Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Settecento, progressivamente, si viaggia sempre più, irretendo il tempo e imbrigliando lo spazio: si viaggia per pregare, per sfamarsi, per lavorare, per conoscere, per vendere e comprare, in un mutare delle condizioni di trasporto che hanno indotto a parlare di “rivoluzione”. La via dell’acqua, naturale o addomesticata, resta la più usata perché più sicura anche se soggetta sovente alla tirannia dei venti e delle correnti, agli scali frequenti, indispensabili per rifornirsi di cibo e soprattutto di acqua, e al piccolo cabotaggio. Una nuova concezione dello Stato, impegnato a perseguire idee di ordine ed efficienza, determina una nuova spinta alla costruzione delle strade, che modifica i tempi e le modalità degli spostamenti non solo militari ma anche civili.
Imbrigliare lo spazio: canalizzare e navigare
A uno sguardo d’insieme, agli inizi del Settecento la gestione e l’uso degli spazi non sono poi molto dissimili da quelli di epoca romana: la geografia costringe ancora e vincola, l’autorità non protegge abbastanza, tecnica e uso dei materiali ancora annaspano. Viaggiare e trasportare significa sottoporsi ancora a pericoli su defatiganti itinerari: come nel Medioevo, spesso è necessario redigere il testamento prima di partire e la via più tranquilla e meno costosa, seppur più lenta, resta l’acqua. Lo spazio terrestre stenta – in mancanza di un’adeguata tecnologia, di risorse finanziarie soddisfacenti e di una progettualità diffusa – a farsi imbrigliare e costringe a preferire i corsi naturali: e se Venezia deve parte della sua fortuna al trovarsi in una protetta confluenza di acque, è la lezione olandese quella che, nel XVIII secolo, si diffonde: accanto al sistema fluviale naturale, infatti, il confluire di interessi pubblici e privati genera canali artificiali, e l’Europa e le colonie beneficiano della sapienza nella gestione delle acque.
Certo, non si è ancora – né l’orografia lo permetterebbe – ai livelli della Cina, dove secondo un testimone verso il 1733 “dappertutto si scorge un perpetuo movimenti di battelli, di barche, di zattere (si vedono zattere lunghe una mezza lega, che si ripiegano ingegnosamente per seguire le curve dei fiumi), formando in ogni luogo tante città mobili. I conduttori di queste barche vi hanno perpetuo domicilio, recando seco le loro mogli e i loro figli, così che possiamo perfettamente persuaderci […] che c’è quasi altrettanta gente sull’acqua quanta nelle città e nelle campagne”. In occidente i vincoli paesaggistici, così come le attribuzioni e le appartenenze, non lo permettono quasi in nessun luogo: tuttavia è indubitabile che, nel corso del secolo, un ampliamento della rete dei trasporti avviene soprattutto grazie a un uso più estensivo di fiumi e canali allargando notevolmente l’area di circolazione delle merci: proprio Amsterdam, nel 1765, vanta non meno di 800 vascelli in partenza ogni settimana dalla città verso 180 diverse località. Si sviluppa allora la tecnica di trasporto su chiatta, spesso con traino animale dagli argini, che consente il trasporto di beni relativamente pesanti e voluminosi.
Alla fine del secolo, grazie anche a nuove tecniche che consentono di superare meglio i dislivelli, la rete complessiva raggiunge i 3200 chilometri. D’altra parte, la costruzione dei canali risponde più delle strade alle nuove esigenze dello sviluppo economico: in Inghilterra il canale del duca di Bridgewater (1761) consente di collegare le miniere del Worsley alla città diManchester, nei Paesi Bassi canali come quello tra Gand e Bruges o tra Bruges e Ostenda realizzano un importante asse di commercio che rompe il monopolio olandese, basato sul controllo del fiume Schelda, mentre nell’America del Nord la colonizzazione del New England riceve un grande impulso dalla costruzione dei canali lungo i fiumi Hudson, Eire e Mississippi.
La capillarità propagata grazie alle nuove esigenze di mercati più ampi e dinamici permette altresì di irretire lo spazio percorrendo meglio le consuete vie fluviali che attraversano i singoli Stati o intersecano reti animate di comunicazione e traffici che ne travalicano i confini politici: ne deriva, in primo luogo, un significativo risparmio economico evidente nel caso della fluivitazione, laddove i corsi d’acqua brevi e ripidi ma anche, in taluni casi, come il fiume Reno, consentono il naturale trascinamento a valle di merci non deperibili quali il legname; anche il trasferimento di merci come il grano consente un notevole risparmio: nel 1761 scrive Vauban “un’imbarcazione di grandezza ragionevole, su una buona via d’acqua, può da sola, con sei uomini e quattro cavalli trasportare un carico che 200 uomini e 400 cavalli farebbero molta fatica a trasportare su strade normali”.
Certo, i fiumi come i canali ghiacciano in inverno e si disseccano sovente in estate e la stessa portata non consente di attrezzarsi con mezzi di navigazione validi per ogni periodo dell’anno: tuttavia, la navigazione addomesticata non si proroga nel tempo come quella del mare, né è pericolosa e costosa come quella terrestre: e anche i dazi, che ritmano il percorso di uomini e merci che li percorrono, ne conseguono. I fiumi, naturali o addomesticati, sono sovente una risorsa anche materiale e simbolica non solo per chi li attraversa ma anche per chi li gestisce.
Se è possibile, dunque, riscontrare un consistente aumento dei trasporti in acqua dolce, non altrettanto può dirsi per quelli marittimi soggetti – come sempre – alla tirannia dei venti e delle correnti, agli scali frequenti indispensabili per rifornirsi di cibo e soprattutto di acqua e al piccolo cabotaggio; né giovano le innovazioni tecnologiche, peraltro quasi inesistenti: le rotte restano, da Colombo e fino all’Ottocento, immutate nella loro lenta immutabilità; gli scali, se possibile inalterati; i limiti del tonnellaggio, fermi quasi sempre ad uno scafo di non più di 200 tonnellate. Dopo l’era delle scoperte –il vascello tondo armato di cannoni, con vele capaci di rimontare il vento, e con strumenti di navigazione evoluti – il mare resta soggetto al vento, riflettendone l’instabilità: di conseguenza, i costi di navigazione rimangono inalterati come l’effetto di incertezza e insicurezza.
Imbrigliare lo spazio: percorrere le strade
Ma se la creazione e l’uso dei canali sono un fattore essenziale nel trasporto delle merci, specie se pesanti, fino all’avvento delle ferrovie, la vera novità – e l’effettivo investimento – sono le strade: alla fine del Seicento, infatti, avventurarsi per lunghi viaggi via terra significa affrontare senza riparo condizioni meteorologiche avverse e dover attraversare zone paludose e fiumi sprovvisti di ponti, rischiando spesso di incontrare i briganti. La rete stradale, del resto, segue ancora il tracciato delle antiche strade romane e il problema dell’attrito domina ancora questo tipo di trasporto delle merci, rendendolo intrinsecamente più costoso di quello via acqua. Le strade lastricate, poi, sono l’eccezione. La normalità sono i sentieri bui, dove a stento possono passare due cavalli e mai due carrozze contemporaneamente: resta la portantina, per chi viaggia e, per le merci, il dorso di mulo, d’asino o persino di bue, o la schiena. In tutti i casi, la paura e il disagio, e una misurazione, da una posta all’altra, indicatore di lentezza: 100 chilometri in 24 ore sono un’assoluta eccezionalità.
Ma, nel corso del secolo, in tutta Europa si avverte una spinta statale alla costruzione di strade che non risponde solo alle tradizionali esigenze militari, ma si inquadra in una nuova concezione dello Stato, e del suo ruolo e delle sue potenzialità, regolata dalle idee di ordine ed efficienza. In Russia, per unire Mosca a San Pietroburgo, si realizzano 450 miglia di strade, mentre l’imperatore Carlo VI d’Asburgo, per fronteggiare l’espansione della potenza austriaca nel Mediterraneo, inizia a realizzare la Trieste-Vienna e la Karlstadt-Fiume. Anche il duca di Savoia Carlo Emanuele III fa migliorare la strada del Moncenisio e la Susa-Chambéry. Già a metà Settecento una rete stradale collega le principali città dell’Europa occidentale e centrale.
Il segno più visibile di questo impegno statale è la costruzione di una rete di grandi strade carrozzabili, dove possano viaggiare le diligenze – grandi e robuste carrozze trainate da quattro o sei cavalli e dotate di ruote cerchiate in ferro e da poco fornite di vetri – che, oltre alla corrispondenza ordinaria, trasportano persone e piccole quantità di merci. Accanto alle stazioni di posta nascono allora le locande, luoghi dove i passeggeri possono rifocillarsi e dormire, e compaiono anche le guide che ne illustrano le qualità. La diffusione di una rete di strade carrozzabili acquista una notevole importanza anche per il trasporto terrestre delle merci, affidato tradizionalmente alle carovane di muli, e gradualmente si passa dal carico a soma a quello su carri, mentre il trasporto terrestre diventa sempre più concorrenziale rispetto a quello marittimo. A partire dal 1755 l’Austria si dota di una rete stradale interamente carrozzabile; ma è in Francia che avvengono i progressi più spettacolari: nel 1747 Jean Ferronet, un ingegnere svizzero legato agli ambienti riformatori e fisiocratici, fonda l’École des Ponts et Chaussées: da questa scuola escono i tecnici che procedono al riammodernamento e alla costruzione del sistema viario francese, modificando nel contempo l’idea stessa, la natura e il significato del mestiere di “ingegnere”; dal 1776 le strade esistenti vengono classificate per ordine d’importanza e il ministro Turgot adotta, inoltre, un provvedimento che prevede la gestione statale del servizio di manutenzione, tradizionalmente affidato ai proprietari dei terreni che sfruttano le corvées contadine: ne scaturiscono polemiche e ribellioni che portano al ritiro del provvedimento, che viene però ripresentato nel 1787. Una riclassificazione del sistema stradale francese si ha poi su ordine di Napoleone: la Francia a quell’epoca dispone di 25 mila miglia di strade. E se nel 1765 servivano sette giorni per arrivare a Lione da Marsiglia, appena quindici anni dopo ne bastano tre.
Uno degli aspetti più significativi della tendenza alla costruzione di nuove strade – e che ha fatto parlare di un’autentica “rivoluzione dei trasporti” – è che queste non seguono più l’antico tracciato romano, ma rispondono alle nuove esigenze dello Stato e dei commerci. Un esempio significativo è dato dai valichi alpini che, all’inizio del secolo, sono poco più che sentieri disposti lungo le strade romane: nel corso del secolo, invece, viene migliorato il valico del Moncenisio, si inizia la strada del Sempione – i cui lavori durano molti decenni – tra Buja e Domodossola, si costruisce la strada dell’Alberg e quella del Monginevro.
La nuova attenzione alle strade comporta una maggiore cura nella manutenzione, nella progettazione e nella costruzione di ponti, ma anche maggiori interventi per garantire la sicurezza dei viaggiatori. Oltre a ciò si verificano anche importanti cambiamenti nella tecnica di costruzione: si studiano e si realizzano inediti sistemi di pavimentazione, in modo che il fondo stradale sostenga il peso dei carri; si interviene poi con nuovi metodi di drenaggio, per favorire il deflusso delle acque piovane ed evitare la formazione di acqua stagnante: l’obiettivo è quello di poter viaggiare in ogni periodo dell’anno e in qualsiasi condizione meteorologica.
In Inghilterra si diffonde un particolare sistema di costruzione e manutenzione delle strade: ai privati proprietari di terreni è concesso, in cambio della costruzione o della manutenzione delle strade, l’esazione di pedaggi su merci e persone in transito. Nella seconda metà del Settecento questo espediente, e la facilità con cui si autorizzano i consorzi per la costruzione di strade, provoca una vera e propria corsa all’investimento di capitali nel settore; ma se questo determina un contributo fondamentale all’integrazione del mercato nazionale negli anni decisivi della rivoluzione industriale, il sistema stradale risulta, invece, eccessivamente frammentato e costoso.
Irretire il tempo: le informazioni e gli uomini
Ma non viaggiano solo le merci o gli uomini che le trasportano: anche se per il contadino trasportare sovente è un secondo mestiere, e spesso i tempi sono legati dunque a quelli dei campi, e il numero degli ambulanti – nel migliorare delle carrozzabili – si intensifica vendendo almanacchi, strumenti in ferro e sovente tessuti e spezie, nel corso del Settecento cambia anche il senso, il ruolo e la misura delle informazioni. Se da sempre, infatti, le notizie sono una merce, e si mercanteggia sia l’informare che l’essere informati, il servizio dei corrieri postali a cavallo, gestito tradizionalmente da poche imprese private, si diffonde e viene organizzato direttamente dagli Stati. A partire dal 1723 la famosa famiglia bergamasca dei Tasso (o Taxis) perde il monopolio del servizio postale nei territori dell’Impero asburgico e, a fianco del servizio di corrieri genovese, si afferma quello francese, mentre nasce il servizio di corrieri sabaudo. La crescita degli apparati dello Stato, infatti, necessita di un sempre più costante flusso di informazioni tra le capitali e le province, tra la corte e le burocrazie periferiche.
Inoltre l’affermazione di un sistema regolare di posta e la sua estensione a gran parte d’Europa consente di misurare in modo diverso lo spazio. L’intervallo tra una stazione di posta e l’altra – detto “una posta” –, da cui i documenti ripartono con un sistema di staffetta, diventa un modo di concepire e misurare lo spazio: le due settimane necessarie a un corriere per percorrere il tratto Parigi-Madrid, a una velocità oscillante tra i cinque e i dieci chilometri orari, vengono così suddivise in tante “poste”. Intanto, gli Stati e i privati affaristi come i pubblici amministratori cercano di ridurre i tempi di percorrenza delle notizie, merce importante e necessaria per prendere le opportune decisioni: la velocità di trasferimento delle informazioni diventa importante quanto le informazioni stesse. Si viaggia dunque sempre più, irretendo il tempo e imbrigliando lo spazio. Si viaggia anche per conoscere: il Settecento è, infatti, l’affacciarsi del Grand Tour, e la letteratura odeporica che ne deriva, e ce lo restituisce, aggancia nella letteratura come nelle arti figurative un farsi nuovo dell’uomo e della vita, le esigenze della curiosità e del sapere che fanno aggio su quelle dell’utile e del bisogno immediati e cogenti, dettando – nella conoscenza, taumaturgicamente – l’alfabeto della “pubblica felicità”.