Trasporti e ambiente: falsi miti da sfatare
I gas serra prodotti su scala planetaria dal settore trasporti rappresentano una frazione modesta rispetto ai volumi di inquinanti emessi dall’industria o dall’agricoltura. La conclusione paradossale è che i trasporti non sono un settore prioritario su cui intervenire per limitare le cause del riscaldamento climatico.
I trasporti hanno un ruolo limitato nel generare costi ambientali (detti esternalità), in particolare relativamente all’inquinamento che genera i cambiamenti climatici (il CO2, che tuttavia è considerato un buon indice approssimato anche per altri inquinanti). Secondo l’Intergovernmental panel on climate change (IPCC) delle Nazioni Unite, i trasporti generano circa il 14% delle emissioni totali e costituiscono quindi un settore con un peso minoritario, pur se in Europa il valore è superiore (circa il 25%) e a livello mondiale è comunque in crescita, soprattutto nei paesi in via di sviluppo a causa della motorizzazione individuale.
L’impatto ambientale più significativo lo detiene il trasporto stradale, ma hanno un peso non trascurabile anche i trasporti aerei e quelli marittimi, mentre i trasporti collettivi (ferrovie e autobus) presentano impatti nettamente inferiori. Più in particolare, però, i trasporti stradali generano anche altri impatti negativi alla collettività, quali danni alla salute, incidenti, congestione e rumore.
Contrariamente a quanto si crede, l’Europa in termini di emissioni risulta molto virtuosa rispetto al resto del mondo sviluppato, e questo è vero in particolare per l’Italia, dove la qualità dell’aria nelle città è straordinariamente migliorata nell’ultimo ventennio. Il principio ispiratore delle strategie ambientali dovrebbe essere quello della minimizzazione dei costi – privati e pubblici – per unità di abbattimento degli impatti: se così non fosse, infatti, a parità di risorse consumate se ne abbatterebbero di meno. Da questo principio discende che i trasporti non sono un settore prioritario su cui intervenire: piuttosto, dovremmo smettere di sussidiare (invece che di tassare) un settore molto inquinante come l’agricoltura, e in secondo luogo dovremmo tassare i combustibili fossili che generano esternalità in modo omogeneo per tutti i settori.
Eppure, oggi l’imposizione sui combustibili fossili per i trasporti è molto più elevata che in altri settori, come l’industria o il riscaldamento domestico. Posto un obiettivo di abbattimento, una tassa indifferenziata sugli inquinanti lo conseguirebbe con meno costi sociali (gli abbattimenti avverrebbero di più nei settori dove il costo di abbattimento è minore). Comunque stiano le cose, per quanto riguarda i trasporti 3 sono le strategie ambientali applicabili: cambio modale, standard, tassazione dei carburanti.
La prima è costosissima per le casse pubbliche, è di scarsa efficacia ma è politicamente dominante: sussidiare i modi di trasporto meno inquinanti, cioè ferrovie e trasporti pubblici in generale. Dopo 40 anni di tale politica, e costi di miliardi di euro, i risultati sono modesti: il modo stradale, pur ipertassato, rimane dominante (con il 90% dei traffici serviti), e questo non solo in Italia.
C’è una spiegazione tecnica per questa inefficacia – la maggiore utilità dei trasporti su strada – ma anche una ‘malevola’, vale a dire il fatto che i settori sussidiati sono costituiti da aziende pubbliche monopolistiche, grandi bacini di consenso elettorale (si veda anche la politica europea in questa direzione, con i ‘corridoi ferroviari’, l’inutile TAV, ecc., una lobby influentissima a Bruxelles).
La seconda politica è più equa ed efficace, è di origine europea e fissa standard ambientali per la produzione dei veicoli stradali (Euro 1, 2, 3, ecc.). Un veicolo moderno inquina solo una frazione rispetto a uno di 20 anni fa, e i risultati sono visibili nella qualità dell’aria urbana. Inoltre è equa, nel senso che i veicoli a minore impatto a parità di prestazioni costano molto di più, e quindi risponde al principio ambientale noto come polluter pays («chi inquina paga»). Infine è gradito all’industria automobilistica perché accelera il rinnovo del parco veicolare.
La terza politica, quella più efficiente (la ‘tassazione delle esternalità’), è già in atto.
Vediamone alcuni aspetti. La tassazione delle esternalità ha 2 vantaggi: anch’essa fa pagare chi inquina (per equità) ma non interferisce con le scelte tecnologiche – come gli standard visti sopra – ed è più efficiente, essendo più flessibile rispetto alle scelte individuali o aziendali (‘massimizzazione del surplus sociale’, in gergo economico).
Accise sul prezzo della benzina Distribuzione dei gas serra
Ora, nelle politiche fiscali per i trasporti l’Europa è già virtuosa: una ricerca mondiale del Fondo monetario internazionale (FMI) ha determinato che le tasse sui carburanti in Europa (al contrario per esempio che negli Stati Uniti e in altri paesi) sono più elevate dei costi ambientali che il trasporto stradale genera: il principio polluter pays, cioè, è addirittura superato. Se poi le tasse sulle esternalità fossero rese universali, emergerebbe da subito che gli abbattimenti maggiori avverrebbero in settori diversi dal trasporto, come accennato, perché costerebbe meno abbattere altrove (industria, riscaldamento domestico, agricoltura, ecc.): in questo modo gli obiettivi ambientali sarebbero conseguiti, minimizzando anche ‘automaticamente’ i costi totali di abbattimento. L’Italia emerge poi come super virtuosa, avendo una tassazione tra le più elevate in Europa (si ricorda che del prezzo alla pompa dei carburanti i due terzi sono tasse).
La ricerca FMI definisce valori medi, ma in realtà i costi ambientali legati alle emissioni sono indifferenziati solo per quanto riguarda CO2: un litro di benzina bruciato emette la stessa quantità di CO2 ovunque. Per gli altri inquinanti, quelli che nuocciono alla salute umana, o per il rumore, o la congestione, o gli incidenti, i danni sono molto diversi in città o fuori. Le aree densamente abitate (urbane e suburbane) infatti non solo espongono molte più persone alle emissioni ma ne rallentano anche la dispersione (‘effetto canyon’) e presentano in genere maggiore congestione di traffico.
Nelle tratte stradali extraurbane, questi impatti sono molto minori. Le tasse sui carburanti sono, in linea teorica, eccessive per la mobilità stradale extraurbana, ma insufficienti per quella urbana. Cosa fare, dunque? Le indicazioni sembrano abbastanza ovvie, rimanendo in uno scenario di politiche possibili. Innanzitutto occorre modulare queste politiche in funzione della densità abitativa.
Per farlo, la strategia più ovvia (e in maggior favore a livello mondiale) è quella di fare azioni contro la congestione, che è anche un fattore rilevantissimo di aumento delle emissioni, oltre che di costi del tempo perduto (un traffico ‘a singhiozzo’ inquina 3 volte di più di un traffico fluido).
La soluzione è la tassa di congestione (o road pricing), inaugurata con successo prima a Singapore, poi in Svezia, poi a Londra e adesso a Milano. Questa strategia promuove ‘fisiologicamente’ un maggior uso dei mezzi pubblici (il cambio modale di cui si è detto), e questo anche se i mezzi pubblici avessero tariffe non così economiche quali abbiamo oggi in Italia (le più basse d’Europa).
La definizione di standard per le emissioni dei veicoli, pur non ottimale dal punto di vista teorico, è da continuare, dati i buoni risultati ottenuti anche dal punto di vista dell’innovazione tecnologica.
Quando possibile, è anche sensato migliorare la viabilità urbana e metropolitana. Però le soluzioni basate su linee metropolitane nuove sono possibili solo in aree dense che le giustifichino, e comunque rimangono rovinose per le casse pubbliche, e lo stesso vale per radicali aumenti di servizi pubblici di superficie.
Per gli spostamenti extraurbani, va migliorata la rete stradale dove maggiori sono i traffici, cioè quella regionale (con il 75% degli spostamenti), dei quali pochi sono servibili dalla ferrovia, e dove per il traffico merci la ferrovia non può comunque competere.
Per le lunghe distanze, che generano esternalità modeste, appare assurdo dedicare enormi investimenti a totale carico dell’erario al modo ferroviario, poiché in realtà si tratta di un cambiamento modale illusorio: a riprova dell’inefficacia di tale politica, infatti, il traffico merci ferroviario è crollato in Europa proprio nei due paesi che più hanno sussidiato le ferrovie, la Francia e l’Italia.
Anche perché alla fine, come abbiamo cercato di dimostrare, i problemi ambientali sono altrove.
Milano: chi inquina paga
Per rispettare la volontà espressa dai cittadini milanesi con un referendum del 2011 approvato da circa l’80% dei votanti, la giunta Pisapia ha messo a punto un piano di interventi per potenziare la mobilità pulita, alternativa all’auto. Piatto forte degli interventi, una nuova ZTL del centro storico, la cosiddetta Area C, con un sistema di accesso a pagamento. L’obiettivo è stato quello di dimezzare il traffico e le emissioni inquinanti, ma anche quello di salvaguardare il diritto alla mobilità individuale, nel rispetto dell’interesse comune. L’Area C corrisponde alla ZTL Cerchia dei Bastioni ed è delimitata da 43 varchi elettronici muniti di telecamera, di cui 7 accessi per il trasporto pubblico. Le telecamere rilevano il passaggio del veicolo in ingresso e trasmettono il dato a un computer in grado di riconoscere il mezzo di trasporto, la sua tipologia di utilizzo (residenti, veicoli di servizio, accesso libero), nonché il valore del ticket applicato e la disponibilità del credito, a partire dalla data di attivazione del titolo di accesso. Per il permesso di entrata giornaliero, Il ticket va dai 2 euro per i residenti ai 5 euro per tutti gli altri.
Volkswagen: quanto costa il dieselgate
Barare costa caro per chi inquina. Lo ha sperimentato la Volkswagen rea di aver installato su 11 milioni di auto in tutto il mondo un software concepito per manipolare i dati durante i test sulle emissioni, facendo sembrare più ecologici motori diesel che in realtà non lo erano affatto.
Lo scandalo è partito dagli USA in seguito a uno studio commissionato da un ente (l’International council on clean transportation) specializzato in ambiente e trasporti. Grande è stato lo scalpore quando un team di scienziati della West Virginia University per la prima volta ha trovato delle discrepanze tra i valori degli ossidi di azoto emessi e quelli dichiarati, nei motori diesel, gli Euro 5 2.0 TDI, prodotti dal colosso automobilistico tedesco. La questione è passata nelle mani dell’EPA (l’Agenzia federale statunitense per la protezione ambientale) che ha ripetuto i test e chiedendo spiegazioni ufficiali alla Volkswagen. Messa alle strette, per risolvere il problema la casa automobilistica di Wolfsburg ha ordinato, nel mese di dicembre 2014, un richiamo su tutti i mezzi diesel venduti dal 2009. A questo punto negli USA è partita una class action che è andata a buon fine per i proprietari degli autoveicoli truccati: la Volkswagen è adesso pronta a riacquistare le auto taroccate o a eseguire le riparazioni per renderle conformi agli standard.
Negli USA il piano economico per far fronte a questi impegni avrà un costo totale di quasi 15 miliardi di dollari, la cifra più consistente mai registrata negli Stati Uniti per una class action.
La parola
GHG = gas serra
In meteorologia, gas serra, la parte della bassa e media atmosfera terrestre con una notevole presenza di anidride carbonica, metano e ossidi di azoto, caratterizzata dalla proprietà di assorbire e trattenere in grande misura il calore e quindi di dar luogo a un aumento della temperatura sulla superficie terrestre.