Trinità (Trinitade)
Dalla rivelazione e dalla tradizione abbiamo i dati per formulare il mistero della T.: Dio è uno nella natura o essenza, trino nelle persone: Padre, Figlio, Spirito Santo. Nella natura semplicissima sussistono tre Persone distinte, cui competono, ugualmente, tutti gli attributi essenziali divini.
Nei Libri Sapienziali del Vecchio Testamento e nei testi messianici vi sono indizi del mistero (Prov. 8, 22; Eccl. 24, 25; Sap. 7, 25; 9, 1; Ps. 2; 109; Is. 7, 14; Dan. 7, 13), che sarà rivelato nel Nuovo Testamento, nei Sinottici e in s. Paolo: Dio è il Padre, Cristo il Figlio unico, lo Spirito Santo sarà inviato, dopo l'Ascensione, dal Cristo (Matt. 3, 16; 17; 26, 63; 28, 19; Marc. 17, 11; Luc. 3, 21; 24, 49; Gal. 4, 4; Rom. 8, 3; Philipp. 2, 6; Col. 1, 15; I Cor. 3, 16; Tit. 3, 5). S. Giovanni più ampiamente parla del Verbo Unigenito di Dio, indicando il rapporto tra la natura e le Persone, le relazioni e le processioni (capp. 1; 3, 16; 10, 30; 14, 9 e 16; 15, 26). La dottrina trinitaria è nella liturgia battesimale, nella preghiera citata dalla Didaché, nei testi di Giustino, Ireneo, Tertulliano, Ippolito, Cipriano. Una sintesi teologica è già in s. Gregorio Taumaturgico verso il 265. Contro l'eresia ariana, nel concilio di Nicea del 325, fu definita l'unità numerica della natura del Padre e del Figlio, e fu definito che il Figlio è consustanziale (ὁμούσιος) col Padre; eguale concetto fu applicato allo Spirito Santo, in rapporto al Figlio e al Padre, nel concilio costantinopolitano I del 381. I padri della Cappadocia e s. Agostino, con la dottrina delle relazioni divine, posero le basi di una trattazione sistematica della teologia trinitaria, che fu poi organicamente sviluppata dalla Scolastica.
Alla comprensione dei luoghi danteschi, specialmente del Paradiso (XXXIII 115 ss.), è necessario conoscere l'elaborazione intellettuale delle scuole, tutte dipendenti dal De Trinitate di s. Agostino. Mentre i padri greci partivano dalla T. delle Persone, cercando di vedere come questo potesse conciliarsi con l'unità della natura (s. Atanasio Contra arianos I 14, 16; 25, 27; III 6, 24), s. Agostino alcune volte li segue, ma più spesso avvia lo studio dall'unità della natura per venire poi alla T. delle Persone. Il concetto di natura è preciso nella filosofia greca, quello di persona si è sviluppato principalmente nell'età cristiana ed è chiarito nella definizione di Boezio: " sostanza individua di una natura razionale ". La ragione formale della personalità è l'essere (sussistenza); la natura è parte formale della persona, dice ordine all'essere, come la potenza all'atto: esiste perciò una distinzione reale tra natura e persona. S. Agostino nota che quello che si dice di Dio si può dire secondo la natura e secondo la relazione, in quanto " la medesima sostanza o natura, la sapienza e gli altri attributi si trovano nel Padre e nel Figlio, ma nel Padre con la relazione di generante, nel Figlio con quella di generato " (V 5, 6). Ciò che si dice delle tre Persone, secondo l'assoluto, le tre Persone l'hanno in comune, quello che si dice secondo il relativo è ciò che le distingue. Una medesima sapienza è nel Padre e nel Figlio, ma il Figlio non è il Padre. La relazione per Aristotele è un rapporto di un termine all'altro e appartiene alla categoria degli accidenti, la relazione in Dio, invece, è di ordine sostanziale e s'identifica con la divina essenza.
Ma da che cosa hanno origine le relazioni? Hanno origine dalle processioni (sono le operazioni immanenti in Dio: l'intellezione e la volizione), per cui il Figlio procede dal Padre (prima processione: il Figlio procede per via d'intellezione e quindi di generazione spirituale), lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio (seconda processione: lo Spirito Santo è il termine di amore: Dio conoscendosi si contempla e si ama per via di volizione).
Mentre il nostro verbo mentale è un modo accidentale della nostra intelligenza, il Verbo divino è sostanziale come il pensiero divino (V 6, 16, 17). Poiché le relazioni in Dio si distinguono di distinzione reale, in quanto si oppongono vicendevolmente, tre soltanto sono le relazioni che si oppongono (relazioni sussistenti): la paternità, la filiazione, la spirazione passiva: tre termini distinti, tre Persone.
Le relazioni s'identificano con la sostanza divina, in quanto sono in essa (esse in); si distinguono dalla sostanza (esse ad) per il rapporto vicendevole e la reale opposizione. Le tre Persone sono coeterne e hanno perfetta uguaglianza. Gli attributi della stessa natura o essenza sono le operazioni ad extra, come la creazione, e le operazioni ad intra immanenti nella natura divina: esse competono a tutte le tre Persone, ma quelle ad intra, come la cognizione e l'amore, considerate in rapporto con le relazioni, si distinguono e sono incomunicabili: perciò, come spiega s. Tommaso, non ci possono essere in Dio più Padri, ma uno solo, perché la paternità rende incomunicabile la natura divina da parte sua, quantunque la divina natura possa essere comunicata alle altre due Persone, e cita un esempio: in un triangolo il primo angolo costruito rende da parte sua incomunicabile la sua superficie, quantunque sia comunicata agli altri due angoli, e agli altri due angoli la comunica il primo senza comunicare sé stesso, perché si oppone agli altri due, mentre invece nessuno dei tre si oppone alla superficie, la quale è a loro comune. Quando si usa l'espressione: il Padre ‛ è ' Dio, il verbo ‛ essere ' esprime la reale identità delle persone e della natura; quando si dice, ad esempio, il Padre ‛ non è ' il Figlio, la negazione ‛ non è ' esprime la reale distinzione delle Persone tra loro. Conoscere compete alle tre Persone, ma conoscere generando il Verbo è esclusivo del Padre; amare compete alle tre Persone, ma amare spirando attivamente l'Amore sussistente (lo Spirito Santo) compete al Padre e al Figlio.
Quanto si è detto è il frutto della Scolastica, che parte dalla sintesi di Pietro Lombardo nei Libri IV Sententiarum: nel I libro egli tratta della sussistenza trinitaria di Dio (dist. 2-48); della rappresentabilità della T. per mezzo di figure create, delle processioni della T., dell'uguaglianza, totalità, inseparabilità delle Persone, delle maniere di esprimere le denominazioni relative alla T. e gli attributi principali con i quali Dio entra in relazione con il mondo: la scienza, l'onnipotenza, la predestinazione, la potenza, la volontà.
Sull'impostazione del Lombardo seguono i trattati di Alessandro di Hales, Summa theologiae (della T. si parla in I 42-47); di s. Bonaventura, Breviloquium; di s. Alberto Magno, Summa theologiae; di s. Tommaso, Summa contra Gentiles (IV 1-26), Summa theologiae (I 27-43). S. Tommaso ritiene che i filosofi non conobbero il mistero della T. in quello che è proprio delle divine Persone, conobbero però alcuni attributi essenziali: la potenza, la sapienza, la bontà; con la ragione naturale si può provare l'unità di Dio non la T. delle Persone. Seguendo la linea agostiniana, per dare un'immagine della T. egli osservò come l'anima imita la T. nell'atto di ricordare, d'intendere, di volere, come la mente ha una triplice cognizione: di Dio, di sé stessa, delle cose temporali. E, in particolare, nella cognizione con cui la nostra mente conosce sé stessa c'è la rappresentazione della T. increata secondo l'analogia, in quanto la mente conoscendo sé stessa produce il suo verbo, e dalla conoscenza del verbo di sé stessa, produce l'amore (Sum. Theol. I 93 6; De Veritate 10 3 7).
L'idea di Dio in D. abbraccia un'analisi di tutta l'opera, specialmente il Convivio per l'esame del rapporto tra Dio e le creature, e tra Dio e le tre persone della Trinità (II V 9; v. ANGELO). Oltre l'accenno in Vn XXIX 3 alla T. come radice del miracolo di Beatrice, in quanto teofania, l'argomento della T., Dio in sé stesso, è ancor meglio svolto e celebrato, poeticamente e teologicamente, nella Commedia. L'epigrafe o iscrizione al sommo della porta dell'Inferno, pur non descrivendo la porta ne dice il profondo significato: Giustizia mosse il mio alto fattore; / fecemi la divina podestate, / la somma sapienza e 'l primo amore, If III 4-6. Sono nominate le tre Persone divine, con gli attributi: potenza, sapienza, amore. D. specifica che l'Inferno è opera di giustizia, poiché appartiene alla sapienza commisurare le pene alla colpa (" la giustizia che 'l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritò eterno supplicio ", Boccaccio), all'amore la volontà efficace di punire il peccato. Viene così precisata l'operazione ad extra della T. che appartiene in quanto potenza al Padre, in quanto sapienza al Figlio, in quanto somma carità allo Spirito Santo. Benché le operazioni ad extra siano comuni alle tre Persone, si attribuiscono più a una che ad altra persona per l'affinità e la caratteristica propria (la relazione) di ciascuna Persona. Nell'infima lacuna, nel punto più lontano da Dio, confitto al centro del globo terrestre, il poeta pone Lucifero, ma nel costruire la sua figura ha presente la T., e ne stabilisce i termini in funzione di parodia: Oh quanto parve a me gran maraviglia / quand'io vidi tre facce a la sua testa! / L'una dinanzi, e quella era vermiglia; / l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa / sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, / e sé giugnieno al loco de la cresta, If XXXIV 37-42.
La massima ribellione in D. è l'antitesi della T.: alla potenza, alla sapienza, all'amore corrispondono la perdita di ogni potere, la mancanza della parola, la privazione anche esterna del sentimento. Lucifero rimane su di una latitudine antiumana come nei giudizi degl'Inferni medievali, o come nell'affresco di Giotto alla cappella padovana degli Scrovegni. Per gli eventuali riscontri del tempo, orientativi, se non determinanti, delle scelte dantesche, stanno le raffigurazioni del demoniaco con un ricorso all'orrido e alla repugnanza. Il mondo del male si fonde con le visioni macabre di un mondo surreale, che meglio esprime, nella simbologia, l'idea di dannazione, e il mimo ha il sopravvento fino al grottesco.
È da notare che nel Duecento si diffuse in Italia, sotto l'influsso della nota visione di s. Pietro di Alessandria (m. 311), lo schema di un'iconografia trinitaria, di origine bizantina, con la rappresentazione di un corpo con tre volti. Di qui, per l'antitesi, Lucifero con le tre facce mostruose. Nel battistero fiorentino Lucifero maciulla un dannato e due ne afferra nel ceffo triforme. L'impotenza, l'ignoranza, l'odio simbolicamente presenti ed effigiati nelle tre facce si rafforzano nel realismo della colorazione anch'essa allusiva: vermiglia, gialla, nera, con la cresta che congiunge una testa all'altra e le ali con membrane di pipistrello. Da notare come la redenzione e l'incarnazione del Figlio siano un decreto del consistorio de la Trinitade, volto appunto a recuperare la simiglianza a Dio dell'umana creatura, che da lui era partita e disformata per la colpa di Adamo (Cv IV V 3).
Nelle altre due cantiche, soprattutto nel Paradiso, il discorso dantesco sulla T., conciso nei termini e ricco nelle immagini, s'inserisce e si estende nella sua più alta celebrazione. L'unità di Dio è più volte affermata in un linguaggio che si richiama alle ragioni filosofiche (maxime... ens, maxime est unum, et maxime unum, maxime bonum, Mn I XV 1), e a quelle teologiche del sommo Ben, che solo esso a sé piace (Pg XXVIII 91), del mare al qual tutto si move (Pd III 86), della prima volontà, ch'è da sé buona (XIX 86).
D., nel formulare il primo articolo del credo (Io credo in uno Dio / solo ed etterno, Pd XXIV 130-131), lo integra con i passi scritturali di Dio creatore, redentore, santificatore delle anime e con le tesi della Scolastica su Dio primo Motore dell'universo. Dio tutto muove con atto di volontà, come causa prima ed efficiente e come ultimo fine e risplende e penetra in tutte le cose, secondo la loro diversa perfezione. Procedendo inizialmente dall'esperienza sensibile del moto, ma poi formalmente dal moto metafisico, il poeta indica che qualunque passaggio, mutazione o successione è un passaggio dalla potenza all'atto, e questo non può avvenire che in un ente a cui manca qualcosa. Ma l'ente mobile non può dare a sé ciò che non possiede, né può essere mosso se non da un altro: nella serie delle cause per sé subordinate non è possibile un processo all'infinito. Solo per ipotesi può essere immaginato un numero infinito di cause, che siano subordinate accidentalmente. È necessario fermarsi a una causa prima che sia la ragione del moto, che dev'essere immobile, cioè per se actus. Si giunge, attraverso la prima via di s. Tommaso, l'argomento ex motu, all'atto puro, all'ente attuale, senza nessuna commixtio di potenza, fondamento per il nostro conoscere intellettivo delle perfezioni divine. Il poeta afferma che Dio tutto 'l ciel move, / non moto (Pd XXIV 131-132). Siamo, tuttavia, oltre la concezione della filosofia greca poiché in Aristotele è l'amore che muove il cielo e gli astri per Iddio; in s. Tommaso e in D. il moto è l'amore di Dio per il mondo: " tra le due cause motrici sta la differenza che separa la causa finale dalla causa efficiente " (É. Gilson, Lo spirito della filosofia medievale, Brescia 1963, 94).
D. asserisce inoltre: credo in tre persone etterne, e queste / credo una essenza sì una e sì trina, / che soffera congiunto ‛ sono ' ed ‛ este ' (vv. 139-141). Nella Scolastica si distingue il tempo che misura gli enti materiali, l'evo quello degli spiriti e l'eternità che è esclusiva di Dio, definita da Boezio (Cons. phil. V VI 4) " interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio ". L'eternità di Dio comprende ogni tempo ed esclude ogni successione e divisione: Dio è in sua etternità di tempo fore (Pd XXIX 16). Essendo Dio una sostanza in tre Persone, è possibile parlare di lui usando il verbo al singolare per indicare l'unità di natura, al plurale per esprimere la pluralità delle Persone. Così, nel cielo quarto del Paradiso, i beati inneggiano per tre volte alla T. e dicono che Dio Uno e Trino è non circunscritto, e tutto circunscrive (XIV 30), termini già usati da D. in Pg XI 2 nel senso che Dio, essendo l'essere sussistente e identificandosi la sua natura con l'essere, non è limitato dallo spazio; eppure l'essere semplicissimo li circoscrive dando a ciascuna creatura la perfezione, i limiti, lo spazio. Nel concetto d'infinità di Dio è connesso quello d'immensità e di ubiquità (Tomm. Cont. Gent. III 68).
Per dimostrare ancora l'esistenza di Dio D. usufruisce altresì della quarta via tomistica, l'argomento dell'ordine dell'universo: nel canto I del Paradiso, le alte creature dalla legge dell'ordine riconoscono la sapienza e la potenza del creatore, poiché l'ordine è forma / che l'universo a Dio fa simigliante (Pd I 104-105). L'argomentazione era stata posta in Mn I VIII 2 cum totum universum nichil aliud sit quam vestigium quoddam divinae bonitatis. In Cv III VII 5 anticipa il motivo che sarà ripreso nella Commedia: tutti gli esseri sono variamente vicini a Dio secondo la loro natura (ogni natura ha il proprio fine, e il fine è il termine in cui ciascuna riposa) e perciò rivelano un vestigio e una presenza della bontà divina in quanto sono più al principio loro e men vicine (Pd I 111). Nel canto X il poeta espone nuovamente l'argomento della quarta via, ed è s. Tommaso a proporlo, osservando la disposizione dei circoli celesti, quel punto del cielo dove il moto di rotazione diurno di tutti i corpi celesti, da levante a ponente, s'incontra con il moto annuo dei pianeti da ponente a levante, e cioè negli equinozi di primavera e di autunno. Il concetto parte dalla T.: il Padre, prima e inesprimibile potenza, guarda nel Figlio e, con lo Spirito Santo che procede dall'uno e dall'altro, opera la creazione. Il poeta usa spira (Pd X 2), termine essenzialmente teologico per indicare la relazione divina passiva, lo Spirito Santo, che procede unica spiratione dal Padre e dal Figlio.
La creazione è azione indivisa della T.: il creato visibile e invisibile rivela la Mente divina che con tant'ordine fé, ch'esser non puote / sanza gustar di lui chi ciò rimira (vv. 5-6). Con immagine diversa, attinta dal prologo giovanneo (1, 9-10) nel canto XIII del Paradiso, il poeta ascolta la lezione di s. Tommaso sulla creazione degli angeli, dell'anima, degli elementi splendor di quella idea / che partorisce, amando, il nostro Sire (Pd XIII 53-54). È detto nella Summa theol. (I 44 3c): " in divina sapientia sunt rationes omnium rerum: quas supra diximus ideas, id est formas exemplares in mente divina existentes ". La viva luce del Verbo proviene dal suo lucente (il Padre, lumen de lumine, com'è detto nel Credo); questi non si separa né dal Figlio né dallo Spirito Santo, che è terzo tra loro (s'intrea, v. 57): per sola bontà il Verbo irradia e raccoglie in nove sussistenze (crediamo che l'accenno riguardi i nove cori angelici), come in altrettanti specchi, i suoi raggi rimanendo eternamente nella sua unità: Dio... ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste Intelligenze (Cv III XIV 4). Ancora sulla creazione e sulla T. si ha un nuovo inserimento del tema, a proposito della creazione degli angeli, in Pd XXIX 10-48.
Dio è rappresentato come un punto privo di ogni dimensione e materialità, assolutamente semplice e indivisibile (cfr. Cv II XIII 27) e nello stesso tempo, per spiritualizzarlo, come un punto lucentissimo, a significare l'infinita potenza. Da quel punto / depende il cielo e tutta la natura (Pd XXVIII 41-42). In Dio s'appunta ogne ubi e ogne quando (XXIX 12): lo spazio e il tempo. Essendo eterno Dio abbraccia ogni tempo, essendo immenso ogni spazio. Per produrre immagini di sé, testimonianza e manifestazione della sua grandezza, in sua eternità, volle, nell'istante, la creazione degli angeli, forma pura la materia prima incorruttibile, cioè il cielo cristallino o acqueo, la materia e la forma congiunte: i cieli. Create e ordinate furono le sostanze, concreati invece gli accidenti e i loro modi.
Il concetto dell'esposizione dantesca rispetto alla T. è quello teologico: Dio, suprema perfezione in atto, creò indipendentemente da ogni causalità estrinseca, per un atto gratuito d'amore, non per aver a sé di bene acquisto (Pd XXIX 13); l'atto creativo avvenne nell'eternità, fuori di ogni limite, luogo, tempo, spazio. Come da un arco a tre corde raggiò il triforme effetto dell'azione divina, gli angeli furono posti nel luogo eccelso, la materia prima (i quattro elementi) nel mondo sublunare, i cieli nel mezzo. Con tale lezione D. fece l'esegesi del primo versetto della Genesi. Al termine del poema, avendo chiesto, per grazia, nella preghiera di s. Bernardo di poter assurgere alla visione di Dio, e Dio purissimo spirito non può essere veduto con gli occhi, sarebbe stata necessaria una teofania, e che Dio prendesse forma per rivelarsi sensibilmente. Il poeta riconosce che descrivere quel momento è cosa impossibile e che le sue parole sono come il balbettio dell'infante; egli contempla Iddio, semplice per essenza e immutabile, sente che la sua capacità visiva si accresce di rinnovato vigore. Avanzando nell'infinita luce della natura divina, gradualmente discopre l'incommensurabile profondità del mistero della Trinità. Non si trasmuta Dio, ma il suo intelletto. Nella sostanza eterna gli appaiono tre cerchi di tre colori diversi e della stessa dimensione: dei primi due l'uno era il riflesso dell'altro, come iride da iride, il terzo pareva fuoco procedente dall'uno e dall'altro. La T. e la processione delle Persone sono rese con immagini: è il prodotto dell'alta fantasia, poiché il poeta dice di essersi congiunto misticamente per via intellettiva col valore infinito, senza riuscire a descrivere la divina essenza. O luce etterna che sola in te sidi, / sola t'intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi! (Pd XXXIII 124-126).
La T. risiede nella sua propria natura. Ella sola può conoscere e intendere sé stessa: la sapienza in Dio non può essere distinta dalla sostanza sia per l'assoluta semplicità della natura, sia perché la sapienza divina è immanente nella divina essenza. Nella T. il Figlio è il termine dell'intellezione del Padre, vera generazione spirituale secondo l'operazione divina dell'intelletto. Come da unico principio procede l'amore: lo Spirito Santo, termine dell'atto di volizione del Padre e del Figlio. In una sola terzina la natura divina è glorificata come somma sapienza e invocata nelle tre Persone. Il mistero è enunciato nella distinzione delle Persone, che s'identificano nell'unica e medesima sostanza inseparabile, eguale, eterna, divina.
Non sarebbe stato difficile a D., giunto nella candida rosa, dopo la visibile apparizione dei volti dei beati e del loro corpo glorificato, immaginare una concezione trinitaria concreta secondo alcune proposte già accolte nelle chiese: le sembianze umane di tre Persone eguali e distinte o le sembianze di un triplice volto umano, oppure il motivo dei tre angeli apparsi ad Abramo (Gen. 18, 1-8), nei quali i padri ravvisarono adombrata la T. e che aveva già trovato una larga iconografia a Santa Maria Maggiore in Roma, a San Vitale in Ravenna, sui capitelli e colonne del duomo di Parma e del duomo di Piacenza. Ma il poeta si sentì lontano da tali prove per la loro figurazione materiale, compresa quella della mano o del Pantocrator dell'iconografia bizantina e accolse un'esperienza di cultura astratta più vicina alla concezione pura di un'idea altissima e inesprimibile. Lo pseudo-Dionigi Areopagita nel De divinis nominibus (IV 14, Patrol. Graec. III coll. 711-714) aveva così espresso l'idea dell'amore divino: " Qua in re et fine et principio se carere divinus amor excellenter ostendit, tanquam sempiternus circulus, propter bonum, ex bono, in bono, et ad bonum indeclinabili conversione circumiens, in eodem et secundum idem, et procedens semper, et manens et remeans ".
S. Agostino per primo pensò al motivo dei tre cerchi, che egli chiamò dei tre anelli, per esprimere il concetto trinitario: " È come se da uno stesso pezzo d'oro si facessero tre anelli somiglianti, connessi insieme e reciprocamente riferentisi perché simili (infatti ogni simile è simile a qualche cosa): una trinità di anelli e un solo oro (Trinitas anulorum est, et unum aurum). Ma se si mescolassero insieme, in modo che ogni anello si confondesse con tutta la massa, verrebbe meno la Trinità; e allora non solo non si direbbe un solo oro, come nei tre anelli, ma non vi sarebbe neppure alcuna trinità aurea " (De Triti. I IX 5 n. 7). Pietro Alfonso (1062-1110) nei Dialoghi (De Trin., Patrol. Lat. CLVII 612) segnò il grafico di tre piccoli cerchi. Nell'Expositio in Apoc. (fol. 36 v.) Gioacchino da Fiore lo cita come studioso della T. e a lui s'ispirò sviluppando lo schema geometrico dei tre cerchi. Come si può vedere nel Liber figurarum (cfr. ediz. L. Tondelli, tav. XI, Torino 1953), i cerchi sono segnati sullo sfondo del Vecchio e del Nuovo Testamento, con le indicazioni dei tre tempi della storia umana. Il Padre è simboleggiato nel cerchio di color verde, in quello azzurro il Figlio, in quello rosso lo Spirito Santo. Il paragone dantesco (iri da iri) è in s. Giovanni (Apoc. 4,3) e in Gioacchino che, nella precisazione dei colori prescelti, perché fondamentali, osserva: " Si speciem iridis, quam videmus in nubibus, diligenter notamus tres in ea colores esse perpendimus: unum viridum... Alium caeruleurn vel aereum, tertium rubicundum " (Expos. fol. 101 r).
Si noti, tuttavia, che D. non precisa il colore di due cerchi e che la raffigurazione di Gioacchino coincide con il suo errore di ritenere che le tre Persone divine non avessero un'unica sostanza. Nel disegno i tre cerchi con tre colori indicano tre sostanze distinte e per persona e per essenza, non tre Persone in un'unica e medesima essenza. Tale errore trinitario era stato condannato nel concilio lateranense del 1215. D'altra parte, con la geometria piana è impossibile descrivere tre cerchi di tre colori e d'una contenenza (Pd XXXIII 117), cioè, osserva il Busnelli, " di egual raggio, sovrapposti a una linea circolare, perché non riuscirebbero mai uguali e concentrici, e distinti, dovendo un colore non coprire l'altro per distinguersene ", e propose, come sua ipotesi, un globo o sfera di luce lampeggiante per ogni lato, che entro sé presentava tre cerchi diversamente colorati. " Non è difficile - scrisse - tra quanti circoli massimi si possono immaginare in una sfera, designarne tre, che sono tutti uguali e concentrici, dei quali due abbiano nei loro piani un diametro comune, facendo un angolo diedro, da parere che l'uno rifletta nell'altro la sua immagine, sicché l'uno sia il riflettente e l'altro il riflesso; e il terzo entri fra mezzo a loro nell'angolo diedro, immedesimando il proprio diametro col diametro comune degli altri due, e prendendo, come dice Dante, quinci e quindi, cioè dal riflettente e dal riflesso, il color rosso di foco ".
A noi sembra che l'ingegnosità delle soluzioni, sia con la geometria piana che con la solida, voglia compiere uno sforzo per rendere definibile ed evidente una visione che il poeta desidera non precisare entro determinati confini, tranne che nell'idea del cerchio, che non avendo principio né fine può richiamare, per analogia, l'idea dell'infinito. Ciò che rimane non afferrabile, al di fuori di ogni precisazione scientifica, risponde perfettamente all'idea del poeta che ha voluto dare, crediamo, nella figurazione del più grande dei misteri, un senso di vero mistero. L'elemento luminoso (trina luce... 'n unica stella, Pd XXXI 28), le immagini vedute quasi in un rapimento fantastico, la commozione del poeta che si rivela in espressione di trepidazione, come si addice al momento contemplativo, l'arduo contenuto teologico divenuto assolutamente immateriale e astratto, e non più obbligante sul piano razionale, ma libero nell'atto di fede, sospingono il lettore a entrare in questa mirabile penombra di un'esposizione che non può andare oltre e che, trascendendo le forze dell'intelletto, non consente alla parola l'adeguata rappresentazione visiva. In quell'istante nel poeta " dove terminava l'operazione dell'intelletto ivi cominciava l'operazione dell'affetto, in giro ricorrente su se stesso, con equabile tranquillo moto " (M. Casella). L'altro desiderio del poeta era conoscere il mistero dell'Incarnazione. Nel giro dei tre cerchi il suo sguardo era rivolto al lume riflesso, al Verbo generato dal Padre che, nell'interno del secondo giro, appariva dipinto della nostra immagine umana. D. voleva vedere come sussisteva la natura umana nella persona del Verbo, come l'effigie umana si unisce con il cerchio e cioè la sostanza divina, e come trova il suo dove; come cioè Dio si è fatto uomo restando Dio. Ma è fuori delle forze umane voler vedere come si possa iscrivere l'immagine al cerchio, problema insolubile come quello della quadratura del cerchio. D. non poté avere la veduta immediata della divina essenza, delle Persone della T. e del Verbo incarnato altro che attraverso le figure sensibili come i cerchi e i colori. Sulla chiosa del Buti il Palmieri nel suo commento osservò: " Mentre all'intelletto si svelava la divina essenza, nella sua fantasia si formava una visione immaginaria delle cose vedute non già per aiutare l'intelletto a vedere, ma quale conseguenza della visione intellettiva, di cui una smorta immagine si rifletteva nella sua fantasia, la quale non di meno, qual che si fosse, prestava materia al poeta per scriverne qualcosa. Ciò che ha veduto appartiene alla visione fantastica che accompagnava l'intellettiva; di quel che vide con l'intelletto illuminato del lume di gloria, nulla in specie ci dice, sol contentandosi di dirci che ha veduto ". Di fronte ai due misteri principali della fede, la T. e l'Incarnazione, D. confessa l'impossibilità di una rappresentazione del divino come aveva già affermato in Cv III IV 9 nostro intelletto, per difetto de la vertù da la quale trae quello ch'el vede, che è virtù organica, cioè la fantasia, non puote a certe cose salire (però che la fantasia nol puote aiutare). Dopo la contemplazione del coelum Trinitatis la testimonianza di D. non si dissolve in una forma di emozione generica, ma ha valore d'illuminazione mistica, secondo la grande esperienza spirituale medievale dell'itinerarium mentis in Deum.
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