TRISTANO
. Il dramma di Tristano e Isotta che, incoercibile nella sua violenza, sembra una sfida alla morale degli uomini, nasce dall'urto della passione con la legge. L'amore di Tristano è, nella sua essenza, fuori dello spazio e del tempo; ma nei poemi, a noi conservati, è innestato, com'è naturale, sul tronco di una certa civiltà e di certi costumi, che traspaiono da allusioni e accenni esaminati e discussi da molti studiosi. I quali, pur riconoscendo che il dramma è fondato sopra un tormento umano che trascende ogni distinzione di razza e di popoli, non si sono potuti esimere da faticose ricerche per indagarne (almeno nella forma assunta nei documenti giunti sino a noi) le origini e caratterizzarne lo sviluppo.
La leggenda medievale è la seguente. Un gigante, fratello della regina d'Irlanda, usa ogni anno recarsi in Cornovaglia per prendervi un tributo di venti giovani. Tr. - nato da Rivalin e Biancofiore, educato da re Marco di Cornovaglia - lo sfida, combatte con lui, e l'uccide. Ma, a sua volta, resta ferito da lancia avvelenata. Soltanto la regina d'Irlanda, madre d'Isotta, con le sue arti magiche, può guarire questa ferita. Ora Tr. parte per l'Irlanda, ma per non essere riconosciuto quale uccisore del fratello della regina, si fa chiamare Tantris. La regina non soltanto lo sana, ma gli affida la sua figliola, Isotta, perché la educhi. Isotta è una fanciulla soave, "è una musica dolce che per gli occhi penetra al cuore". Tr. le insegna a sonare l'arpa, da valente arpeggiatore qual è; e poi, temendo d'essere riconosciuto, delibera di ritornare in Cornovaglia. Ma Isotta ha lasciato in lui un ricordo indelebile. Egli ne parla a Marco e ai cortigiani in modo che il re si decide a chiederla in sposa. Un'altra versione vuole che un capello biondo d'Isotta caduto, dal becco d'una rondine in volo, sul balcone di Marco, induca il re a far ricercare, per sposarla, la fanciulla cui quel filo d'oro appartiene. Comunque, re Marco incarica Tr. di chiedere, in suo nome, in sposa Isotta e lo manda in Irlanda. Qui Isotta scopre che Tr. è l'uccisore di Morold, per avere trovato, mentre egli era nel bagno, nella sua spada una fenditura corrispondente alla scheggia rimasta conficcata nel cranio di Morold. Isotta vorrebbe vendicare l'uccisione dello zio, ma la madre la induce al perdono. La regina di Irlanda conosce le arti della magia. Prepara un filtro che, una volta bevuto, dovrebbe legare di passione indissolubile Isotta e re Marco. Ma, durante il viaggio per nave, la nutrice di Isotta, Brangania, per un fatale errore dà a bere il filtro ai due giovani, i quali, da quel momento, sono in preda a una passione folle e indomabile, di cui non sono responsabili. Giunti in Cornovaglia, il loro amore continua e gli amanti si trovano insieme con astuzie e inganni, sino a quando re Marco, avvertito dai cortigiani, scopre il tradimento. Tr. è esiliato. Invano egli si sforza di dimenticare Isotta la bionda, sposando un'altra Isotta "dalle bianche mani". Il suo amore è più forte della morte. Morente, egli domanda l'estremo conforto di rivedere la sua amica. Se questa verrà, la nave che la condurrà avrà la vela bianca; se non verrà, sia issata le vela nera. Quando la nave si avvicina, Isotta dalle bianche mani inganna Tr. dicendogli che la vela è nera. E Tr. muore dal dolore. Sul corpo dell'amante si abbatte Isotta che non può sopravvivergli: "Mort estes pur la mei amur - Et je muer, amis, de tendrur".
Questa la leggenda del Medioevo, quale era narrata in un poema francese dello scorcio del sec. XII, di cui rimangono soltanto alcuni frammenti preziosi - il Tristan del trovero anglo-normanno Thomas - e che si ricostruisce in parte da una versione germanica in versi del primo ventennio del sec. XIII, dovuta a Goffredo di Strasburgo. Thomas era un delicato e abile verseggiatore, ed è un vero peccato che il suo poema non ci sia pervenuto nella sua integrità. Anche un altro poema francese su Tr., scritto da un giullare contemporaneo di Thomas, un certo Béroul, ci è arrivato mutilo del principio e della fine. Di questo poema (di cui sono stati salvati, in un solo manoscritto, 4485 versi) non abbiamo, come di quello di Thomas, una traduzione quasi letterale; ma ne ritroviamo rispecchiati alcuni importanti episodî in un altro poema germanico su Tr. composto sul finire del sec. XII da Eilhart d'Oberg. Un bellissimo lai di Maria di Francia è consacrato a Tr. (Lai du chevrefeuille); due poemetti del sec. XIII narrano la Folie Tristan; due poemi (di Chrétien de Troyes e di Li Kievre) si sono perduti.
Che cosa si profila dietro questa leggenda del sec. XII? Esistette davvero, come pensano alcuni studiosi, un altro poema, da cui dipendano Thomas e Béroul? E, prima di questo supposto poema, esistettero lais e canti su Tr.? E questa leggenda dell'amore più forte della legge degli uomini è d'origine francese o celtica? O si connette, come si vorrebbe desumere da alcune allusioni a usanze, tradizioni e costumanze scomparse, a un periodo antichissimo di nomadismo? Tutte domande che rimangono senza risposta per insufficienza di dati. Si sa che un re, che regnò sui Pitti dal 780 al 785, si chiamò Drest filius Talorgen. Anche si sa che un Drystan ab Iallwch compare quale "porta-diadema" e quale amante di Essylt, moglie di Marco, nelle triadi 29, 43, 63 e 81 del così detto "Libro rosso" di Oxford, un manoscritto membranaceo del secolo XIV, rilegato in rosso, che contiene la raccolta più importante, in dialetto celtico gallese, dei documenti storico-leggendarî (celt. mabinogion) per l'educazione letteraria del "mabinog" o discepolo del bardo. Ma è da notare che la redazione primitiva di questa silloge non è anteriore al sec. XII e che le interpolazioni sono numerose e giungono sino al sec. XIV. Le triadi su Tr. non sembrano anteriori a Goffredo di Monmouth (morto nel 1154), il celebre cronista delle storie e delle leggende bretoni. Pur accogliendo l'opinione, cui ha sorriso la fortuna, che Drest di Ialorgen sia da identificarsi con Drystan ab Tallwch, avremo, per questo, il diritto di risalire al sec. VIII per i primordî della nostra leggenda? O di spingerci addirittura sino ai secoli VI-VII nelle "marche" dei Pitti nella Scozia, perché colà si ebbero, in quei tempi, alcuni re chiamati Drest, Drust, Drustan? Le origini della leggenda di Tr. sono avvolte in una caligine così densa, che non si può sperare di diradarla, allo stato attuale degli studî, se non con uno sforzo d'immaginazione.
Sui testi più antichi fu messa insieme, intorno al 1225, una compilazione prosastica, detta il Roman de Tristan, che ebbe larga diffusione in Francia e in Italia. Anzi, questa compilazione fu il maggior tramite di propagazione della leggenda fra noi. Ancora nel primo Quattrocento la leggeva in francese, nel castello d'Este, l'infelice Parisina, il cui amore per Ugo richiama alla mente quello di Isotta per Tristano. La diffusione del romanzo prosastico francese in Italia è mostrata dal Tristano Corsiniano (ms. nel cod. Rossi 2593 della Bibl. Corsini) che ne è una traduzione pressoché letterale. Ma più ancora del Roman de Tristan si propagò in Italia un'altra compilazione di materia bretone, detta Meliadus, dovuta a Rusticiano o Rustichello da Pisa e scritta nel 1271, nella quale ha larga parte la leggenda di Tristano. Dal Roman de Tristan, dal Meliadus e da altri testi perduti dipende il Tristano Riccardiano, scritto da un compilatore della regione umbro-aretina o umbro-cortonese e vissuto sul finire del sec. XIII; e a tutti insieme questi testi e ad altri ancora, come al Roman de Lancelot, si collega la celebre Tavola Ritonda (circa metà del sec. XIV). Da fonti comuni al romanzo della Tavola Rotonda discende il Tristano Veneto contenuto in un codice di Vienna che ha la data del 1487, ma che è anteriore a questa data di circa un secolo.
Allo stesso periodo di tempo, o poco prima, debbono risalire i cantari italiani che ci sono pervenuti su Tristano. Il più importante è il Cantare della morte che due manoscritti (uno ambrosiano e uno magliabechiano) ci hanno conservato.
Dopo che nel 1553 H. Sachs ne aveva fatto oggetto di un dramma ricavato dalle stampe del romanzo in prosa, la leggenda di Tr. fu ridestata in Germania in periodo romanico, Sehlegel, Rückert e altri tentarono di rinnovare il poema di Goffredo di Strasburgo; ma il tentativo più riuscito fu quello di Hermann Kurtz (1844) che non fu ignoto a R. Wagner. Il quale trasformò la leggenda portandola nel clima spirituale del suo tempo, animandola della sua passione per una donna amata (Matilde di Wesendonck) e permeandola di un'ispirazione dolente di fondo schopenhaueriano. Wagner creò un nuovo capolavoro da contrapporsi a quello medievale, giunto a noi frammentario, del trovero Thomas.
Bibl.: Una trattazione generale critica della leggenda abbiamo nell'introduzione ai due volumi di J. Bédier, Le Roman de Tristan par Thomas, Parigi 1902-05 (Société des Anciens Textes français). Il poema di Béroul è stato edito da E. Muret, dapprima nella stessa Société des Anciens Textes, quindi nei Classiques français du moyen âge, ivi 1928 (2a ed.). Le due Folies sono state edite dal Bédier. È di poco valore (e ha carattere esclusivamente divulgativo) il libro di A. Bossert, La légende chevaleresque de Tristan et Iseult, ivi 1902. Invece è utilissima la trattazione di J. Van Dam, Tristan-probleme, in Neophilologus, 1929-1930, la quale dispensa di offrire una lunga e minuta bibliografia. Basterà ricordare lo scritto notissimo di G. Paris, Tristan et Iseut, in Poèmes et légendes du moyen âge, Parigi 1902, e i notevoli volumi di Golther, Tristan u. Isolde in der franz. u. deutschen Dichtung des Mittelälters u. der Neuzeit, Berlino e Lipsia 1929, e G. Schoepperle, Tristan and Isolt. A Study of the Source of the Romance, Francoforte e Londra 1913. Per il Tristan in prosa, oltre il noto e larghissimo riassunto di E. Loeseth, si veda E. Vinaver, Études sur le Tristan en prose, Parigi 1925. Sulla presunta esistenza di lais intorno a Tr., si veda E. Levi, I lais brettoni e la leggenda di Tr., in Studi romanzi, XIV (1917). Sulla leggenda in Italia ci limitiamo a ricordare: G. Bertoni, La morte di Tr., in Poesie, leggende, costumanze del Medioevo, 2a ed., Modena 1921. Il Tr. riccardiano è stato edito e studiato da E. G. Parodi, Bologna 1896. Per la leggenda in Wagner, cfr. G. Bertoni, La leggenda di Tr. e R. Wagner, nel volume miscellaneo in onore di C. Michaëlis de Vasconcellos, Coimbra 1932.