TRIFOGLIO (fr. trèfle des prés; sp. trébol; ted. Kopfklee; ingl. clover)
Nome volgare delle specie del genere Trifolium (Linneo, 1735), piante Dicotiledoni Archiclamidee della famiglia Leguminose Papilionate, che prendono questo nome dal fatto di avere normalmente le foglie composte trifoliolate.
Sono erbe annue o perenni, con foglie sparse, munite di stipole intere saldate verso la base del lungo picciolo; i fiori sono riuniti in capolini o in spighe terminali o ascellari, più raramente sono 1 o pochi disposti all'ascella delle foglie, di color roseo, rosso, bianco, giallo, giallastro o violaceo. Il calice è campanulato o urceolato tubuloso con 5 denti per lo più ineguali; i petali tutti o i 4 inferiori saldati alla base col tubo staminale; vessillo oblungo, carena più o meno acuta generalmente più breve delle ali. Stami 10 diadelfi con i filamenti spesso dilatati sotto le antere. Legume piccolo, oblungo, subcilindrico o obovato-compresso, liscio, deiscente o indeiscente, chiuso nel calice talora accrescente e trasformato in apparecchio di disseminazione: semi piccoli 1-2, più di rado 3-10.
Questo genere, secondo Bentham e Hooker, comprende 150 specie, secondo Engler invece oltre 300, diffuse nelle regioni temperate e subtropicali dell'emisfero boreale, poche nella regione andina e in quella capense. Nella flora italiana, secondo A. Fiori, sono comprese circa 60 specie: alcune (T. arvense L.; T. scabrum L., T. angustifolium L., T. incarnatum L., T. ochroleucum Huds., T. nigrescens Viv., T. elegans Savi, T. repens L., T. patens Schreb., T. campestre Schreb., T. lappaceum L., ecc.), sono comuni e frequenti dal mare alla regione montana.
Vivono nelle zone elevate delle Alpi e dell'Appennino: T. alpestre L., T. alpinum L., T. badium Schreb., T. noricitm Wulf., T. saxatile All., T. spadiceum L., T. Thalii Vill.
Sono rari e sparsi qua e là nell'Italia centro-meridionale e nelle isole: T. brutium Ten., T. congestum Guss., T. Janinianum Boiss., T. lagopus Pourr., T. Perreymondi Gren. p. p. (solo in Corsica), T. Sebastiani Savi, T. speciosum W. Sono invece endemici i seguenti: T. Bivonae Guss. e T. obscurum Savi.
Agraria. - Alcune specie sono importanti dal punto di vista agrario perché forniscono ottimo foraggio e vengono perciò coltivate; la più importante e più conosciuta è il trifoglio pratense (Trifolium pratense L.) detto anche trifoglio bolognino, pesarese, violetto o anche trifoglione (fr. trèfle rouge o violet; sp. trébol rojo; ted. Rotklee; Wiesenklee; ingl. red clover), che è una delle più comuni leguminose da prato artificiale.
Fra le altre specie di trifogli meritano menzione, perché coltivate in certe regioni per la produzione di foraggio, le seguenti: trifoglio bianco o ladino (T. repens L.); trifoglio incarnato o erba rossa (T. incarnatum L.); trifoglio ibrido o svedese (T. hybridum Savi); trifoglio egiziano, alessandrino o bersim (T. alexandrinum L.).
Oltre al trifoglio ladino, frequentemente spontaneo, diverse altre specie di trifoglio si trovano nella complessa flora dei pascoli e dei prati naturali; come piante foraggere questi trifogli spontanei, eccezione fatta del ladino che è ottimo, sono mediocri; di esse non è il caso di occuparsi, perché non conviene mai farne speciale oggetto di coltivazione.
Trifoglio pratense. - Probabilmente originario delle Fiandre, venne introdotto nel Veneto nel sec. XVI e presto diffuso nell'Italia settentrionale. Circa due secoli dopo fu importato in Toscana e nelle Marche, ma la sua coltura in queste regioni come pure nell'Umbria, rimase assai limitata fino alla seconda metà del sec. XIX. Non ebbe mai apprezzabile diffusione nell'Italia meridionale e nelle isole, dove il clima non gli è favorevole. Nell'Europa centrale e settentrionale la sua coltura è molto più importante che nella meridionale. Per avere una idea dell'importanza della sua coltivazione in Italia conviene considerare che la complessiva produzione foraggera dei prati artificiali, espressa in fieno, risulta di circa q. 126 milioni, dovuta in massima parte alle regioni settentrionali e centrali; orbene, circa la quinta parte di detta produzione, ossia q. 25.000.000 va attribuita al trifoglio pratense coltivato su una superficie approssimativa di mezzo milione di ettari. Conviene notare che, negli ultimi decennî, la superficie coltivata a trifoglio pratense ha subito una notevole diminuzione, mentre s'è maggiormente estesa la superficie investita a erba medica. Ciò perché nei climi italiani il medicaio s'è dimostrato più redditizio del prato di trifoglio.
Le caratteristiche principali del trifoglio pratense, dal punto di vista agrario, sono le seguenti: pianta perennante o vivace, ma poco longeva, perché la maggior parte delle piante muore dopo il secondo e terzo anno dalla semina; radici brevi, molto ramificate, con piccoli tubercoli dovuti al batterio simbionte (Bacillus radicicola); steli eretti, ripullulanti dalla base; foglie lungamente picciolate, trifoliolate; infiorescenze a capolino; fiori con lungo tubo corollino di colore roseo; frutti ordinariamente uniseminati; semi ovali di colore verdognolo, giallo o violetto.
Esistono varietà di trifoglio pratense della Normandia, della Bretagna, dell'Olanda e anche italiane, o, meglio, da lungo tempo coltivate in Italia. Fra queste ultime è nota specialmente la varietà bolognese che non è di stirpe pura o eletta, sibbene costituita da una popolazione di tipi, ma tuttavia molto pregiata. Nel Canavesano esiste una speciale varietà di trifoglio denominata spadone o gigante canavesano che, se coltivato in terreni molto freschi e fertili, è capace di rendimento maggiore rispetto alla comune varietà bolognese. Il trifoglio spadone però, causa le sue maggiori esigenze, è poco diffuso e quasi sconosciuto fuori del Piemonte. Il trifoglio pratense predilige climi temperati-freddi o freddi; resiste molto alle basse temperature, ma teme la siccità intensa e prolungata. Nessuna speciale esigenza esso ha nei riguardi del terreno, anzi può prosperare anche in terreni sensibilmente acidi.
Nel primo anno di coltura il trifoglio pratense cresce poco; perciò, di regola, viene coltivato in consociazione temporanea con altre piante, come il frumento o l'avena. È pratica antica quella di seminare il trifoglio sul frumento già nato, nel mese di marzo, spargendo kg. 25-30 di seme per ettaro. Il seme di trifoglio viene ricoperto mediante erpicatura; la foraggera nasce e cresce in mezzo al grano fino alla mietitura; poi rimane padrona del terreno, cresce poco nella rimanente parte dell'anno, ma si prepara a una rigogliosa vegetazione nel secondo anno in cui il prato di trifoglio potrà dare due o tre tagli o sfalci di foraggio. Per meglio garantire la buona riuscita del prato si consiglia di seminare il trifoglio su coltura di grano precoce, o meglio, di seminarlo in consociazione con avena primaverile da falciarsi verde per foraggio. Normalmente il prato di trifoglio pratense dà il suo prodotto nell'annata successiva a quella della semina; poi rimane alquanto diradato e, salvo casi eccezionali di maggior durata, viene dirotto per far seguire la coltura del frumento. Così, ordinariamente, la coltura del trifoglio pratense occupa, nell'avvicendamento delle colture, un solo posto annuale. La produzione consiste in due tagli o sfalci di foraggio, eccezionalmente tre, se in coltura asciutta; normalmente in tre tagli se in coltura irrigua. In complesso s'ottengono da q. 50 a 100 di fieno per ettaro. La fienagione è un po' difficoltosa; il fieno è di buona qualità, talora anche ottima. Volendo produrre seme di trifoglio si lascia assemare il secondo taglio; si possono ottenere da due a quattro quintali di seme per ettaro. Il prato di trifoglio va soggetto ai danni di due piante parassite; la cuscuta (Cuscuta epithymum e altre specie) e l'orobanche o fiamma o sparagione (Orobanche speciosa); speciali accorgimenti valgono a evitare o attenuare dette infestioni. Varî altri parassiti vegetali e animali danneggiano talora le piante del trifoglio pratense; i più nocivi sono alcuni insetti che attaccano i fiori e i frutticini del trifoglio lasciato maturare per la produzione del seme, rendendo talora scarsa o quasi nulla questa produzione. Contro tutte le avversità cui va soggetto il trifoglio, giovano generalmente il non ripetere di frequente la coltura di questa foraggera nello stesso terreno e l'appropriata concimazione della coltura medesima.
Trifoglio bianco o ladino. - È la specie più diffusa allo stato spontaneo, la quale però si presenta rigogliosa soltanto in terre freschissime e permeabili (Lombardia, Olanda). Colture speciali di trifoglio ladino si fanno quasi esclusivamente nel Lodigiano e nel Cremonese. Il trifoglio ladino è pianta vivace alquanto longeva, ha radici numerose ma sottili, steli striscianti sul terreno e capaci di emettere radici; foglie a picciolo lunghissimo trifoliolate capaci di grande sviluppo; infiorescenze a capolino, bianche o leggermente rosee, con peduncolo anche più lungo dei piccioli fogliari; i frutticini sono piccoli lomenti pluriseminati caduchi a maturità; semi subrotondi, piccolissimi (un seme pesa meno di un milligrammo).
Trascurando i numerosi tipi di trifoglio ladino a piccolo sviluppo, esistono due principali varietà coltivate di detto trifoglio: il lodigiano o italiano, spontaneo nella Val Padana, che è il più pregiato perché capace di grande sviluppo, e l'olandese, spontaneo nelle praterie olandesi.
Per ottenere buoni prodotti di trifoglio ladino è necessaria l'irrigazione. Il prato di ladino può essere misto, cioè in consociazione con altre foraggere, specialmente graminacee, o puro, ossia di solo trifoglio ladino; il prato di puro ladino è una specialità quasi esclusiva della bassa Lombardia. Per formare il prato di ladino occorrono speciali diligenze nella preparazione del terreno per impedire lo sviluppo spontaneo di altre piante vivaci, compreso il loietto che frequentemente accompagna il ladino. La semina del ladino, impiegando soltanto kg. 3-5 di seme per ettaro, viene fatta ordinariamente in consociazione con segala o avena, talora frumento precoce. Il prato di ladino produce 3-4 tagli di foraggio ottimo, perché costituito solamente di foglie e fiori; dura in buona produzione 2-3 anni. Volendo produrre il seme, si lascia assemare il terzo taglio, sospendendo l'irrigazione a tempo opportuno e rinunziando al quarto taglio di foraggio; si possono ottenere da 1 a 3 quintali di seme per ettaro. Il trifoglio ladino, spontaneo nella Pianura Padana, vi fa quasi sempre parte della flora dei prati naturali. Frequentemente vengono formati prati misti di trifoglio ladino e trifoglio pratense cui quasi sempre si aggiunge loietto spontaneo (Lolium italicum); da questi prati s'ottiene una produzione più abbondante, ma meno pregiata, che da quelli di puro ladino.
Trifoglio ibrido o svedese (Trifolium hybridum). - Questo trifoglio somiglia alquanto al trifoglio pratense nel portamento eretto degli steli, al trifoglio ladino nel colore rosa pallido dei fiori e nella piccolezza dei semi, i quali però sono bruni anziché gialli.
Il trifoglio ibrido s'adatta bene ai climi freddi e ai terreni molto umidi, non ugualmente ai climi temperati. Perciò detto trifoglio non è quasi affatto coltivato in Italia.
Trifoglio incarnato (Trifolium incarnatum). - Differisce molto dalle altre specie per essere pianta annua anziché vivace, perciò non adatta a formare prati propriamente detti, sibbene colture foraggere di breve durata chiamate erbai. La pianta è relativamente povera di radici, le quali non portano molti tubercoli. Gli steli sono eretti e grossetti; foglie composte di tre foglioline relativamente piccole; infiorescenze a capolino spiciforme di colore rosso-carne; semi grossetti; tutta la parte epigea della pianta ricoperta di pelurie.
Preferisce climi temperati-caldi e terreni molto permeabili. Il trifoglio incarnato, seminato di regola in autunno, da solo o in consociazione con altre foraggere, è molto sollecito nello sviluppo primaverile e perciò adatto per la formazione di erbai primaverili. ll foraggio allo stato fresco è abbastanza buono, ma non è adatto a essere trasformato in fieno. La Coltura del trifoglio incarnato ha limitata importanza.
Trifoglio egiziano o alessandrino (T. alexandrinum) chiamato in Egitto bersim. - Rappresenta la principale, quasi unica, coltura foraggera della vallata del Nilo. Pianta annua, a steli eretti, capace di ripullulare più volte dopo la falciatura.
Può essere utilmente coltivata soltanto in paesi caldi e in terre irrigue. Trova ottime condizioni di vegetazione nel Delta egiziano, dove vegeta durante il periodo vernino e ha grande importanza per abbondante produzione di ottimo foraggio (3-4 tagli) e dove compie altresì l'ufficio di fertilizzare il terreno come pianta da sovescio al termine della sua coltura. Il trifoglio egiziano non è privo d'interesse per l'Italia, perché esso vi può prosperare nelle regioni più meridionali, specialmente in Sicilia, dove, col sussidio di qualche irrigazione, può produrre 2-3 tagli di foraggio in fine d'inverno e in primavera, con notevole anticipo sulla produzione dell'erba medica.