loro salute. Egli ricorda qui le parole che Enea rivolge all'ombra di Ettore apparsagli in sogno in Aen. II 281 ss., come subito dopo cita da Stazio (Theb. V 608) quelle che Isifile rivolge al morto Archimoro. Il passo dell'Eneide e il contesto del Convivio (ché non era esso luce) richiedono che Ettore sia esplicitamente ricordato: Busnelli-Vandelli leggono chiama Enea [a Ettore], la Simonelli E[ttore per bocca di E]nea (v. ENEA; ETTORE).
In Cv IV XXVI 11, trattando di ciò che si conviene alla gioventù, sì come cosa che è nel meridionale cerchio (§ 10), per cui guarda e ama li suoi maggiori e li suoi minori, ricorda l'amore che testimonia avesse Enea lo nomato poeta nel quinto libro sopra detto, quando lasciò li vecchi Troiani in Cicilia raccomandati ad Aceste, e partilli da le fatiche, riecheggiando, appunto, Aen. V 711 ss., dove il vecchio Naute consiglia Enea a seguire il suo destino lasciando in Sicilia, in seguito alla perdita delle quattro navi, tutti quelli che sono diventati di troppo (i vecchi e le donne). Così Virgilio faceva continuare a Enea il suo ‛ fatale andare ' dopo il triste episodio (V 604 ss.) in cui si descrive l'incendio e la parziale distruzione della flotta provocati dall'implacabile odio di Giunone che invia dal cielo Iride sotto le sembianze di Boroe a suscitare nelle donne troiane il compianto per le continue traversie loro imposte: " taedet pelagi perferre laborem " (V 617; v. ACESTE; ENEA). Quest'episodio è ricordato da D. anche nel IV girone del Purgatorio (accidiosi), come secondo esempio di accidia punita, accanto a quello degli Ebrei (XVIII 133-135), che, dopo aver attraversato miracolosamente il Mar Rosso, si mostrarono restii a seguire ancora Mosè, che li guidava, e furono fatti morire tutti da Dio nel deserto: E quella che l'affanno non sofferse / fino a la fine col figlio d'Anchise, / sé stessa a vita sanza gloria offerse (vv. 136-138). Come subito prima negli esempi di sollecitudine (vv. 100-102), così anche qui il primo esempio si riferisce al regno di Dio, il secondo all'Impero universale voluto da Dio. D., riprendendo arditamente in nuova sintesi l'episodio virgiliano, ne conserva l'elemento caratterizzante (Aen. V 617, 713-714), sottolineando icasticamente nel v. 138 l'accidia di quella gente che, scegliendo di vivere sanza gloria, non volle cooperare alla realizzazione dell'alto disegno provvidenziale (v. ACESTE).
Come Davide è la radice dell'avvento del Messia, così Enea è la radice dell'Impero universale di Roma. Non a caso secondo D. tutto questo fu in uno temporale (Cv IV V 6), non a caso la caduta di Troia riveste per il poeta un profondo significato e segna, come ha rilevato il Renucci (op. cit., p. 218), l'inizio del viaggio di Ulisse oltre quella foce dov'Ercule segnò li suoi riguardi (If XXVI 108), che rappresenta anche il limite dell'Impero universale di Roma, cui darà invece origine il troiano Enea una volta approdato, dopo infiniti travagli, sulle coste del Lazio, meta del suo viaggio. L'Impero universale di Roma, destinata ad accogliere il Verbo dell'incarnazione, si realizzava quindi per un disegno provvidenziale, com'è dato vedere da Cv IV V (e non puose Iddio le mani proprie, § 18) e dai corrispondenti passi della Monarchia. A un momento di questo lungo travaglio si riferisce D. in Mn II IX 15, quando scrive: Cumque duo populi ex ipsa troyana radice in Ytalia germinassent, romanus videlicet et albanus, atque de signo aquilae deque penatibus aliis Troyanorum atque dignitate principandi longo tempore inter se disceptatum esset, ad ultimum... per tres Oratios fratres hinc et per totidem Curiatios fratres inde... decertatum est (cfr. Cv IV V 18). In questo passo, per il quale D. si appella all'autorità di Livio e Orosio (v.), egli parla della contesa dei due popoli derivanti ex ipsa troyana radice. Nonostante la tradizione (aliis), difesa dal Ricci, è da preferire la congettura diis, paleograficamente ineccepibile, del Witte, accolta dal Bertalot e dal Rostagno e sostenuta recentemente dal Mariotti (Il canto VI del " Paradiso ", in Nuove lett., Firenze 1972, 389); si pensi che il Ficino aveva nella sua traduzione " degli dei famigliari ".
Al momento iniziale di questo spezial nascimento e spezial processo (Cv IV V 10) allude D. in If XXVI 59-60, quando ricorda tra gli atti fraudolenti di Ulisse e Diomede l'agguato del caval che fé la porta / onde uscì de' Romani il gentil seme, dove porta sta a indicare qualcosa di più che la breccia aperta nelle mura della città per l'agguato del caval (a proposito del quale in Virgilio non si fa parola di Diomede, ma solo, anche se di sfuggita, di Ulisse: cfr. Aen. II 44 " sic notus Ulixes? ") che " fu causa della caduta di Troia, quindi della fuga di Enea, e quindi di tutte le conseguenze anche indirette di tal fuga, come la fondazione di Roma " (D'Ovidio, Nuovi Studi, II 486). Sulla nobiltà di Enea, " Romanae stirpis origo " (Aen. II 166), D. insiste in Mn II III 11 ss. (v. TROIA), dove cita i passi dell'Eneide in cui Virgilio sottolinea codesta nobiltà e insieme quella della schiatta dei Teucri (Aen. VIII 134-137, cit. in Mn II III 11), che sono considerati come i progenitori dei Romani in Mn II VIII 11, ancora una volta mediante la citazione di un passo virgiliano in cui D. vedeva un profetico presagio della grandezza di Roma (Aen. I 234-236).
Questo rapporto di discendenza, che costituisce uno dei punti fermi della concezione dantesca, è esplicitamente dichiarato in Cv IV IV 10 E però che più dolce natura [in] signoreggiando, e più forte in sostenendo, e più sottile in acquistando né fu né fia che quella de la gente latina - si come per esperienza si può vedere - e massimamente [di] quello popolo santo nel quale l'alto sangue troiano era mischiato, cioè Roma, Dio quello elesse a quello officio. Ma c'è di più, se si considera If XXVIII 10, dove si legge: S'el s'aunasse ancor tutta la gente / che già, in su la fortunata terra / di Puglia, fu del suo sangue dolente / per li Troiani e per la lunga guerra / che de l'anella fé sì alte spoglie, / come Livïo scrive, che non erra. Per D. Troiani e Romani (v.) sono, come notava già il Foscolo, " tutt'uno ". Non vi sono validi motivi per dubitare della ‛ lectio difficilior ' Troiani (alla quale alcuni, come per es. il Torraca, preferiscono la variante tarda Romani), che, come ha dimostrato il Petrocchi, " si impone anche per la perspicuità dell'espressione ". Egli nota che " è estremamente improbabile che il poeta abbia voluto far riferimento a due fatti distinti: la guerra dei veri e propri Troiani, e cioè i compagni di Enea, e la seconda guerra punica (benché Pietro Alighieri parli della guerra di Enea come svoltasi in quella parte della Puglia che si chiamava Laurentia) " e conclude, col Chimenz, che si tratta di un'endiadi " per la lunga guerra dei Troiani o Romani ".
In Ep V 11 D., servendosi di concetti e immagini che poi " assumeranno, come notava il Torraca, veste poetica nella Commedia ", si rivolge ai popoli d'Italia esortandoli a deporre la barbarie accumulata e a far posto a ciò che resta dell'eredità dei T. e dei Latini: Pone, sanguis Longobardorum, coadductam barbariem; et si quid de Troyanorum Latinorumque semine superest, illi cede, ne cum sublimis aquila fulguris instar descendens adfuerit, abiectos videat pullos eius (v. LONGOBARDI).
Nella nostalgica rievocazione, per bocca di Cacciaguida, di un modo di vita tramontato per sempre riaffiora il ricordo dei T. innestato nella storia delle più remote tradizioni cittadine, fatte rivivere, come l'altra dolce fatica di addormentare il bambino, nell'atmosfera riposante di un'umile casa: l'altra, traendo a la rocca la chioma, / favoleggiava con la sua famiglia / d'i Troiani, di Fiesole e di Roma (Pd XV 126). Si tratta dei tre cicli di leggende più cari ai Fiorentini, assai diffusi in quei tempi e a cui peraltro anche D. credeva. Dei Troiani, osserva il Buti, si raccontava " come vennono in Italia sotto lo guidamento d'Enea, loro duce ". Assai divulgati erano i racconti su Fiesole e Firenze, le cui storie s'intrecciavano, in vario modo, con quelle dei T. e di Roma (cfr. Mn II IX 15). Di questi tre cicli di leggende sono piene le storie e le cronache anche in tempi posteriori a quelli di D. (cfr., per es., Boccaccio Ameto, ediz. Bruscoli, pp. 135-136; in G. Villani I 6 ss. la loro materia leggendaria si atteggia in forma storica). Così in VE I X 2, procedendo a un confronto delle tre lingue dell'ydioma tripharium, D. osserva che la lingua d'oïl, per essere di più facile e gradevole divulgazione, rivendica a sé quicquid redactum sive inventum est ad volgare prosaycum... videlicet Biblia cum Troianorum Romanorumque gestibus compilata, alludendo molto probabilmente a quelle storie utiiversali, correnti nel Medioevo, in cui le gesta dei T. e dei Romani trovavano ampio spazio.
In If XXX 14, nel secondo dei due esempi di cui egli si serve per illustrare la condizione della seconda categoria dei falsari, il poeta condanna l'orgoglio dei T. pronti a tutto osare (E quando la fortuna volse in basso / l'altezza de' Troian che tutto ardiva, / sì che 'nsieme col regno il re fu casso). Egli considerava, come sappiamo, la distruzione di Troia determinata dalla sua superbia (v. TROIA). Subito dopo (v. 22) l'immagine di Ecuba, che sotto il peso della sventura forsennata latrò sì come cane (v. 20), gli suggerisce l'espressione furie troiane. In Pd XX 68 egli parla di Rifëo Troiano, che colloca tra i pagani beati nel cielo di Giove, ricordando certamente quanto Virgilio aveva detto di lui in Aen. II 426-427.
Infine, in Vn XXV 9, D. ricorda quello che Virgilio fa dire da Giunone, cioè una dea nemica de li Troiani, a Eolo, nel primo de lo Eneida: Aeole, nanque tibi (v. 65), e la risposta di questo: Tuus, o regina, quid optes explorare labor; michi iussa capessere fas est (vv. 76-77). Egli conosceva, ovviamente, dall'Eneide l'inimicizia della dea; verso i T., ma il rilievo col quale ne fa menzione in questo scritto sta a dimostrare che nella mente del poeta non era ancora definitivamente delineato l'alto significato che per lui avrebbe rivestito la caduta di Troia e il viaggio di Enea in Italia.