CARACCIOLO, Tristano (Caracciolus, Tristanus)
Nacque tra il 1434 e il 1439 (probabilmente nel 1437) a Napoli da Giovanni e da Silvia Minutolo.
Suo nonno Giosuè era stato gentiluomo di camera di re Ladislao di Durazzo ed aveva posseduto parecchi feudi, suo padre Giovanni apparteneva alla nobiltà e possedeva case e terreni, il C. stesso era proprietario di "case e botteghe da fitto" e di feudi. La famiglia era tra le più antiche di Napoli, ma è molto difficile stabilire relazioni di parentela tra i singoli portatori di questo cognome così diffuso. Al tempo del C. non c'era ormai più alcun legame diretto di parentela tra la sua famiglia e quella dei principi, ma solo degli stretti rapporti di solidarietà. Così, per esempio, Troiano Caracciolo, principe di Melfi, donò nel 1501 al C. ed ai suoi eredi il feudo di Fontanafusa, che oggi non e possibile localizzare. Un'altra proprietà è attestata a Ponte Albaneto e Lusciano. Il C. aveva due o tre fratelli, di cui uno divenne vescovo e un altro di nome Giannantonio scelse la carriera militare e combatté in Francia, donde tornò nel 1494, rivestendo in seguito, come suo padre, un importante ufficio alla Sommaria. Nel fratello vescovo alcuni autori riconoscono Luca Matteo Caracciolo, vescovo di Lesina; il Santoro l'ha plausibilmente individuato in Francesco Caracciolo, vescovo di Melfi dal 24 giugno 1486 e morto intorno al 1494 (cfr. C. Eubel, Hierarchia catholica, II, Monasterii 1914, p. 189). Il C. fu ascritto al "seggio" Capuano, membro cioè del più distinto patriziato cittadino, e in questa appartenenza alla nobiltà si radicano il suo patriottismo e il suo orgoglio di essere napoletano; nella sua qualità di nobile egli ebbe contatti con personaggi politici influenti della corte aragonese, come per esempio il letterato Diomede Carafa conte di Maddaloni, autore di alcuni memoriali e trattati morali.
La famiglia del C., al tempo della sua nascita, ormai non apparteneva più alla cerchia delle famiglie ricche ed influenti del Regno; le difficoltà economiche impedirono anzi al C. di intraprendere la strada delle "arma et litterae", cui egli ambiva. Quando re Alfonso nel 1452 mosse guerra a Firenze, il C., all'incirca quindicenne, sarebbe partito volentieri come paggio o servitore di qualche gentiluomo, ma il padre si oppose a questo progetto: il C. aveva sette sorelle, per le quali bisognava preparare doti consone allo stato sociale della famiglia, e il padre del C. aveva adottato a questo scopo ferrei criteri di risparmio, che tra l'altro non permettevano di assicurare un'educazione signorile ai maschi. Dopo la morte del padre il C., divenuto capofamiglia, subentrò al genitore in tutti i doveri. Su insistenza di parenti e amici egli si sposò, contro i suoi desideri, con Cicella Piscicelli, la quale morì presto, lasciandogli una figlia di nome Livia che il C. diede in moglie nel 1494 a Giovanni Battista Spinelli, conte di Cariati (morto nel 1522, lo stesso anno del Caracciolo). Lo Spinelli, un giurista di notevoli qualità, diplomatico e uomo di Stato che fece un'ottima carriera al servizio degli Aragonesi, onorò il C. come un padre e s'intese perfettamente con lui. In seconde nozze - ne ignoriamo la data precisa - il C. sposò Caterina Crispano, da cui ebbe otto figli, quattro maschi e quattro femmine. Oltre che alle sorelle egli dovette quindi procurare le doti anche a cinque figlie. Il figlio maggiore Michele era paralitico, due altri figli - uno militare, l'altro giurista - morirono in giovane età. Poco altro sappiamo della vita del C.: nel 1465 accompagnò a Milano Federico d'Aragona, che si recava a ricevere con un festoso corteggio Ippolita Sforza, sposa di suo fratello Alfonso; probabilmente rimase a Milano fino al 1466, anno della morte di Francesco Sforza.
Le suaccennate difficoltà familiari impedirono al C. di andare oltre un'educazione elementare. Solo da adulto, già sposato, egli poté, all'età di 35 anni (verso il 1472), cercare lentamente di ovviare a questa mancanza. Non si può accertare con sicurezza quali furono in particolare i maestri del C.; comunque tra essi sicuramente fu Giovanni Pontano, legato a lui da stretti rapporti di amicizia. La mancanza di un epistolario ci impedisce di ricostruire gli esatti legami e le relazioni spirituali del C. con i suoi amici. È dimostrato che fu membro della Accademia Pontaniana, successa all'Accademia Alfonsina fondata verso il 1442 da Alfonso I d'Aragona, la cui guida era stata assunta nel 1471 da Pontano. Questi gli dedicò il suo De prudentia (1499), lo nominò nel De sermone e lo scelse come interlocutore, insieme con G. Sannazzaro, Gabriele Attilio, Andrea Matteo Acquaviva duca d'Atri e principe di Teramo, Girolamo Carbone ed il Cariteo, del dialogo Aegidius (1501), dedicato al cardinale Egidio da Viterbo, dotto mecenate e fautore della cultura. Anche l'Acquaviva gli dedicò una sua traduzione latina di Plutarco. Alla cerchia degli amici del C. nell'Accademia appartennero anche Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, Francesco Elio Marchese e il poeta Pietro Gravina.
Comunque il C. dovette gran parte della sua cultura più allo studio personale che all'opera di maestri: egli leggeva gli storici, copiava testi latini e, soprattutto, studiava sistematicamente la grammatica latina; ma ciò che gli stava soprattutto a cuore era la scientia bene vivendi, la filosofia morale. Per questo studiava gli storici e i filosofi latini con grande attenzione, ma leggeva anche i Padri della Chiesa; né, pur rifiutando la scolastica medievale, si allontanò mai dall'ortodossia.
La data di morte del C. è variamente indicata dai biografi nel 1515, nel 1517 o nel 1528; ma da una dichiarazione del figlio maggiore relativa al pagamento di un laudemio (Archivio di Stato di Napoli, Significatorie di rilievo, 3 nov. 1524) apprendiamo che era morto il 12 maggio del 1522.
Il C. si distinse soprattutto come fertile autore di biografie e di scritti politici e morali: pur non essendo un personaggio particolarmente significativo, tuttavia egli è rappresentativo di parecchi decenni, pieni di mutamenti, di storia napoletana. La visione della storia del C. è determinata dalla sua origine nobiliare e dalle sue esperienze personali, e non risponde pertanto a criteri di obiettività.
Il periodo della dominazione angioina costituisce per lui un ideale perché allora la sua famiglia era ancora influente, e perché, almeno nella sua immaginazione, c'era pace all'interno del Regno. Le sue esperienze personali l'avevano reso pessimista. Egli visse consapevolmente numerosi mutamenti della storia napoletana: l'avvento e la caduta degli Aragonesi, la congiura dei baroni, l'invasione francese di Carlo VIII, l'istituzione del vicereame e la conseguente definitiva perdita dell'indipendenza, constatando giorno per giorno che le situazioni del momento non erano durature e potevano mutare ad ogni istante. Il lontano passato gli sembrava in paragone un'epoca di stabilità. Nei suoi scritti non si preoccupò perciò tanto dell'esattezza storica, ma volle mostrare la caducità del potere umano. La sua rappresentazione della storia ha quindi un sottofondo insistentemente ammonitore. Spesso questo tono ricorda la storiografia medievale, salvo il fatto che nel C. manca la finalizzazione della storia al regno di Dio.
L'essenza delle esperienze di vita del C. è condensata nel De varietate fortunae, la sua opera principale, scritta dopo il 1509, poiché l'ultimo avvenimento storico cui vi si accenna è la battaglia di Agnadello. Quello della varietas fortunae è uno dei temi umanistici più spesso trattati e preferiti; ma mentre la maggior parte degli autori si rifà a reminiscenze letterarie o ad osservazioni di lettura, il C. poteva riferirsi alle proprie personali esperienze. È, sintomatico che egli abbia fatto precedere l'opera dalle parole di Salomone predicante la vanitas di tutto il mondo e di ogni aspirazione umana. Il C. descrive mediante esempi scelti dal recente passato l'ascesa e la caduta dei grandi, prima dei vari re aragonesi e poi di altre famose famiglie e principi italiani. La più efficace è forse la descrizione della fine dei due principali congiurati del 1485, Coppola e Antonello Petrucci, o di quella dello stesso Ferrante che, pieno di disgusto e nausea per l'esercizio del potere e i piaceri del mondo, si limita a vivere vegetando i suoi ultimi giorni. La vita di tutti questi importanti personaggi è per il C., nonostante il lustro della loro posizione, una serie di malattie, accidenti e sventure: la rappresentazione deve costituire per il lettore un'ammonizione a non abbandonarsi al favore del destino. Solo verso la fine dell'opera questo pessimismo viene un po' addolcito, dove il C. tratta degli uomini che si sono faticosamente elevati da una posizione modesta e sono rimasti in alto. L'autore aggiunge tuttavia questa sfumatura solo perché la sua rappresentazione della storia senza questo aspetto sarebbe troppo oscura: l'uomo ha il dovere morale di non arrendersi mai, pur essendo cosciente della caducità delle azioni umane. Del resto il C. aveva già dimostrato una simile tendenza nell'operetta De Ferdinando qui postea rex Aragonum fuit,eiusque posteris, che precorre il De varietate fortunae, senza però contenere ancora con tutte le sue conseguenze il pessimismo della sua visione filosofica della storia.
Il destino delle singole persone non è tanto interessante per il C. come testimonianza storica, ma come exemplum per verificare la sua concezione della storia. Di conseguenza il valore come fonte degli scritti del C. è spesso limitato, poiché egli stravolge consapevolmente l'interpretazione dei fatti. La biografia della regina Giovanna I, Vita Iohannae primae Neap. reginae, è un buon esempio in proposito. Giovanna I fu sospettata di esser stata a conoscenza del complotto che nella notte dal 18 al 19 sett. 1345 portò all'assassinio di suo marito Andrea d'Ungheria, e comunque non fece niente per impedire il delitto o per vendicare il consorte. Il C. ha simpatia per la regina e la riabilita. La riabilita a causa della debolezza del suo carattere, che comunque era un suo difetto e la rendeva obiettivamente colpevole, ma che costituisce nello stesso tempo un'umana giustificazione.
Il C. mostra le buone qualità della regina Giovanna ed illustra la sua eccellente educazione cristiana; suo marito Andrea è descritto, contrariamente alla verità storica, come il suo opposto, come monstrum. Dopo il delitto, il C. mostra come la regina cercasse di espiare la sua colpa introducendo riforme, concedendo libertà ai sudditi e pacificando il Regno. Nonostante la sua colpa anche Giovanna è esemplare: le lotte tra Angioini e Durazzeschi, ancora del tutto medievali, diventano per il C. una prefigurazione delle lotte più recenti per il dominio di Napoli, che in paragone ai mutamenti del presente contano assai poco. La Vita Serzannis Caraccioli, scritta su commissione verso l'anno 1506, dopo il ritorno del principe Troiano dall'esilio, difetta ugualmente di esattezza storica. L'opera deve servire alla gloria della famiglia Caracciolo. Sergianni, il gran siniscalco della regina Giovanna II, che ebbe un notevole influsso sugli avvenimenti dell'epoca ed un mutevole destino, viene trasformato nell'opera, secondo gli, intendimenti del committente, in un modello dell'uomo di Stato.
Il C. compose anche diversi trattati e scritti educativi: tra essi notevole è l'inedito Opusculum ad marchionem Atellae, che dedicò dopo il 1507 al figlio del tanto onorato Troiano Caracciolo, Giovanni, che divenne più tardi maresciallo di Francia. Nell'operetta si delinea un modello di principe alla cui elaborazione il C. era stato certamente spinto da amici come il Pontano, il Carafa, il Galateo, il Del Maio, il Dell'Acquaviva, autori anch'essi di scritti educativi; il C. descrive un ideale educativo, esponendo i principi morali e spirituali di quella educazione ideale che si conviene ad un giovane "barone cortigiano".
Il C. era privo di vanità, e non si curò di far stampare nessuna delle sue opere; la sua influenza nel periodo successivo fu di conseguenza limitata. Solo alla fine del secolo scorso fu riscoperto, per merito del Gothein, alla storia della cultura italiana nel periodo dell'umanesimo. La maggior parte delle edizioni delle sue opere sono apparse in questo secolo, ma una parte della sua produzione è ancora inedita; i manoscritti si trovano soprattutto nella Bibl. naz. di Napoli (particolarmente nei codici IX.C.25 e IX.C.18) e nella Biblioteca della Società napoletana di storia patria (cfr. l'elenco in Santoro, T.C. e la cultura napol. ..., p. 10 n. 3 e P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad Indices). Gli scritti storici del C. (Opuscula historica) furono pubblicati prima da L. A. Muratori nei Rer. Italic. Script., XXII, Mediolani 1733; poi nella Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell'istoria generale del Regno di Napoli, VII, Napoli 1769; infine, con l'aggiunta di testi fino allora inediti, a cura di G. Paladino, nei Rer. Italic. Script., 2 ed., XXII, 1.
Bibl.: E. Gothein, Il Rinascimento nell'Italia meridionale, Firenze 1905, pp. 51-61 e passim; A. Altamura, Un opuscolo inedito di T.C., in La Rinascita, II (1939), pp. 253-264; B. C. de Frede, L'umanista T. C. e la sua "Vita di Giovanna I", in Arch. stor. ital., CV (1947), pp. 5064; M. Santoro, T. C. e la cult. napol. della Rinasc., Napoli 1957; G. Vitale, L'umanista T. C. ed i principi di Melfi, in Arch. stor. per le prov. napol., s. 3, II (1962), pp. 343-381; M. Santoro, L'ideale della "prudenza" e la realtà contemporanea negli scritti di T.C., in Fortuna,ragione e prudenza nella civiltà letter. del Cinquecento, Napoli 1967, pp. 97-133.