tripharius
Con ydioma tripharium D. distingue due diverse e successive realtà linguistiche. La prima è quella lingua che recarono con sé in Europa i transfughi di Babele, e che poi a sua volta si divise in tre rami, quello germanico (v. JO), quello dei Graeci e quello ‛ romanzo ': Sed sive advenae tunc primitus advenissent, sive ad Europam indigenae repedassent, ydioma secum tripharium homines actulerunt; et afferentium hoc alii meridionalem, alii septentrionalem regionem in Europa sibi sortiti sunt; et tertii, quos nunc Graecos vocamus, partim Europae, partim Asyae occuparunt (VE I VIII 2); di due di questi gruppi sono poi prese in considerazione, nei paragrafi successivi, le suddivisioni interne avvenute col tempo: non però dei Graeci, certo per ignoranza della situazione linguistica delle zone relative. Ma ydioma tripharium D. chiama poi sempre un'altra lingua, e precisamente quella dell'Europa meridionale, triforme perché divisa nei tre rami della lingua d'oc, o provenzale, d'oïl o francese e di sì o italiana (I VIII 6, IX 2, X 1, e v. anche IX 4 Quare autem tripharie principaliter variatum sit...).
Dalla sovrapposizione mentale delle due nozioni deriva, probabilmente, la difficoltà di quel passo di VE I IX 2 in cui D. deduce l'unità di origine delle lingue ‛ romanze ' dalla comunanza di molti vocaboli: Et quod unum fuerit a principio confusionis (quod prius proba[t]um [o meglio, coi codici, probandum] est) apparet, quia convenimus in vocabulis multis, velut eloquentes doctores ostendunt; quae quidem convenientia ipsi confusioni repugnat, quae ruit coelitus in aedificatione Babel. Il senso è chiaro: la presenza di molti termini comuni nelle tre lingue induce a pensare che si trattasse di una lingua unica all'epoca della confusione babelica, perché, se erano già allora lingue diverse, data la loro affinità i rispettivi parlanti si sarebbero largamente compresi, il che va contro la nozione stessa di confusione babelica (quale D. aveva già delineato nel cap. VII). Senonché questo ragionamento è corretto solo se riferito non alla lingua t. ‛ romanza ', ma a quell'altro ydioma t. europeo originato nella confusione di cui essa è una successiva suddivisione. Le difficoltà del passo hanno spinto il Vinay a proporre l'emendamento Et quod unum fuerit a principio, [non autem a principio] confusionis, il quale però, oltre a razionalizzare troppo, renderebbe superflua e curiosa la precisazione quae quidem convenientia... Babel, che ha senso solo se ha lo scopo di provare che l'unità originaria va posta all'epoca della confusione stessa. Bisogna dunque pensare che D. nella rapidità della stesura ha fuso mentalmente due stadi diversi dell'evoluzione linguistica. Del gruppo ‛ romanzo ' D. dà una rappresentazione, alla luce delle nostre conoscenze attuali, semplificata, riducendolo a tre lingue (per la questione se in quella d'oc comprendesse o meno anche la Spagna, v. ISPANI); ma va tenuto presente, oltre alle ben spiegabili lacune d'informazione, il fatto che egli in realtà ha di mira lingue che hanno dato luogo ad altrettante importanti letterature. La stessa prevalenza del punto di vista letterario e culturale si nota in VE I X 1-4, laddove D. abbozza un confronto fra le tre lingue dell'ydioma t. romanzo, che è in realtà confronto fra le rispettive letterature (v., per una valutazione, oc).
Sulle ulteriori differenziazioni interne delle due lingue di Francia D. non entra nel merito, probabilmente per scarsa conoscenza di quella situazione dialettale (accenni a vari dialetti francesi non mancano tuttavia in testi dell'epoca, per es. in Ruggero Bacone), argomentando dapprima che basterà muoversi sul terreno più sicuro della propria lingua, dato che la causa delle variazioni linguistiche è universale e identica in tutti i luoghi, cioè l'instabilità e mutevolezza intrinseca della natura umana, e poi restringendosi di fatto al solo ramo italiano dell'idioma t. (v. VE I IX). Qui egli (X 4 ss.) divide anzitutto la penisola in due metà, una destra e cioè occidentale e una sinistra, orientale (tale denominazione, già in uso, si spiega tenendo presente che il punto di vista è collocato alle Alpi), la cui linea divisoria è l'Appennino: tale scelta, suggerita da Lucano Phars. II 396 ss., è certo determinata in primo luogo da parallelismo con le Alpi, che dividono il dominio linguistico italiano dal francese e dal provenzale, e forse anche dall'esperienza tipicamente toscana dell'Appennino tosco-emiliano come discriminante di parlate profondamente diverse; per il resto, non si riesce a immaginare su quali ‛ isoglosse ' egli potesse basare l'idea dell'Appennino come confine dialettale fondamentale.
Regioni linguistiche dell'Italia di ‛ destra ' sono parte dell'Apulia (o Regno dell'Italia meridionale), il Lazio (Roma), il Ducatus (di Spoleto), la Tuscia e la Marca Genovese; di quella di sinistra parte dell'Apulia (i cui abitanti D. chiama più avanti Calabri: v. CALABRIA), la Marca Anconitana, la Romagna, la Lombardia (v.), la Marca Trevigiana e Venezia, cui si aggiungono Friuli e Istria, mentre le isole della Sicilia e della Sardegna, che non fanno propriamente parte dell'Italia, vanno ‛ associate ' al lato destro.
Questa suddivisione, che risente ancora dell'antica partizione augustea, qual era tramandata dai geografi latini, coincide poi abbastanza bene con le indicazioni della cartografia dell'epoca (in particolare il planisfero del Vesconte) e ancor più forse con la descrizione analitica delle regioni d'Italia data da Brunetto Latini nel Tresor (I CXXIII). Attraverso di essa si perviene, dice D., ad almeno quattordici volgari principali nella sola Italia, ognuno dei quali poi varia al suo interno, per esempio in Toscana fra Siena e Arezzo, in ‛ Lombardia ' fra Ferrara e Piacenza, mentre varianti si possono percepire perfino nell'ambito di una stessa città (nel precedente capitolo D. aveva esemplificato con Bologna: v.). Per cui, conclude, a voler calcolare le varietà principali e secondarie e minori anche in hoc minimo mundi angulo si arriverebbe al numero di mille, o anche più (VE I X 9). Di fatto, nel successivo esame particolareggiato dei dialetti italiani, D. opera ancora sulla base delle quattordici varietà principali, distinguendo o non distinguendo ulteriori varietà territoriali o municipali minori, a seconda evidentemente della conoscenza linguistica concreta che aveva oppure no delle singole zone (si confronti ad es. la genericità del giudizio sul volgare ‛ apulo ' con la precisione invece messa in atto per la Toscana, o il Veneto).
Nel termine t. i lessicografi medievali (Papia, Uguccione da Pisa, Giovanni da Genova) sentivano erroneamente il rapporto col verbo fari, e verosimilmente D. risente di questo accostamento, come dimostra anche il fatto che in Cv II V 1 egli traduce il passo paolino di Hebr. 1, 1 " Multifariam [o più probabilmente " Multifarie "] multisque modis olim Deus loquens... ", così: ne li quali, per molte maniere di parlare e per molti modi, Dio avea loro parlato. E v. LINGUA: Le teorie dantesche sulla lingua; oc; oil,.
Bibl. - Si rimanda alla voce LINGUA: Le teorie dantesche sulla lingua. In particolare: F. D'Ovidio, Versificazione romanza. Poetica e poesia medioevale, II (= Opere di F. D'O., IX 2), Napoli 1932, 275 ss.; P. Revelli, L'Italia nella D.C., Milano 1922, passim; G. Andriani, in Atti VIII Congresso geografico italiano, Firenze 1923, 255 ss.; Marigo, De vulg. Eloq., passim; G. Vinay, Ricerche sul De vulg. Eloq., in " Giorn. stor. " CXXXVI (1959) 382-388; A. Schiaffini, Interpretazione del De vulg. Eloq., Roma 1963, 57-80; B. Panvini, Origine e distribuzione dei volgari europei secondo il De vulg. Eloq., in " Siculorum Gymnasium " XIX (1966) 174-197; ID., Introduzione a D.A., De vulg. Eloq., Palermo 1968, 24-31.