TROIA (Τροία, "Ιλιον; Troia, Ilium)
La regione nord-occidentale dell'Asia Minore e di quella parte dell'Asia Minore che si chiamò poi Eolide, dominata dalla catena del monte Ida e percorsa in senso SE.-NO. da due grandi fiumi, lo Scamandro e il Simoenta, era conosciuta dagli antichi sotto il nome di Troade. Città capitale della Troade sino da tempi lontanissimi, fu Troia, fin dal tempo di Omero detta anche Ilio (l'identificazione di Ilio con la Vilusa dei testi hittiti è generalmente respinta).
Un eroe Dardano, oriundo dalla Tracia, è indicato dalla leggenda come il fondatore nella Troade, di una prima città, Dardania, e il capostipite di una dinastia la quale ebbe a estendere il suo dominio su tutta la Troade. A Dardano succede, secondo i mitografi, il figlio Erittonio; ad Erittonio il figlio Tros o Troe (che dà il nome a una nuova città e alla regione, la Troade); a Troe il figlio Ilo (donde la denominazione di Ilio). Dalla discendenza di Assaraco, altro figlio di Troe, nascerà Anchise. Da Ilo e da Euridice nasce Laomedonte, il quale ingrandisce e rende potente il suo regno. La città di Troia è però ancora priva di solide mura di difesa. Dietro un pattuito compenso, Apollo e Posidone si assumono l'impresa di erigere a Laomedonte le mura di cinta della città di Troia. I rapporti di Laomedonte con Apollo e Posidone dapprima, e successivamente con Eracle che gli salva da sicura e crudele morte la figlia Esione, sono noti per la malafede in entrambi i casi dimostrata da Laomedonte. Eracle, furioso per la mancata parola, uccide Laomedonte e riduce a mal partito la città. Priamo, figlio e successore di Laomedonte, conferisce nuovo lustro e decoro alla città capitale e al suo regno. Dei molti figli di Priamo e di Ecuba, Paride sarà causa dell'ultima e definitiva rovina di Troia.
Al fine di vendicare l'affronto recato da Paride al potente re di Sparta Menelao col ratto della sposa Elena, e per ricuperarne la donna, gli Achei effettuarono contro il regno di Priamo quella spedizione che portò all'assedio della città di Troia e alla caduta della città, con l'abile stratagemma del cavallo di legno (come si narra da Virgilio nel libro II dell'Eneide). La caduta di Troia dopo nove anni di assedio, e la sua distruzione spietata, sono datate dagli antichi cronografi all'anno 1184 a. C. Con la fine dello stesso sec. XII a. C. si suole far coincidere la fine di quella civiltà preellenica che si dice "micenea" (v. cretese-micenea, civiltà). Sempre secondo la leggenda poetica, la distruzione della città e lo sterminio degli abitanti permettono a pochi di salvarsi. Tra i superstiti sono Eleno, figlio di Priamo, ed Enea, figlio di Anchise. Entrambi abbandonano i luoghi divenuti inospitali, rifugiandosi il primo nell'Epiro, il secondo navigando verso le fatali spiagge d'Italia.
Il complesso di così epici avvenimenti facenti capo all'Iliade e ai poemi ciclici, fu da taluni ritenuto per lungo tempo, sino alla fine del sec. XIX, semplice creazione di poeti. Gli scavi (v. appresso) permisero di identificare esattamente il sito della città leggendaria, come pure di constatare che la città corrispondente al VI strato archeologico identificato dagli scavi era appunto la città omerica, soggiaciuta a distruzione in un tempo assai prossimo a quello voluto dalla tradizione poetica.
È assai verosimile che in seguito alla totale rovina, ogni superstite elemento autoctono andasse disperso. Meno certo sembra che i vincitori, quali si fossero, anche senza la decennale durata dell'assedio, e senza le epiche vicende connesse con la caduta della città, abbiano abbandonato il paese trascurando di prenderne, in qualche modo, stabile possesso; per quanto nessuna espressa notizia si possieda riguardo alla città di Troia, anteriormente al sec. VIII-VII a. C. In codesta età protostorica la regione fu invasa da tribù barbare di Treri e di Cimmerî, provenienti dalla Tracia. Per il medesimo oscuro periodo pare assodato che già prima del 700 a. C. era affidata a fanciulle locresi (in espiazione, a quel che si diceva, del sacrilegio di Aiace di Oileo) la cura del culto nel santuario di Atena Ilia (Polibio, XIII, 5), eretto sulle rovine di Ilio-Troia. In rapporto con l'allontanamento delle tribù barbare, nel corso del sec. VII, Eoli e Tessali colonizzatori occupano il territorio della Troade, fondandovi città costiere, come Neandria e Assos, popolando limitatamente l'interno.
Nel sec. VI e V a. C. l'abitato di Ilio non ha altra importanza che quella che gli deriva dal santuario di Atena, centro religioso riconosciuto di tutto il territorio. Di passaggio per recarsi ad Abido, nel 480 a. C., Serse celebra a Ilio un sacrificio solenne di 1000 buoi. Un altro sacrificio solenne vi celebra, nel 411, Mindaro, comandante della flotta peloponnesiaca. Per breve tempo, tra la fine del sec. V e il principio del IV, la città fa parte della satrapia persiana di Frigia. Alternativamente, poi, nel corso del sec. IV, Ilio riceve l'autonomia da parte dei Greci (Dercilida, Caridemo), e ricade sotto la dominazione persiana.
Un'era nuova e migliore incomincia per la città in seguito all'interessamento di Alessandro il Macedone. Recatosi questi nel 334 a Troia, vi celebrava un solenne sacrificio in onore della dea Atena, e largiva alla città, in omaggio al suo leggendario passato, l'esenzione dai tributi: e forse anche, come sembra, il diritto di battere moneta. Si forma quindi una federazione (συνέδριον) delle città della Troade, che in seguito alla rivalutazione storica di Troia-Ilio, eleggono a loro centro religioso e legame politico il santuario di Atena Ilia, elevato così al grado di santuario panellenico, come Olimpia e Delfi, con periodiche feste e giuochi ginnici. Lisimaco accrebbe quindi l'importanza di Troia-Ilio, recingendola di una larga e solida cinta di mura, e ricostruendo in marmo il tempio di Atena Ilia, munito di una nuova statua della dea. Ma alla caduta di Lisimaco (nel 281) le mura della città risorta vennero abbattute. La città stessa passa quindi in dominio dei Seleucidi, sotto i quali il tempio di Atena rimane uno dei templi microasiatici più venerati (insieme con quelli di Efeso e di Mileto). Breve soggezione di Ilio alla dinastia pergamena, sotto Attalo I. Nel 205 Filippo V di Macedonia riconosce Ilio e Pergamo alleate dei Romani.
Nel 192 a. C. Antioco III, prima di passare in Grecia per muovere guerra ai Romani, celebra sacrifici propiziatorî presso il santuario di Atena Ilia. Altrettanto fa nel 190 il pretore C. Livio Salinatore. Dopo la pace di Apamea, il senato romano stabilisce di concedere alla città l'autonomia e l'esenzione dai tributi, e di ampliare i confini del suo territorio. Ciò fors'anche allo scopo di consolidare la tradizione relativa ai leggendarî vincoli di sangue fra Troia e Roma. Sottoposta al pagamento di tributi da parte di magistrati romani dopo il 133 a. C., la città ne viene liberata nell'anno 89, dal censore, Lucio Giulio Cesare. Nella guerra tra Mario e Silla i cittadini parteggiano per quest'ultimo. Onde Flavio Fimbria, del partito di Mario, impadronitosi della città dopo breve assedio, mette tutto a ferro e fuoco, senza risparmiare il tempio di Atena (86-85 a. C.). Silla risolleva la città dalle ceneri e di nuovo la dichiara libera.
Cesare, favorendo e onorando la città asiatica, intende favorire e onorare quella che si riteneva la culla della Gens Iulia. Egli stesso vi si reca a visitarla nel 47, dopo Farsalo. Augusto, sviluppando il programma di Cesare, fa ricostruire il tempio di Atena, e pone così le basi di una nuova città: Ilium Novum. Gli abitanti di Ilio insigniscono l'imperatore dei più alti onori, dando probabilmente inizio a un culto imperiale. Durante la "pace romana" Ilio è meta ricercata di forestieri, in grazia delle sue memorie. I benefici conferiti alla risorta città vengono ancora accresciuti dall'imperatore Claudio e dai successori. Adriano, nel 124, e Caracalla, nel 214, le rendono visita. L'ultimo ricordo di Ilio si contiene in una lettera di Giuliano l'Apostata, dell'anno 355.
La monetazione autonoma di Ilio va dall'età postalessandrina (prima del 300 a. C.) sino a Valeriano (260 d. C.).
Per le Tabulae Iliacae, v. tavola iliaca.
Bibl.: A. Brückner, Geschichte von Troja und Ilion, in W. Dörpfeld, Troja und Ilion, voll. 2, Atene 1902; B. V. Head, Historia Numorum, 2a ed., Oxford 1911, p. 546 segg.; A. Wilhelm, Die lokrische Mädcheninschrift, in Jahreshefte des öst. arch. Instit., XIV (1911), p. 163 segg. - Per l'identificazione di Ilio con Vilusa, v. P. Kretschmer, in Glotta, XIII (1924), p. 205 segg. - Per gli scavi più recenti, v. C. W. Blegen, in American Journal of Archaeology, XXXVI (1932), p. 431 segg.; XXXVIII (1934), p. 223 segg.; XXXIX (1935), p. 6 segg.; W. Dörpfeld-C. Schuchhardt, Troja und Homer, in Athenische Mitteilungen, XLVII (1912), p. 110 segg.; W. Leaf, Strabo on the Troad (XIII, i), trad. e comm., Cambridge 1923.
Topografia archeologica. - È merito imperituro di Enrico Schliemann di aver convincentemente identificato l'ubicazione della città, dopo appassionate discussioni, iniziatesi già dagli scrittori antichi, e precisamente con Demetrio di Scepsi nel sec. II a. C., e che non sono ancora del tutto sedate, sul colle di Hissarlik, alto appena una trentina di metri sulla vallata dello Scamandro, dove l'antico letto di tale fiume, ora spostatosi verso sud-ovest, riceveva l'affluente Simoenta, poco prima di sboccare nell'Ellesponto. I ruderi venuti in luce su questo colle sono uno dei più insigni e peculiari esempî del rinnovarsi della vita sul medesimo posto attraverso un lungo periodo di secoli e varie civiltà: dagli scavi di W. Dörpfeld, che hanno completato e corretto i primi e un po' tumultuarî scavi dello Schliemann (v. cretese-micenea, civiltà, XI, p. 872 seg.), si sono palesati infatti i relitti di ben nove strati, dallo strato eneolitico a quello romano (fig.1); scavi attualmente in corso da parte dell'università di Cincinnati, si sono assunti il compito di mettere in maggior luce gli strati finora meno indagati e conosciuti, come il I strato, rimasto quasi completamente sepolto sotto gl'importanti ruderi della II città, quelli intermedî tra la II e la VI città e fra questa e la IX, e di risolvere in genere varî problemi rimasti insoluti durante le indagini precedenti.
La città micenea (VI) si arrampicava sulla vetta dell'acropoli con terrazze radiali, circondata dalla sua magnifica cinta di mura della circonferenza di circa 540 m., conservata per quasi due terzi, tutta cioè a eccezione della parte settentrionale; delle costruzioni interne della città invece si sono conservati avanzi solamente nelle terrazze inferiori, poiché la riedificazione della città romana (IX) ha livellato tutta la parte alta del colle, distruggendo quasi interamente i resti delle tre città precedenti, là dove proprio dovevano sorgere gli edifici principali, fra cui possiamo immaginare anche il palazzo reale omerico, e gettando i detriti risultanti sul pendio del colle: è per questa ragione che allo Schliemann è sfuggita proprio la città omerica da lui ricercata, avendo egli sondato soprattutto nel cuore della cittadella, e avendo ritenuto le mura micenee, per la loro grande perfezione tecnica, come di epoca recente.
Cominciando il giro della cinta micenea, dal sud, presso i ruderi di un teatro romano s'incontra l'ingresso principale, forse la porta "Dardania" di Omero (VI T), larga m. 3,30 e lastricata, accanto a una delle poderose torri rettangolari della cinta (VI i). Di qui, subito dopo gli scarsi ruderi di un teatro greco, rifatto anch'esso quasi completamente in epoca romana (B), comincia il tratto meglio conservato dello spesso muro orientale, consistente in una sostruttura alta circa 6 metri e di ben 5 metri di spessore, ad assise regolari di bei blocchi rettangolari, sopra cui si eleva, a un metro sopra al piano interno della cinta, un muro più sottile, di soli due metri di spessore, che lasciava quindi un passaggio libero nell'interno, muraglione decorato a distanze regolari di 9 o 10 m. da riseghe, di soli 10-15 cm. di profondità: al di là di un'altra grande torre rettangolare sporgente (VI h), si incontra l'altra importante porta (VI S), col passaggio guardato da due possenti braccia di mura. Dietro a questo tratto della cinta è anche la maggior parte delle case conservateci della città micenea, attorno alle quali corrono le strade a rampe radiali fra isole di case e fra le diverse terrazze, mentre viuzze assai strette dividevano casa da casa. La forma delle case è a megaron, con vestibolo tra ante e stanza interna; in parte hanno ancora sovrastrutture di terra, altre volte però queste sono sostituite da pietre; le case erano coperte da tetti piatti pure in terra. In una di queste case, della seconda terrazza (VI C), si notano resti di basi appartenenti ad una serie interna di colonne disposte sull'asse lungo della sala, architettura che precede quella dei primitivi templi greci, a Creta. Continuando nel giro della cinta micenea, si giunge alla possente torre nord-orientale (fig. 4), di ben 18 m. di larghezza e sporgente 8 m., nel cui interno si conservava una fontana rupestre (B b), rettangolare, in uso per lunghissimo tempo, che conduceva in basso a una vena d'acqua; dietro al lato settentrionale della torre fu praticata un'altra scalinata durante l'epoca dell'VIII strato, conducente a un'altra fontana esterna; una terza fontana, un po' più a occidente (B a), raggiungibile da un corridoio lastricato, conduce pure in basso a una vena d'acqua ancora in attività.
In questa parte nord-est si conserva il principale edificio della città romana, cioè il famoso tempio di Atena Ilia (IX P), di cui un'anteriore ricostruzione, promessa da Alessandro, fu condotta a termine da Lisimaco: ma i testi attuali, di architetture e di sculture (fra cui è conosciuta la metope del cocchio di Elio), appartengono quasi esclusivamente al tempio riedificato da Augusto; era di ordine dorico (di 35,20 m. di lunghezza e 16,40 di larghezza), provvisto di sei colonne solamente sulle facciate anteriore e posteriore, e a ovest accessibile da una gradinata; a oriente ancora, al di là del corridoio della fontana sopra menzionata, si notano le fondamenta dell'altare. Il grande recinto del santuario della dea, un'ampia superficie quadrata di circa 80 m. di lato, era limitato a nord da un muro continuo, e sugli altri tre lati da portici: l'accesso era costituito da un propileo, a quattro colonne frontali, sulla metà del portico meridionale.
Nella parte occidentale della cinta micenea, al di là di una postierla (VI V), il muro si fa più sottile; anche qui sono conservati nei pressi della cinta alcuni edifici della città: uno (VI M), che, conservando molti pithoi, è stato denominato "le cucine", e un altro megaron (VI A) di buona conservazione, con un bell'esempio di muro esterno dentato.
Da qui una rampa, assai ripida e non praticabile con cocchi, sale alla cinta preistorica, della II città, di circa 300 m. di circonferenza, e per la maggior parte a noi pervenuta (fig. 3): nella sua sovrastruttura, conservata in qualche punto ancora per un'altezza di 8 metri, essa è a blocchetti rozzi di calcare cementati con fango; al disopra si innalzava un secondo muro, alto più di tre metri, in mattoni crudi rinforzati da assi e travi in legno. Dalla porta (FM), cui conduce la rampa sopraddetta, a bracci inseriti normalmente alla linea delle mura com'è caratteristico di questa cinta (v. cretese-micenea, civiltà), si dipartono tre successive linee corrispondenti a tre ricostruzioni della cinta medesima, che con l'andar del tempo si è avanzata verso sud, fino al punto in cui si apriva la grande porta principale della cinta più antica (FN), larga tre metri, ben lastricata e accessibile da carri, dominata da una possente torre; nella seconda ricostruzione della medesima cinta, la porta principale è stata spostata verso oriente (FO). Più a oriente la cinta proseguiva ancora, fornita di piccole torrette rettangolari sporgenti (ba, bc). Dalla porta FO, per un cortile lastricato, si arriva a un piccolo propileo (II C), composto di due portichetti comunicanti per un'unica porta (larga m. 1,82), che dà accesso a un'altra ampia corte. Attorno a questa si raggruppano gli edifici principali della II città, dov'era probabilmente il palazzo del re: l'edificio maggiore (II A) è un caratteristico megaron, composto di solo vestibolo e ampia sala (profonda circa 20 m. e larga 10), che nel suo centro aveva un focolare rotondo del diametro di 4 m.; le mura di questo edificio hanno solo un basamento in pietre, di m. 1,44 di spessore e m. 1,30 di altezza, su cui si elevava la costruzione in mattoni crudi con ossatura lignea.
Altri edifici a oriente di questo conservano, oltre ai due ambienti suddetti, anche una stanza posteriore (v. megaron). Varî altri edifici simili più piccoli sono conservati presso la parete sud-occidentale della cinta; poco distante dalla porta FM è stato rinvenuto il famoso ripostiglio di oggetti preziosi, dallo Schliemann identificato erroneamente col "tesoro di Priamo"; fra questo gruppo di edifici e quello principale sono stati messi in luce i pochi resti finora indagati della I città.
In età ellenistica si cominciò a formare una città anche esternamente alla cerchia delle mura antiche, nella pianura ai piedi dell'acropoli, città bassa che si estese assai in epoca romana, aggiungendo una nuova più ampia cinta, che si può in buona parte ancora seguire, di circa 3,5 km. di circonferenza e 2,50 m. di spessore; a tale città bassa, pochissimo esplorata finora, appartiene l'ampio teatro romano nella parte nord-orientale. Varî altri edifici sono venuti in luce recentemente; ma importante sopra tutto è la scoperta d'una necropoli della VI città, a circa 500 m. a sud della porta meridionale della cinta micenea, con tombe a cremazione che si discostano dunque dal rito funerario consueto nel resto del bacino dell'Egeo in tale periodo, e con suppellettili di ceramica minia, fortemente influenzata dalle forme della ceramica micenea.
La leggenda di Troia nel Medioevo.
Della fertilissima tradizione dell'Iliade, che attraverso le compilazioni cicliche e le rielaborazioni parziali s'è travasata nella letteratura latina (v. omero, XXV, p. 340), il Medioevo si giovò soprattutto di due opere: l'Ephemeris belli Trojani del preteso Ditti Cretese (v.) e l'Historia de excidio Trojae del cosiddetto Darete Frigio, di cui la prima si può ascrivere al sec. IV e la seconda al sec. VI dell'era volgare: in entrambe l'epopea omerica è mistificata e il racconto assume caratteri più largamente narrativi e romanzeschi.
A Ditti, e soprattutto a Darete, attinge la letteratura romanza le sue cognizioni sulla storia troiana, le cui leggende si diffondono col segno del gusto francese per tramite dell'ampio Roman de Troie del normanno Benoît de Sainte-More (intorno al 1160, di più di 30.000 versi), che immerse l'antico mondo epico nel colore della sua civiltà feudale, cavalleresca, cortese, con una sensibilità più attenta alla vita sentimentale e più aperta al fascino dell'avventura. Un compendio latino del Roman de Troie compilato dal messinese giudice Guido delle Colonne (Historia de destructione Troiae, iniziata nel 1272 e proseguita qualche anno dopo fino al 1287) venne a sostituire spesso l'originale francese, non solo per i suoi procedimenti più sintetici e apparentemente più preoccupati del tono veridico, storico e leggermente moraleggiante, ma anche per la sua lingua di portata più universale. Il volgare italiano tradusse dall'uno e dall'altro: il senese Binduccio dello Scelto travestì nella sua lingua natia il Roman de Troie di Benoît (codice della Nazionale di Firenze, Magliab., II, IV, 45), mentre altre riduzioni discendono anche da Guido delle Colonne, spesso contaminando i due maggiori testi e qualche volta inserendo episodî di diversa derivazione (da Ovidio e da Virgilio in particolar modo): la cosiddetta Istorietta troiana (tra il sec. XIII e il XIV), le compilazioni di Filippo Ceffi e di Mazzeo Bellebuoni (anch'esse del sec. XIV), la cosiddetta versione dell'Anonimo, una redazione veneta. Ma il patrimonio leggendario penetrava frattanto nella più generale letteratura, a nutrire la conoscenza dell'antico passato (dal Tesoro di Brunetto Latini alle storie di G. Villani e di R. Malespini, dalla Fiorita di Armannino Giudice al Fiore d'Italia di Guido da Pisa) e ad alimentare la fantasia lirico-narrativa, per vie dirette come Les enfances Hector (poemetto franco-veneto di 2000 versi), il Poema d'Achille (poemetto in ottava rima), il Troiano di Domenico da Montechiello (prima metà del sec. XV), o in forme autonome, come motivi di più libera elaborazione estetica: dal Novellino all'Intelligenza, dal Filostrato del Boccaccio (che tiene presente Guido delle Colonne e pare ricorrere anche alla traduzione di Binduccio; la stessa storia di Troilo e Criseida fu ripresa da Chaucer e perfino dallo Shakespeare) al Cantare d'Insidoria (poemetto in ottava rima, d'imitazione boccaccesca). In lingua spagnola il Roman de Troie fu tradotto al tempo di Alfonso XI (ma la versione completa fu protratta fino al 1350: Escorial, cod. h. I. 6) e una seconda volta durante il sec. XIV (Bibl. Nazionale di Madrid); dall'antica redazione spagnola proviene il testo gallego (che è il documento più antico della prosa letteraria gallega) e una compilazione bilingue, gallego-castigliana (Bibl. del Menéndez Pelayo a Santander); invece la compilazione di Guido delle Colonne fu tradotta in catalano da Jaime Conesa (nel 1367) e in castigliano da Pedro de Chinchilla (nel 1443) e poi da Pedro Núñez Delgado che ebbe l'onore di parecchie edizioni durante il sec. XVI.
Bibl.: E. Gozza, Testi inediti di storia Trojana, Torino 1887; M. Menéndez y Pelayo, Origenes de la novela, I, Madrid 1905; C. Voretzsch, Altfranzösische literatur, 3a ed., Halle 1925, p. 261 segg.