GRITTI, Triadano
Nacque a Venezia nella prima metà del 1391, primogenito di Omobono di Triadano, del ramo a Castello, e di Giovanna Orsini di Ziliolo, ricco banchiere di origine comasca.
Nel 1418 fu visdomino al fondaco dei Tedeschi, carica amministrativa che consentiva di entrare in contatto col mondo della mercatura. E fu proprio quella della mercatura, con ogni probabilità, la scelta compiuta negli anni seguenti dal G. (come dai suoi fratelli e figli, che soggiornarono spesso a Costantinopoli e in Fiandra), poiché a lungo il suo nome non compare nell'ambito della politica veneziana.
Il 21 ag. 1428 risulta avere in appalto biennale metà del dazio della Beccaria, per la cifra consistente di 52.990 lire l'anno. Il 16 ott. 1432 fu eletto auditore-sindaco in Terraferma, ma rifiutò la carica. Il gesto non ebbe conseguenze negative per la carriera del G. se, il 16 dicembre successivo, era già stato incaricato dal Senato di dirimere le controversie sorte tra il marchese d'Este e i Padovani in merito alle arginature dell'Adige.
Il G. diede buona prova di sé, mettendo evidentemente a frutto l'esperienza mercantile. Tra giugno e settembre 1433 fu cooptato nel Consiglio dei dieci e l'8 luglio fu eletto fra i deputati alla vendita del palazzo a S. Stae, confiscato al Carmagnola dopo la condanna a morte.
Tale lusinghiero accesso ai vertici delle magistrature dello Stato non lo distolse dal mondo degli affari, poiché il 20 febbr. 1434 ricevette l'appalto di una galea della "muda" di Fiandra. Trascorso qualche tempo, il 24 sett. 1436, fu governatore delle Entrate. Il 1° ott. 1438 entrò in Senato, e da ottobre a settembre 1439 ebbe nuovamente accesso al Consiglio dei dieci; il 19 giugno 1440 fu eletto consigliere ducale e il 2 ottobre capitano a Bergamo, ma evidentemente dovette rifiutare la carica, giacché il 13 novembre il Maggior Consiglio nominò Andrea Zulian.
Savio di Terraferma nel primo semestre del 1441, il 1° ottobre fu eletto capitano a Brescia, ma rifiutò nuovamente di recarsi fuori città; probabilmente alle radici di tale scelta, che certo ne danneggiò l'immagine, c'erano ancora una volta gli affari privati. Rimasto vedovo di Suordamor Canal di Pietro di Filippo - sposata nel 1417, ricevendone in dote 1400 ducati d'oro -, nel 1441 il G. si risposò con Elisabetta Correr di Nicolò del procuratore Filippo, vedova di Marino Dolfin; il G. aveva cinquant'anni e figli già grandi, per cui le ragioni di tale decisione vanno probabilmente cercate nei 2200 ducati portatigli in dote dalla Correr.
Il 30 genn. 1442 fu incaricato, con Andrea Bernardo, di recarsi presso Francesco Sforza in procinto di rientrare nella Marca anconetana, ma la missione non ebbe luogo, poiché lo Sforza preferì recarsi a Venezia. Savio di Terraferma per il semestre aprile-settembre 1442 (e ancora nel marzo del 1443), in ottobre il G. entrò a far parte per un anno del Consiglio dei dieci, mentre il 17 genn. 1444 fu eletto podestà a Brescia.
Formalmente c'era la pace fra la Repubblica e Filippo Maria Visconti, ma la situazione in Lombardia rimaneva precaria, con improvvise incursioni da una parte e dall'altra, fra incessanti trattative diplomatiche e minacciosi ricatti dei condottieri, cui si aggiungeva la dubbia fedeltà di popolazioni troppo a lungo provate dal conflitto. Brescia era reduce dal duro assedio del 1438, per cui l'opera del G. fu volta essenzialmente ai problemi della giustizia e dell'annona, ossia a ristabilire in città normali condizioni di vita.
Dopo esser stato rimpatriato, il 1° ag. 1445 il G. fu eletto consigliere per il sestiere di Castello. Ancora in carica, fu scelto come comandante della muda delle galee di Fiandra (23 febbr. 1446), tornando così alla mercatura, con profitto: il 2 maggio 1447, infatti, la London Factory gli riconosceva un credito di 8000 ducati.
Nell'ottobre 1447 entrava nuovamente a far parte del Consiglio dei dieci, e il 27 ottobre fu eletto provveditore della Ghiara d'Adda, ma rifiutò. La morte del Visconti aveva riacceso la partita intorno alla sua difficile eredità, e la parola era passata, una volta di più, alle armi. Il 3 novembre il G. risultò eletto ambasciatore al re di Napoli, ma non si fece trovare; governatore delle Entrate dall'aprile 1448 all'8 marzo 1450, il 30 ag. 1449 venne cooptato nella zonta del Consiglio dei dieci per giudicare il protonotaro apostolico Cristoforo Cocco, accusato di tradimento; il 10 novembre rifiutò l'elezione a provveditore a Crema, da poco riconquistata, sicché in sua vece vi fu inviato il cavaliere Giacomo Antonio Marcello.
Né fu questo l'ultimo diniego del G. a servire la patria in armi: il 26 febbr. 1450 venne eletto capitano in Golfo, ma riuscì a evitare la nomina riconoscendosi debitore di imposte non pagate; il 16 maggio risultava sorprendentemente scelto quale provveditore dell'esercito; stavolta accettò ma, c'è da credere, considerasse trattarsi - tale nomina - di un atto puramente formale, in seguito al naturale esaurimento delle operazioni militari: lo Sforza infatti era riuscito ad avere Milano e lo stesso comandante delle truppe venete, Sigismondo Malatesta, aveva lasciato il campo per far rientro nei suoi domini in Romagna. Il 31 maggio rifiutò l'elezione a capitano di Candia, per cui in sua vece venne nominato Bernardo Bragadin. Evidentemente non voleva lasciare Venezia; una possibile spiegazione di tale caparbia condotta può essere costituita dal fatto che, proprio in questi mesi, il G. si trovava impegnato in una grossa impresa, e cioè l'acquisto di parte dei beni, situati nel Veronese, che già erano stati del cugino Michele Gritti.
Avogador di Comun dal 26 luglio 1450 al 3 febbr. 1451, in tale veste il G., il 7 nov. 1450, fu cooptato nella zonta del Consiglio dei dieci chiamata a inquisire sull'omicidio di un membro dello stesso Consiglio, Ermolao Donà, di cui principale sospettato era il figlio del doge, Jacopo Foscari. Nonostante la mancanza di precise testimonianze, a causa della segretezza che circondava la procedura dei Dieci, pare che il G. si pronunciasse per la colpevolezza del Foscari, che fu esiliato a Creta.
A fine anno accettò finalmente di andare ambasciatore al re di Napoli, Alfonso I d'Aragona, con cui la Repubblica aveva da poco concluso un'alleanza in funzione antisforzesca; lasciò Venezia alla metà di febbraio del 1451; l'11 giugno il Senato gli comunicava il bando contro i Fiorentini, espulsi da Venezia dopo che la loro città si era schierata con Milano, e un mese più tardi (11 luglio) l'elezione a luogotenente della Patria del Friuli; il 16 settembre riceveva una ingente somma di denaro per recarsi a Roma a perfezionare il trasferimento, concesso da Niccolò V, della sede patriarcale da Grado a Venezia. Era questo il senso della precedente elezione del G. alla luogotenenza friulana ma, una volta rimpatriato, rifiutò la nomina (5 marzo 1452), per assumere tre giorni dopo, ancora una volta, la carica di avogador che tenne sino a tutto novembre; in tale veste fu più volte cooptato nella zonta del Consiglio dei dieci.
Eletto il 26 nov. 1452 podestà a Padova, vi si recò all'inizio dell'anno seguente, rimanendovi fino al settembre 1454.
Dispiegò un notevole dinamismo sia nel campo delle opere pubbliche (fece ampliare i portici del palazzo della Ragione e scavare un canale lungo mezzo miglio da porta Codalunga a S. Marco Piccolo), sia nell'amministrazione della giustizia, al punto da suscitare l'intervento della stessa Avogaria di Comun, peraltro sconfessata poi dal Consiglio dei dieci. Savio del Consiglio per il solo primo trimestre del 1455, e poi ancora dal 1° ott. 1455 al 31 marzo 1456, in giugno e luglio 1455 fu a Roma, con Ludovico Foscarini, Giacomo Loredan e Pasquale Malipiero, per congratularsi col nuovo papa Callisto III, da cui gli inviati ottennero la facoltà per la Repubblica di perseguire i preti debitori.
Il 7 giugno 1456 il G. venne cooptato nella zonta del Consiglio dei dieci, ancora una volta per giudicare l'operato di Jacopo Foscari, accusato proprio da un figlio del G., Luca, di tramare contro la Repubblica dall'esilio cretese; dopo di che fece parte dei savi del Consiglio per il semestre ottobre 1456 - marzo 1457; il 27 ottobre fu eletto avogador di Comun e tre giorni dopo fu dei quarantuno elettori del doge Pasquale Malipiero. Nominato ambasciatore al neoeletto papa Pio II (11 sett. 1458), giunse a Roma due mesi dopo insieme con Girolamo Barbarigo, Giacomo Loredan e Matteo Vitturi; la S. Sede stava promuovendo una lega di principi cristiani contro il Turco (che proprio allora aveva invaso la Morea), e scopo precipuo della missione fu di assicurare al papa che Venezia era disposta alla guerra contro Maometto II, sebbene gli interessi dei suoi mercanti in Levante sconsigliassero che la sede del convegno fosse Udine - com'era stato ventilato - o altro luogo nei domini marciani.
La località prescelta fu Mantova, ove la Dieta si aprì il 26 sett. 1459, alla presenza del papa; il G. seguì da lontano la complessa trattativa e tuttavia vi ebbe un ruolo importante come savio del Consiglio, carica che rivestì sia nella fase preparatoria del convegno, sia durante lo svolgimento dei lavori (1° gennaio - 30 giugno 1459; 1° ott. 1459 - 31 marzo 1460). Numerosi e importanti furono i suoi interventi in Collegio, che lo rivelano diffidente verso le intenzioni di Pio II, certamente generose e nobili, ma pericolose per i Veneziani, chiamati a sostenere il primo e più duro cimento con gli Ottomani. A complicare i rapporti veneto-pontifici si aggiungeva poi la questione delle decime del clero dalmata e, soprattutto, la contrastata elezione del nuovo vescovo di Padova, che avrebbe dovuto succedere al defunto Fantino Dandolo. Poiché l'esito della trattativa fu sfavorevole a Venezia, il G. si fece promotore di una condanna dei due ambasciatori veneziani a Mantova, sul comportamento dei quali aveva ricevuto informazioni segrete da parte di frate Paolo Querini.
Era ormai uno dei più noti e ascoltati senatori, e da allora fu quasi sempre presente nelle massime cariche dello Stato o investito di prestigiose missioni diplomatiche. Avogador di Comun nel 1461, elettore del doge Cristoforo Moro nel maggio 1462, savio del Consiglio per il secondo semestre del 1462, il 31 luglio 1464 era fra i quattro consiglieri che si imbarcarono con il doge verso Ancona onde muovere, con il pontefice e la sua flotta, contro gli Ottomani. La navigazione della squadra veneziana fu tempestosa e Ancona fu toccata solo il 12 agosto; tre giorni dopo, stremato dal caldo e dai disagi del viaggio, Pio II moriva, e il doge Moro non trovava di meglio che tornarsene a Venezia.
Il veneziano Pietro Barbo fu il nuovo papa col nome di Paolo II, e il 5 sett. 1464 il G. fu nominato nell'ambasceria straordinaria costituita da ben dieci senatori che fu effettuata in dicembre; mentre i colleghi rimpatriavano, il G. e Girolamo Barbarigo si fermarono a Roma ancora per qualche tempo.
Negli anni successivi fu sempre presente nella Signoria e nel Collegio, con brevi interruzioni per legazioni di rappresentanza o di limitato respiro: il 29 nov. 1468 fu dei dodici ambasciatori che incontrarono l'imperatore Federico III fuori le mura di Padova; quindi, con Pietro Mocenigo, lo accompagnò a Roma. Il 13 sett. 1470 fu inviato a Milano, formalmente per dirimere il contrasto tra Galeazzo Maria Sforza e Manfredo da Correggio, in realtà per procurare nuovi appoggi alla Repubblica, duramente colpita dalla recente perdita di Negroponte.
Dopo essere stato (13 ag. 1473) degli elettori del doge Nicolò Marcello, l'8 ottobre il G., allora savio del Consiglio, fu eletto capitano generale da Mar; sorprende che il comando della flotta veneta, impegnata in un lungo conflitto col Turco, fosse affidato a un ultraottuagenario, ma ancor più c'è da stupirsi che il G., il quale in età giovanile aveva rifiutato diversi rettorati, stavolta accettasse di buon grado.
Fallito il progetto di un attacco al cuore dell'Impero ottomano a opera delle forze veneto-persiane, il teatro delle operazioni si era spostato in Albania, dove Sulaiman pascià giunse ad assediare Scutari dal 15 luglio al 28 ag. 1474. Il G. lasciò Venezia con sei galee, in maggio, e si portò alle foci della Boiana; qui, coadiuvato dal provveditore Alvise Bembo, combatté nel periodo più caldo dell'anno, tra i miasmi delle paludi. Finalmente, quando ormai Scutari era allo stremo, i Turchi tolsero l'assedio e ripiegarono; l'aiuto del G. si era rivelato decisivo per il valoroso difensore della città, Antonio Loredan.
Questo coraggioso comportamento fu un nobile suggello all'esistenza del G.: colpito da febbri malariche nella fase più dura delle operazioni, era stato portato a Cattaro, dove morì il 25 ag. 1474.
Il suo corpo fu portato a Venezia, e al suo funerale in S. Giorgio Maggiore, cui partecipò il doge, l'orazione funebre fu tenuta dal ventiduenne Ermolao Barbaro.
Nel testamento, redatto nel 1464, il G. appare assai ricco, chiede di essere sepolto nell'arca di famiglia, nella chiesa di S. Giovanni del Tempio (oggi S. Giovanni di Malta), e lascia commissari i figli, ma "per la mazor parte" il nipote Andrea - orfano del figlio Francesco e futuro doge - che, sebbene nel 1464 avesse solo nove anni, era tenuto in grande considerazione dal G., il quale ne avrebbe avuto cura facendolo studiare a Padova.
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