Tres tristes tigres
(Cile 1968, bianco e nero, 105m); regia: Raúl Ruiz; produzione: Enrique Reimann per Capitanes; soggetto: dall'omonimo testo teatrale di Alejandro Sieveking; sceneggiatura: Raúl Ruiz; fotografia: Diego Bonacina; musica: Tomás Lefever.
Un fine settimana d'estate a Santiago del Cile, in un anno non precisato. Tre amici, sottoproletari o piccoloborghesi, comunque marginali all'interno della propria classe, vagabondano per le strade e parlano. Si infilano in negozi, bar e night club, affrontando argomenti svariati (parlano anche di politica, ma soprattutto di questioni minute e fatti triviali), entrando e uscendo da conversazioni altrui. Uno di loro trova il tempo per controllare i traffici della sorella, che lui stesso ha avviato alla prostituzione. Il clima è euforico e piacevolmente balordo, ma cresce di ora in ora una strana tensione sotterranea. "Non un film fatto di nulla, un film fatto del nulla cileno" (Raúl Ruiz).
Primo e più celebre lungometraggio tra quelli realizzati in Cile, suo paese di origine, dal prolifico cineasta che da trent'anni a questa parte viene chiamato Raoul e spesso creduto francese, Tres tristes tigres deve parte della sua fama alla coincidenza del suo titolo con quello di uno dei primi romanzi (uscito quasi contemporaneamente al film) dello scrittore cubano Guillermo Cabrera Infante, cinefilo, ex critico e occasionalmente sceneggiatore. Le due opere hanno in realtà poco a che vedere l'una con l'altra e sarebbe impossibile pensare a un caso di plagio, poiché il titolo comune deriva da un detto tradizionale della lingua spagnola, uno di quegli scioglilingua che mettono alla prova la capacità di pronunciare frasi contenenti suoni complessi e che ammettono molteplici varianti di differente lunghezza e complessità. "Tres tristes tigres tragaban trigo en un trigal" è una di queste possibili varianti, quasi sempre prive di senso e intraducibili, che talora innescano suggestioni prettamente surrealiste.
Nel film di Raúl Ruiz predominano le atmosfere festive, collettive e notturne. E qui finisce ogni sua reale similitudine con il libro di Cabrera Infante, a sua volta imparentato con la farsa di costume. Le due opere, infatti, sono ambientate in epoche differenti e in luoghi tra loro assai lontani come L'Havana e Santiago del Cile. Sono città che certo condividono un'eredità culturale spagnola, una stessa lingua parlata in modi diversi e un repertorio di canzoni e ritmi; anche la costante oscillazione tra toni svariati e mutevoli costituisce in realtà un territorio comune a Cabrera Infante e a Ruiz. Ma si tratta, in un caso e nell'altro, dell'aria di famiglia che accomuna molte opere (musicali, letterarie o cinematografiche) che pur realizzate in epoche e paesi diversi, e con diversi intenti, mantengono la traccia d'un legame culturale non del tutto dimenticato o rinnegato. Saltando bruscamente da uno stato d'animo all'altro, in Tres tristes tigres si incrociano malinconia e delirio, nostalgia ed esaltazione euforica, patetismo e frivolezza, spontaneità e finzione, melodramma (o persino tragedia) e farsa, ironia e desolazione, stravaganza e saggezza, diso-nore e dignità, sotto il vessillo comune della baldoria, dell'amicizia, dell'alcol e della danza. Come in un bolero, insomma. Il grado di naturalezza dei suoi interpreti, i bruschi ma reversibili cambiamenti di tono e le imprevedibili alterazioni ritmiche potrebbero indurre a credere che il film sia un documentario quasi improvvisato, una specie di happening (per citare una forma di rappresentazione all'epoca di moda e oggi dimenticata) filmato con occhio vigile e con una cinepresa agile e instancabile, prendendo le distanze dai concetti estetici di inquadratura e di composizione a favore dell'autenticità e della fluidità. Ma un esame più attento del film non rivela alcun indizio di disattenzione, di indifferenza formale o di rifiuto dell'elaborazione. Al contrario, dietro l'apparente realismo dei vagabondaggi e della festa, degli imprevisti e delle occasioni colte al volo, si intuiscono una mente organizzatrice persino ossessiva nella sua ansia di controllo e una costruzione di situazioni e di immagini così perfetta che a fatica se ne scorgono gli artifici, se ne distinguono le fondamenta e le connessioni. Per quanto possano sembrare spontanei e 'veri', si sarebbe pronti a giurare che dialoghi così brillanti e pieni di grazia, di digressioni e di trovate ingegnose, ben lontani dall'essere frutto dell'arguzia di improvvisati attori non professionisti, siano stati minuziosamente scritti e poi studiati dagli interpreti fino a riuscire a pronunciarli in continuità, come se stessero avvenendo nel momento in cui una cinepresa incalzante s'avvicina a cogliere sui volti e nei gesti degli attori la sottile discrepanza tra ciò che dicono e simulano e ciò che realmente provano.
In questo senso, e nonostante il loro aspetto assai diverso, non c'è poi molta differenza tra gli esercizi formali di complessa drammaturgia del Ruiz esiliato (i film girati in Europa a partire dal 1974) e il suo esordio cileno, solo apparentemente più primitivo; cambiano i mezzi a disposizione e l'esperienza dei collaboratori, ma non l'impulso barocco e coreografico, non la febbre creatriva di Ruiz, capace di fagocitare qualsiasi materiale, compreso il più arido incarico su commissione, e di trasformarlo in un trampolino di lancio per esercizi di prestidigitazione cinematografica. In ogni caso, ciò che predomina è sempre il concetto di gioco, applicato al cinema, alla vita o a entrambe le cose contemporaneamente. Così, per chi riesce a entrarvi, persino i film meno interessanti di Ruiz risultano comunque stimolanti, misteriosi e sommamente divertenti: il gioco cui lo spettatore è chiamato consiste nel perdersi e ritrovarsi tra le tante sfaccettature, i livelli e gli speculari inganni. I film apparentemente più seri e trascendentali si rivelano alla fine i più umoristici, mentre quelli dall'aspetto più giocoso e divertente contengono sempre elementi inquietanti o capaci di produrre una vertigine della percezione: ciò che riflettono, suggeriscono o fuggevolmente insinuano, quasi di nascosto o in maniera dissimulata, è quasi sempre qualcosa di grave o drammatico. Si tratta di effetti che vorremmo definire profondamente buñueliani; ma poiché è davvero difficile riscontrare nel mondo e nel cinema di Raúl Ruiz la traccia di un debito o di un'influenza, sarà più giusto parlare di coincidenze o di affinità culturali e spirituali.
Interpreti e personaggi: Nelson Villagrá (Tito), Jaime Vadell (Rudy), Shenda Román (Amanda), Luis Alarcón (Lucho), Delfina Guzmán (Alicia).
Amig, Tres tristes tigres, in "Variety", January 15, 1969; R. Ruiz, Trabalenguas de tragos y tigres, intervista a cura di F. de Cárdenas, in "Hablemos de cine", n. 52, marzo-abril 1970, poi in "Positif", n. 123, janvier 1971; M. Coad, Grandes acontecimientos y gente corriente, in Raúl Ruiz, a cura di J. García Vázquez, F. Calvo, Alcalá de Henares 1983.