TRASMISSIONE DELLE ICONOGRAFIE (v. vol. iv, p. 84, s.v. Iconografia)
Egitto e Vicino Oriente. - L'iconografia, prescindendo dalla definizione di E. Panofsky, viene qui intesa come analisi di tutto ciò che concerne il significato delle immagini: la loro ermeneutica. Sulla base di questa definizione, le immagini appaiono come elementi del vissuto, della realtà politica, sociale e culturale delle società che in esse si riflettono. E come tali esse esprimono messaggi differenti o quanto meno valorizzati in maniera diversa secondo l'epoca, l'area, il modo e il mezzo di espressione. La storia dei motivi e della loro trasmissione si lega, oltre che al contesto storico, a quella dei «generi» nei quali la produzione artistica si esprime.
L'articolazione per «generi», che ha una sua realtà concreta, nel caso specifico dell'antico Oriente è tale da richiedere che le categorie vengano tenute in conto nella considerazione delle espressioni artistiche. La tipologia, infatti, indica le condizioni entro le quali il processo creativo opera, le tradizioni ambientali che incontra e il modo nel quale con queste si confronta; i fattori economici, politici e religiosi dai quali l'artista non può prescindere.
La stessa specializzazione artigianale e le funzioni politico-religiose della produzione, che attestano il primo rapporto permanente tra committente e «produttore dell'arte», favoriscono l'emergere di tendenze che portano alla costruzione di patrimoni di conoscenze e di esperienze. La mancanza della coscienza dell'individualità dell'arte e della sua autonomia è alla base dell'aderenza alla tradizione, che sembra caratterizzare il Vicino Oriente, contrapposto alla Grecia. Tradizione che è intesa come modello di riferimento, complesso di scelte tematiche, tecniche e talora stilistiche, di moduli iconografici, ai quali gli artisti erano tenuti a conformarsi per motivazioni legate alle funzioni della stessa arte e delle sue finalità, derivanti dalla originaria tipica natura palaziale-templare e quindi religioso-votiva. E ancora nelle «interconnessioni» che caratterizzano l'arte del Vicino Oriente, l'impronta formativa delle c.d. civiltà superiori si conserva appunto nell'eredità di un patrimonio figurativo di tradizione millenaria, che viene trasmesso diacronicamente, sia pure mediato, anche in Occidente.
È evidente che la canonizzazione del modello originario, legato al potere politico assolutistico che lo ha espresso, viene meno nel corso dell'irradiazione; il motivo iconografico subisce inevitabilmente innovazioni, alterazioni, evoluzioni legate anche alla sua utilizzazione nei diversi generi artistici, dai maggiori (rilievo in senso lato) ai minori (glittica, oreficeria, ecc.), che ne sfumano o ne alterano, fino eventualmente a vanificarlo, l'originario significato storico o simbolico-religioso a favore di una valenza più decorativo-ornamentale.
Considerate l'enorme ampiezza della documentazione in senso areale e cronologico nonché la mancanza di omogeneità delle testimonianze, è inevitabile limitarsi a qualche esemplificazione del discorso fin qui condotto. Si prenda uno schema tipico come quello del faraone che afferra per i capelli il nemico vinto e lo abbatte. Le numerose ripetizioni del soggetto fin dagli inizî della storia (la «paletta» di Narmer e i rilievi rupestri lasciati dai primi faraoni nella penisola del Sinai) rivelano in Egitto l'indubbio intento propagandistico della figurazione; anche l'immagine del vincitore che prende come un mazzo i nemici è un ulteriore esempio del medesimo schema, nato in Egitto per il desiderio di esaltare le conquiste effettuate, e poi trasmesso con realizzazioni diverse in tutto l'Oriente antico. A questo stesso prototipo egiziano, attraverso il repertorio iconografico del Nuovo Regno, risale il modello che appare riprodotto sulle coppe fenicie del VII sec. a.C.: l'immagine, per quanto preminente, ha carattere allusivo e simbolico che trasfigura l'originaria realtà storica dell'iconografia, anche se forse non è da escludere un'intenzionale ripresa del motivo in funzione politica, in concomitanza con le direttive della dinastia saitica.
La scena, frequente nell'arte mesopotamica, dell'eroe che abbatte un mostro, emblema delle forze distruttrici della natura, ha una realtà simbolico-religiosa, al pari del motivo del giovane in lotta con il grifone, che tanta parte ha nella documentazione mediterranea di ambito egeo-cipriota e fenicio. Indipendentemente dal fatto che alla base della raffigurazione vi siano una o più narrazioni mitologiche, che l'eroe sia Gilgameš, o il Daniele della Leggenda di Aqhat o l'egiziano Inaro o ancora il «Royal Hero», è evidente che il motivo, pur con le diversità iconografiche legate alla stratificazione o alle varianti delle tradizioni locali ovvero alle attestazioni su diversi media artigianali (avorî, gioielli, glittica, toreutica, ecc.), conserva una sua costante e precipua valenza simbolica, che esula dalla definizione temporale e che comunque può essere applicata anche a casi specifici e a ispirazioni concrete con uguale valore semantico. In tal senso può essere esemplificativa la lettura dell'iconografia quale Eracle in lotta con il leone nemeo, che appare sia nelle coppe fenicie sia nella glittica di epoca punica accanto alla forma più aderente ai moduli originali.
Altrettanto significativa è l'iconografia della sfinge. La sua immagine in Egitto simboleggia la potenza e la saggezza riunite nella persona del faraone, del quale quasi sempre la sfinge è la rappresentazione. In virtù del suo stretto legame con la simbologia regale, nell'area asiatica la sua figura viene presto adottata e adattata in versione anche femminile da diversi generi artistici, che vanno dal rilievo alla scultura sia in pietra sia in avorio.
In ambiente fenicio la sfinge è presente in diverse categorie artigianali (avorî, gioielli, glittica), ove conserva molti degli attributi originali egiziani (doppia corona, barba, ecc.) che ne rivelano la lettura in chiave regale, come sembra suggerire anche il passo di Ezechiele (28, 11-14), nel quale il profeta utilizza la sfinge quale simbolo della potenza del re di Tiro.
Ed è principalmente attraverso i «generi» dell'avorio di scuola fenicia e delle coppe, ai quali è affidato il patrimonio culturale «classico» proprio dei Fenici, che l'iconografia egiziana, assieme a motivi assiri ed egei, viene inizialmente trasmessa nell'Occidente, ove passa come eredità comune dell'Oriente antico. Le tematiche di remota origine orientale si diffondono quindi nel mondo occidentale attraverso il fenomeno dell'irradiazione sia diretta sia mediata e in conformità alle esigenze della committenza e alle richieste di un mercato molto differenziato e totalmente estraneo alle realtà culturali che le hanno originariamente create ed espresse.
Bibl.: M. Th. Barrelet, Les déesses armées et ailées, in Syria, XXXII, 1955, pp. 222-259; E. Panofsky, Il significato nelle arti visive, Torino 1962; P. Matthiae, Il motivo della vacca che allatta nell'iconografia del Vicino Oriente antico, in RivStOr, XXXVII, 1962, pp. 1-31; R. L. Scranton, Aestetic Aspects of Ancient Art, Chicago-Londra 1964; A. M. Bisi, Il grifone. Stona di un motivo iconografico nell'Antico Oriente mediterraneo (Studi semitici, 13), Roma 1965; W. Stevenson Smith, Interconnections in the Ancient Near East, New Haven-Londra 1965; S. Moscati, Apparenza e realtà. Arte figurativa nell'Antico Oriente, Milano 1976; E. Acquaro, Arte e cultura punica in Sardegna, Sassari 1984, pp. 94-103; G. Markoe, Phoenician Bronze and Silver Bowls from Cyprus and the Mediterranean, Berkeley-Los Angeles 1986; D. Ciafaloni, Eburnea Syrophoenicia (Studia Punica, 9), Roma 1992; C. Doumet, Un motif «sumérien» sur un cachet phénicien: archaïsme ou modernité, in Akkadica, 81, 1992, pp. 29-36; G. Pisano, Una sfinge in osso da Cadice, in RStFen, XXI, 1993, Suppl., pp. 63-73; D. Ciafaloni, Iconographie et iconologie, in AA.W., La civilisation phénicienne et punique. Manuel de recherche, Leida-New York-Colonia 1995, pp. 535-539.
(G. Pisano)
Grecia e Mondo romano. - Il problema della t. i. non può andare disgiunto da quello delle modalità di formazione e diffusione di una cultura figurativa: in questo i due termini della questione appaiono strettamente interrelati. Per cultura figurativa si intende un «sistema» di immagini realizzate in base alle esigenze di una committenza - in un primo tempo esclusivamente religiosa e politica, successivamente anche privata - che suggerisce tematiche epico-mitiche ovvero storico-politico-sociali (Hölscher, 1987).
Una cultura figurativa si forma per creazione (intendendo con tale termine l'«invenzione» e la realizzazione di un'opera specifica che costituisca l'inizio di una serie), standardizzazione (vale a dire ripetizione seriale di un modello) e trasmissione del modello stesso, che viene scelto non tanto per il suo valore storico-artistico quanto piuttosto per la sua comprensibilità e funzionalità (Settis, 1989; Bejor, De Maria, Frugoni, Ghedini, 1993). Opere di grande respiro sono rimaste confinate nell'ambito di una ristretta cerchia di fruitori e non sono state né copiate né imitate, mentre creazioni artigianali si sono imposte e hanno trovato diffusione sia all'interno di una determinata koinè culturale sia al suo esterno.
Il problema della t. i. deve dunque essere indagato non tanto frammentandolo in ambiti culturali diversi (cultura greca, etrusco-italica, romana), quanto esaminando i presupposti e le modalità secondo cui tale fenomeno si è realizzato; il che ci porta a distinguere in primo luogo fra produzione a tutto tondo e produzione bidimensionale, ovverosia fra composizione semplice (una o al massimo due iconografie) e complessa (più iconografie inserite in un contesto narrativo).
La t. i. nell'ambito della produzione a tutto tondo di grandi dimensioni avveniva sostanzialmente attraverso il sistema della copia da un modello (calco in gesso, copia ai punti, ecc.: v. copie e copisti), mentre nel caso di prodotti di piccole dimensioni (terrecotte e bronzi) poteva realizzarsi attraverso l'utilizzo della medesima matrice, eventualmente riprodotta ed esportata, oppure attraverso la riproduzione a occhio o addirittura a memoria di modelli consolidati.
La larga circolazione dei manufatti di piccole dimensioni, spesso ispirati alle creazioni statuarie dei grandi maestri greci, contribuì grandemente alla diffusione del patrimonio figurativo che in tal modo veniva acquisito da strati sempre più larghi di possibili committenti.
Attraverso tale diffusione capillare, a cui si deve aggiungere l'ampia circolazione delle copie delle sculture più rinomate e dei calchi in gesso delle stesse (Landwehr, 1985; De Maria, 1993, p. 229; Barone, 1994), si giunse alla formazione di un patrimonio figurativo ampiamente condiviso dalla committenza.
Una bottega di scultori poteva dunque proporre al cliente un campionario di statue o statuette oppure di bozzetti, ma anche creare su commissione del cliente un'opera nuova che ricalcava, o meno, schemi o modelli largamente noti. Ne consegue che, se il proprietario di una villa desiderava esporre nel suo giardino la ninfa con conchiglia, non era necessario che si utilizzasse un calco o una riproduzione in scala del modello originario, in quanto esso apparteneva al patrimonio figurativo sia del committente sia dell'artigiano. La nuova creazione poteva dunque essere riprodotta a memoria e ciò rende ragione delle varianti spesso assai significative che interessano modelli consolidati e che riguardavano eventualmente ponderazione, attributi, acconciatura e altro.
Il problema risulta ben più complesso quando si passi dalla produzione a tutto tondo a quella bidimensionale, in quanto questa è per lo più caratterizzata da composizioni articolate, in cui si trovano ad agire diversi personaggi spesso inseriti in un contesto preciso e caratterizzante.
E proprio sulla produzione a carattere narrativo (e in particolare sui mosaici) si è fissata l'attenzione degli studiosi e si è aperta una querelle che vede contrapposti i sostenitori di una trasmissione che potremmo definire «spontanea», in cui le analogie compositive vengono giustificate sulla base di una cultura figurativa comune diffusa grazie alla mobilità di oggetti e persone (artigiani, committenti; Bruneau, 1984), e quelli che sostengono invece l'ipotesi di una trasmissione «intenzionale», basata cioè sulla riproduzione volontaria e possibilmente puntuale di un modello specifico, il quale può essere copiato direttamente dall'archetipo oppure tramite un intermediario tecnico (v. infra) realizzato in funzione della trasmissione iconografica.
Fermo restando che uno dei fattori determinanti di persistenza e diffusione degli schemi fu senz'altro l'apprendistato presso le botteghe, dove si insegnava ai giovani a riprodurre, fino quasi a giungere all'automatismo, i diversi modelli, sembra ora necessario cercare di definire il diverso grado di incidenza sulla formazione di un repertorio di immagini di tutti quei «vettori» che sono chiamati generalmente in causa per giustificare analogie o identità iconografiche. Questi sono: la tradizione letteraria con le illustrazioni librarie; gli artigiani itineranti; gli oggetti mobili (stoffe, vetri, manufatti toreutici, produzione ceramica, emblèmata, sarcofagi); gli intermediarî tecnici (modelli in gesso, cartoni, punzoni).
1. Tradizione letteraria. - L'incidenza della tradizione epico-mitica sulla formazione del patrimonio iconografico classico è fenomeno ampiamente noto e indagato: essa appare infatti fonte primaria di ispirazione forse già nel Tardo Geometrico, certamente a partire dal primo arcaismo e poi via via, seguendo le nuove creazioni e le diverse redazioni dei miti, fino a età tardoantica. Ciò premesso, va tuttavia sottolineato che non altrettanto chiaramente definiti appaiono da un lato il livello di dipendenza delle immagini dai testi (formazione), dall'altro la funzione del testo stesso nella diffusione di uno schema figurativo (trasmissione: cfr. Lavagne, 1978; Baldassarre, 1981; Gury, 1986). Se infatti appare indubitabile che la narrazione omerica sia servita come fonte di ispirazione per la creazione sia di raffigurazioni singole sia di interi cicli figurativi (basti ricordare la serie di tabulae iliache, opera di Theoros di Samo: Plin., Nat. hist., xxxv, 144; sui cicli epici e mitici v. Horsfall, 1983, p. 213), è altrettanto documentato che spesso la redazione figurativa si stacca in maniera anche sostanziale dal testo. Se consideriamo episodî come il trascinamento del corpo di Ettore, non si può non notare che nella ceramica attica, ma anche in molte testimonianze posteriori, viene aggiunto un personaggio del tutto estraneo alla tradizione omerica, vale a dire l'auriga Automedonte (Kossatz-Deissmann, 1981, n. 585 ss., passim); ciò può dipendere dal fatto che l'immagine si è ispirata a una narrazione diversa da quella omerica oppure che alla sua formazione hanno contribuito altre componenti, quali p.es. la suggestione della pratica bellica contemporanea che presupponeva che il guerriero fosse accompagnato dal suo auriga. Analogamente, la scena del riscatto è resa nella ceramica arcaica con la raffigurazione di Achille disteso sulla klìne, secondo un costume introdotto in Grecia in età ben posteriore rispetto a quella in cui si è formato l'episodio epico (Kossatz-Deissmann, 1981, n. 643 ss.; Ghedini, 1993, p. 162 ss.): anche in questo caso il riferimento al costume coevo travalica sulla narrazione poetica.
Sembra dunque che in taluni casi la tradizione letteraria fornisca solamente il tema senza influenzare minimamente la resa figurativa, che presenta soluzioni autonome. Di conseguenza, perché sia possibile ritenere che un'immagine dipenda da una specifica narrazione, essa deve puntualmente riprodurre i particolari caratterizzanti forniti dalla narrazione stessa.
Per stabilire relazioni precise fra un dato testo e una data immagine è necessario anzitutto che il testo presenti elementi caratterizzanti che consentano di istituire con la redazione figurativa un rapporto sicuro. Se infatti analizziamo p.es. la tradizione iconografica relativa al rapimento di Europa da parte di Giove in forma di toro, non possiamo fare a meno di ipotizzare che le numerose raffigurazioni comprendenti un toro (stante, accovacciato, natante, ecc.) e una fanciulla (stante accanto all'animale oppure a cavalcioni su di lui, ecc.; Robertson, 1988) siano da porre in relazione con la tradizione narrativa; e tuttavia risulta altrettanto evidente che non appare possibile legare l'immagine al testo a causa della genericità delle indicazioni letterarie che, se anche talvolta descrivono l'abbigliamento della fanciulla, i gesti, l'ambientazione, danno tuttavia egualmente adito a varianti figurative anche importanti. Inoltre la precoce fortuna dello schema della fanciulla a cavalcioni del toro consente di ipotizzare una sua trasmissione autonoma attraverso la tradizione figurativa senza il continuo ricorso alla descrizione letteraria.
Diversamente, quando si tratta di miti poco noti o di episodî di nuova creazione, è talvolta possibile individuare uno specifico testo che può essere posto alla base di una tradizione figurativa. Nel caso p.es. del gruppo di affreschi pompeiani riproducenti l'episodio di Piramo e Tisbe in una versione che sembra attestata per la prima volta in Ovidio (Met., iv, 55 ss.), è difficile non ritenerli copia di una creazione esemplata proprio sul testo ovidiano (Baldassarre, 1981).
Anche nel caso dei due mosaici di Aix-en-Provence e Villelaure con la raffigurazione (altrimenti non documentata) del combattimento fra Darete ed Entello, il riferimento alla narrazione virgiliana è così puntuale da consentirci di ipotizzare che un colto committente abbia voluto, per ragioni che oggi ci sfuggono, eternare proprio quello specifico e poco noto episodio dell'Eneide, che godette di una certa rinomanza nella tradizione letteraria tarda (Polverini, 1984), ma di poca o nulla fortuna iconografica (Lavagne, 1978 e 1994).
Lo stretto legame che unisce testo e immagine è particolarmente ben esemplificato dalle raffigurazioni riconducibili alla tradizione teatrale: dalla ceramica attica a quella magnogreca, dai sarcofagi ai prodotti di lusso, dagli affreschi ai mosaici troviamo innumerevoli testimonianze di iconografie teatrali (Webster, 1960, 1961 e 1962; Trendall, Webster, 1971; Moret, 1975, pp. 260-272; Burkhalter, Arce, 1984; per ulteriori approfondimenti e bibl. v. anche il paragrafo successivo Illustrazioni di libri). D'altronde il testo teatrale, per sua stessa natura destinato a essere tradotto in immagini, meglio di altri si prestava a una redazione figurativa, la quale poteva anche essere ulteriormente influenzata dalle rappresentazioni vere e proprie.
Meno chiara appare invece la funzione dell'èkphrasis nella formazione del patrimonio iconografico: è infatti assai difficile stabilire se la descrizione di un'opera, spesso puntuale e minuziosa, nascesse dall'osservazione di un monumento reale, costituisse modello per una redazione figurativa oppure, infine, fosse mera esercitazione retorica (sul problema v. da ultimo Heffernan, 1991, pp. 297-316; Zeitlin, 1994, pp. 138-196; Goldhill, 1994, pp. 197-223; Bryson, 1994, pp. 255-283).
Se prendiamo la descrizione della merenda all'aperto dopo la caccia, che costituiva l'elemento centrale del quadro intitolato I cacciatori, descritto da Filostrato Minore (Imag., 3), non si può non notare la somiglianza in numerosi particolari con monumenti di poco posteriori, quali il mosaico di Piazza Armerina o il piatto di Seuso: il retore parla infatti di cinque commensali sdraiati su uno stibadium, di reti appese agli alberi, di servi affaccendati, di una polla d'acqua in primo piano, elementi tutti che ritroviamo nelle citate raffigurazioni in cui ritorna anche il commensale che offre un boccone al suo cane (Ghedini, 1992, p. 81). In tal caso Filostrato potrebbe aver tratto ispirazione da un quadro realmente esistente oppure - ma ciò sembra meno plausibile - il suo testo potrebbe essere servito da modello per una qualche composizione, poi variamente imitata nei secoli successivi da mosaicisti, pittori, toreuti, tessitori, ecc. Ma se risulta difficile stabilire un rapporto di priorità fra testo e immagine, sembra invece indubitabile che la descrizione filostratea abbia contribuito alla fortuna di un soggetto che stava diventando di moda anche grazie al trasparente significato di autorappresentazione sociale che era venuto assumendo (per tutto il problema v. anche EKPHRASIS).
In conclusione si può affermare che il ruolo della tradizione letteraria può essere considerato determinante non solo per la formazione di un'iconografia (ricordiamo a tale proposito che Gregorio di Tours nella sua Historia Francorum, II, 17, descrive la committente mentre tiene un libro in grembo e in esso legge «historias actionis antiquas, pictoribus indicans quae in parietibus fingere deberent»), ma anche per la diffusione di un tema. Del tutto ininfluente appare invece la tradizione letteraria nella trasmissione di una determinata iconografia: infatti la lettura di un testo, anche se semplice e fortemente caratterizzato, può dare luogo a una varietà quasi infinita di soluzioni (cfr. supra le considerazioni relative a Europa; v. anche le diverse versioni di Danae nella pittura pompeiana: Andersen, 1985, p. 119).
Accettato il presupposto che per riprodurre una determinata raffigurazione è necessario conoscere direttamente l'originale o almeno una sua riproduzione, ne consegue che un testo poteva al più avere la funzione di richiamare un'immagine, a patto che questa fosse già entrata a far parte del patrimonio figurativo collettivo o personale; in tal caso l'artigiano poteva decidere di riprodurla a memoria, di copiarla da altro monumento figurativo oppure di ricrearla liberamente secondo la sua sensibilità.
Illustrazioni di libri. - I libri possono essere serviti anche da «vettori» più specifici per la trasmissione di determinati schemi figurativi grazie alle illustrazioni che a partire dall'età ellenistica sembrano aver arricchito prima i testi scientifici poi quelli letterari (Horsfall, 1983; Cavallo, 1989).
Nell'ambito delle illustrazioni di libri dobbiamo tuttavia distinguere fra le raffigurazioni schematiche che troviamo nei testi più antichi (v. p.es. Papyrus Oxyrinchi, 22.2331; Cavallo, 1991, fig. 250; Andersen, 1985), le quali appaiono poco più che silhouettes (Cavallo, 1989, p. 717), e quelle più articolate e complesse, di cui abbiamo testimonianza a partire dal II sec. d.C. sia su papiro (v. p.es. il frammento di rotolo del II sec. d.C. con la raffigurazione al tratto di Amore e Psyche: PSI, 919; Cavallo, 1989, fig. 30; il papiro Monacense 128 del IV sec. d.C. con l’abductio di Briseide, raffigurata sempre al tratto: Frangini, Martinelli, 1981, p. 4 ss.; il papiro da Antinoe della metà del V sec. con un gruppo di aurighi effigiati a colori: Turner, 1973, p. 192 ss.; ulteriori riferimenti in Weitzmann, 1981, p. 48), sia su pergamena (basti ricordare tra l'altro l’Iliade Ambrosiana, la Itala di Quedlinburg, la Genesi di Vienna, il Virgilio Vaticano).
Le dimensioni ragguardevoli delle raffigurazioni sopra citate, che talvolta si espandevano fino a occupare l'intera pagina (Cavallo, 1989, p. 718, con bibl. sul problema), unitamente alla chiara indicazione di particolari specifici e caratterizzanti (gesti, ambientazione, colori, ecc.), ne fanno certamente «vettore» privilegiato, soprattutto in età tardoantica, non solo per la diffusione dei temi ma anche per la conoscenza di certe soluzioni iconografiche.
L'interscambio fra le illustrazioni dei testi e le testimonianze monumentali risulta particolarmente evidente qualora si passino in rassegna le raffigurazioni di soggetto teatrale: in questo caso infatti accanto a scene genericamente ispirate ai diversi episodi (che possono essere inserite in quelle esaminate al paragrafo precedente), troviamo composizioni la cui dipendenza dall'illustrazione di libri sembra suggerita o dall'apposizione dei nomi dei protagonisti o da precise citazioni di interi brani di dialogo oppure dall'indicazione di elementi tipici del repertorio teatrale (strutture sceniche, personaggi mascherati, gestualità accentuata, ecc.: Weitzmann, 1981, p. 45 ss.).
La ricchezza delle testimonianze rende impossibile un'esemplificazione esaustiva. Ci limiteremo pertanto a ricordare:
le coppe a rilievo ellenistiche (c.d. coppe megaresi; Sinn, 1979; Weitzmann, 1981, p. 45 ss., figg. 1-2);
un bicchiere di vetro a Los Angeles (Weitzmann, 1981, p. 39 ss.);
gli affreschi del columbarium di Villa Doria Pamphilj;
il coperchio di sarcofago a Napoli (Schefold, 1976, p. 799, fig. 2);
i mosaici della Casa del Menandro a Mitilene (Kharitonidis, Kahil, Ginouvès, 1970);
alcuni mosaici e affreschi pompeiani (Weitzmann, 1981, p. 43; Ling, 1991, figg. 235-236);
un mosaico da Oéscus (Ivanov, 1994, tav. lxxxii);
alami affreschi di Efeso (Strocka, 1977, p. 53 ss., figg. 62-69, in particolare n. 85);
un mosaico a Fuente Alamo (Daviault, Lancha, Lòpez Palomo, 1987);
gli affreschi della «Tomba dei Ludi» a Cirene (Bacchielli, 1993, p. 91 ss.).
In tutti i casi citati il riferimento teatrale è stato ampiamente provato e l'ipotesi che le immagini dipendano da illustrazioni di testi piuttosto che da rappresentazioni sceniche, appare senz'altro plausibile.
Più complesso si presenta il problema qualora si cerchi di distinguere, nell'ambito delle raffigurazioni epico-mitologiche o cristiane, tra quelle che possono dipendere da vignette e quelle liberamente ispirate alla narrazione (cfr. paragrafo precedente). Un'indicazione può venire dall'analisi delle modalità della narrazione: vale a dire quando la scena presenta carattere riassuntivo, cioè contiene in sé spunti che consentano di ricostruire in sequenza gli antefatti o le conseguenze del momento raffigurato (cfr. Meyboom, 1978: Complementary Method), essa può essere più plausibilmente inserita fra quelle in cui il testo appare determinante solo nella fase della formazione dell'immagine (Baldassarre, 1981), mentre quando la raffigurazione fissa un momento unico dell'azione, secondo il modo che è stato definito «monoscenico», allora può forse essere ricollegata al modello librario, dal momento che una delle caratteristiche delle vignette dei libri consiste proprio nell'istantaneità della narrazione.
Un ulteriore e più sicuro indizio di dipendenza dalle illustrazioni di testi può essere fornito dalle citazioni letterarie apposte, a mo' di didascalia, alla raffigurazione stessa.
Sulla base di queste considerazioni potremmo ritenere riproduzione di illustrazioni da libro il mosaico di Carranque con scene desunte dalle Metamorfosi di Ovidio (Fernandez Galiano, 1994), gli affreschi pompeiani e il mosaico di Themetra illustranti la metamorfosi di Aci, il mosaico di Low Ham con l'arrivo di Enea a Cartagine, il mosaico di Mopsuestia con la storia di Sansone (Kitzinger, 1973, pp. 133-344), il tessuto di Sens con storie di Giuseppe (Cavallo, 1991, fig. 252).
A ulteriore conferma dell'ipotesi che pittori e mosaicisti abbiano talvolta utilizzato vignette da libri, possiamo ricordare che Sant'Agostino (Civ., 16,8 = 135, 24 D) descrive alcuni mosaicisti intenti a decorare la platea maritima di Cartagine con immagini mostruose «deprompta ex libris velut curiosioris historiae”.
2. Artigiani itineranti. - «Vettori» di cultura figurativa furono certamente gli artigiani che si spostavano da una città o da una provincia all'altra portando con sé il proprio bagaglio di conoscenze tecniche e figurative, il quale andava mano a mano arricchendosi anche grazie alle nuove esperienze. Il ritrovare in aree lontane lo stesso schema iconografico può perciò essere spiegato ipotizzando la presenza di un artigiano itinerante, che riproduceva a memoria un'opera vista altrove, oppure realizzava per committenti diversi la medesima raffigurazione (è ormai noto che gli antichi non erano ossessionati come noi dal presupposto dell'originalità); tale opera poteva poi, successivamente, venire copiata fedelmente (o con modifiche) dagli artigiani del luogo (nell'ambito della stessa o di una diversa manifattura artigianale), dando origine a due serie parallele, ma sostanzialmente indipendenti in quanto riferibili a due archetipi diversi, pur se opera di uno stesso artigiano.
Gli spostamenti di scultori e pittori di età arcaica e classica sono ben noti e attestati dalle fonti; tale pratica si generalizzò ovviamente in età ellenistica, grazie al moltiplicarsi dei centri di potere e all'allargarsi della clientela, come conferma, p.es., la carriera di famiglie di scultori quale quella di Timarchides (v.), le cui peregrinazioni tra Atene e Roma sono state oggetto di attenta ricostruzione (v. da ultimo Queyrel, 1991, pp. 448-464).
La forza di attrazione di Roma convogliò nella capitale, fra III e I sec. a.C., le firme più rinomate nei varî campi della produzione artistica; successivamente, fra la tarda repubblica e il primo impero, durante la grande fase espansionistica, si registra anche un notevole flusso, dall'Italia verso le provincie, di botteghe artigianali che ponevano tecnologia e cultura figurativa al servizio della nuova ricca committenza che desiderava allinearsi allo «standard» di vita della capitale.
Non desta pertanto meraviglia il ritrovare a Cirta mosaici che possiamo ipotizzare eseguiti da maestranze campane, giunte in Africa al seguito di quel Sittius di Nocera che ebbe in dono da Cesare una piccola porzione di territorio per i suoi servizi (Dunbabin, 1978, p. 255 s.). Sempre restando nell'ambito del mosaico si può ancora ricordare che i legami che uniscono la produzione africana, almeno fino a età flavio-traianea, a quella italica oppure quella aquileiese a quella gallica sono stati spesso giustificati proprio con l'ipotesi di spostamenti di botteghe artigianali (Darmon, 1981, p. 292 s.; Lancha, 1983; Joly, 1988; sui mosaicisti itineranti v. anche Daviault, Lancha, Lopez Palomo, 1987, p. 54; Donderer, 1989).
Una conferma epigrafica dell'esistenza di artigiani itineranti ci viene dall'iscrizione di Savaria (CIL, III 4222), in cui sono ricordati pictores peregrini (si ricordi anche l'epitafio di Perinto: Bruneau, 1988, p. 67; ulteriori riferimenti in Ling, 1991, p. 214).
Il costume divenne così generalizzato in età tardo-antica da lasciare addirittura traccia nella legislazione: una costituzione emanata da Costantino nel 337 esentava dall'obbligo di residenza diverse categorie di artigiani, fra cui sono espressamente ricordati gli architecti, i pictores, gli statuari!, i marmorarìi, i laquearii, gli Sculptores, i musivarii, ecc. (Cod. Theod., XIII, 4,2), mentre nel 374 Valentiniano concesse ai pittori, oltre a una serie di esenzioni, la possibilità di mutare il proprio domicilio a piacimento (Cod. Theod., XIII, 4,4; sugli artigiani itineranti in età tardoantica v. Sodini, 1979).
A ulteriore conferma della mobilità dei tecnici e degli artigiani tardoantichi ricordiamo anche la richiesta che Teoderico inoltrò ad Agapito, prefetto di Roma, che gli fossero inviati marmorarios peritissimos per restaurare la Basilica Herculis a Ravenna (Epistulae, I, 6); analogamente Gregorio di Nissa si fece mandare da Anfilochio, vescovo d'Iconio, degli specialisti per la costruzione di volte e Teodoreto, vescovo di Cirro, promise a Isocasio di inviargli un ebanista, Geronzio, richiesto anche dal tribuno Euriciano (Eristov, 1987, p. 118, nota 31, ivi referenze). D'altronde, ancora nel X sec. l'esecuzione del mosaico della Grande Moschea di Cordova venne affidata alle capaci mani di un mosaicista fatto venire da Bisanzio (Stern, 1976).
Quindi, se forse è giusto convenire con C. Balmelle e P. Darmon che il raggio di azione delle botteghe, soprattutto musive, poteva essere più ridotto di quanto generalmente supposto (Balmelle, Darmon, 1986), non si può tuttavia troppo ridimensionare l'importanza del fenomeno degli artisti itineranti che dall'arcaismo all'età tardoantica interessò in vario modo e con diversi gradi di intensità tutte le categorie artigianali, contribuendo non poco alla diffusione sia di cultura figurativa sia di specifici schemi iconografici.
3. Oggetti mobili. - «Vettori» di cultura figurativa furono anche i manufatti, oggetto di esportazione e commercio già in età arcaica lungo le rotte della colonizzazione e, successivamente, sotto la spinta di una domanda sempre più ampia e allargata, oltre i confini del mondo greco-romano.
In un primo tempo a far circolare le iconografie furono soprattutto i vasi, le stoffe, i bronzi, gli avorî, a cui poi si aggiunsero i prodotti di un artigianato sempre più specializzato: vetri, argenti, gemme, manufatti in terracotta (lucerne, coppe, lastre, ecc.) e in marmo (statue, rilievi, sarcofagi, ecc.). Tutti questi oggetti, facilmente trasportabili, contribuirono alla conoscenza non solo dei temi, ma anche di redazioni particolarmente fortunate di determinati soggetti.
Stoffe. - L'uso di decorare le stoffe per abbigliamento e per arredo con raffigurazioni intessute, ricamate o dipinte ne fece fin dall'età arcaica un «vettore» privilegiato di cultura figurativa: i tessuti più preziosi infatti, oltre a essere oggetto di commercio venivano spesso esposti nei templi all'ammirazione dei fedeli (basti pensare al peplo di Atena con raffigurazione di Gigantomachia o al mantello di Alcistene a cui il retore Polemone dedicò addirittura un breve saggio, come ci informa Ateneo, XII, 541 a-b. Inoltre tali manufatti, che erano di facilissimo trasporto, presentavano anche il vantaggio di fornire raffigurazioni policrome.
Le decorazioni delle stoffe arcaiche e classiche ci sono note anzitutto dalle fonti (Hom., Iliade, III, 125 ss.; xn, 441 ss.; Aesch., Choeph., 231 s.; Eurip., Ion, 1141 ss., 1421; riferimenti in Ghedini, 1995), a cui si possono aggiungere alcune significative testimonianze archeologiche e le raffigurazioni vascolari riproducenti, spesso con minuzia, le eleganti decorazioni geometriche, fito-morfe o figurate dei tessuti da abbigliamento e arredamento: ed è grazie alle testimonianze monumentali che è possibile in taluni casi stabilire rapporti precisi fra il repertorio tessile e quello di altre manifatture (per i mosaici v. Ghedini, 1995).
La nostra conoscenza delle raffigurazioni tessili di età ellenistico-romana resta per gran parte affidata alle testimonianze letterarie che però difficilmente consentono di istituire raffronti iconografici a causa della genericità degli accenni. Quindi, se pure è noto che il mito di Ganimede fu frequentemente riprodotto sui tessuti, come confermano Plauto (Men., I, 142-144), Virgilio (Aen., V, 250 ss.), Valerio Fiacco (Arg., II, 407 ss.) e Igino (Fab., 274), tuttavia risulta impossibile stabilire una netta corrispondenza fra le raffigurazioni tessili e le versioni pervenuteci del tema (Ganimede a terra, stante, in corsa, in ginocchio, in volo), dal momento che le descrizioni appaiono generiche e non sufficientemente caratterizzate sul piano iconografico.
Per l'età tardoantica la nostra conoscenza dei manufatti tessili si amplia grazie ai tessuti rinvenuti nelle necropoli copte, che documentano una scelta tematica quanto mai ricca e variata tale da consentire più specifici raffronti con la tradizione figurativa coeva.
Fra i numerosi esempî che si possono citare di interscambio con altre manifatture artigianali, ci limitiamo a ricordare quello emblematico della Venere in conchiglia retta da Tritoni, di cui abbiamo testimonianza, oltre che sulle stoffe copte (Del Francia, 1984), nel repertorio to- reutico e musivo (Toso, 1995). Ma accanto ai temi mitologici (Apollo e Dafne, cicli dionisiaci, trionfo di Nettuno, Selene ed Endimione, ecc.) ampia risonanza ebbero le raffigurazioni ispirate alla vita quotidiana, fra cui spiccano la caccia e il banchetto en plein air, che ripropone l'iconografia di cui abbiamo già parlato (v. supra il paragrafo tradizione letteraria e Ghedini, 1991), pure attestata in ambito toreutico e musivo.
A tal punto il repertorio tessile appare compenetrato di iconografie classiche che in un merletto prodotto a Venezia nel XVI sec. ritroviamo soggetti mitologici quali le fatiche di Ercole, Atteone e i cani, Dioniso sul carro, resi in soluzioni figurative chiaramente desunte dal repertorio ellenistico-romano, pervenuto probabilmente non per recupero dotto ma per trasmissione interna alle botteghe tessili (Schmidt, 1965, tav. 395; v. anche Calcani, 1993).
Tuttavia le dimensioni spesso ridotte delle raffigurazioni inserite nei tessuti - perlomeno da quel che risulta dalla documentazione tardoantica - unitamente alla cursoria trattazione di molti particolari, ci induce a considerare questi manufatti «vettori» di cultura figurativa piuttosto che veri e propri modelli da copiare. Analoga funzione i tessuti copti sembrano aver svolto nella diffusione di certi schemi geometrici (cerchi inscritti in riquadri, cerchi allacciati intorno a un elemento centrale, quadrati allacciati a formare stelle a più punte, ecc.), tipici della tradizione musiva tardoantica che condivideva con il repertorio tessile anche il gusto per le bordure geometriche o vegetalizzate (a trecce, a onde correnti, girali d'acanto, ecc.; Cantino Wataghin, 1990).
Vetri. - Vetri cammei, vetri incisi, dipinti, smaltati, dorati presentano un repertorio figurato quanto mai ricco e variato, ispirato in parte alla tradizione epico-mitica, in parte alla vita quotidiana (scene di battaglia, di caccia, ludi gladiatorî, venationes, corse nel circo, ecc.; Harden, 1987).
Il raffronto con la tradizione figurativa coeva rende evidente l'interscambio sia tematico sia compositivo soprattutto con quelle classi di manufatti in cui meglio si esprimeva l'ideologia delle classi dominanti.
Gli amori di Giove, p.es., che godettero di tanta fortuna nelle raffigurazioni musive delle ricche case romane (ornavano soprattutto oeci e triclinî e, frequentemente, i cubicoli), sono presenti in soluzioni iconografiche tradizionali (Europa e il toro, Ganimede e l'aquila) nel bicchiere da Begram, di fabbrica alessandrina, ora al Museo Guimet.
L'episodio dello scoprimento da parte di Ulisse e Diomede di Achille nascosto a Sciro si ritrova invece nel bicchiere dipinto di Colonia in cui sono riprodotti particolari quali il trombettiere con la tuba levata o il cesto di lana ai piedi dell'eroe, che ricorda le mansioni femminili che Achille svolgeva con le fanciulle (cfr. Stat., Ach., I, 580 ss.), particolari registrati anche su altri manufatti ispirati al medesimo soggetto (Kossatz-Deissmann, 1981, nn. 54, 98, 121, 175 e passim).
Il mito di Atteone, quale è trattato nelle tazze, forse gemelle, raffiguranti il bagno di Diana e Atteone sbranato dai cani, rinvenute a Leuna e a Dura Europos, presenta schemi ben documentati nel repertorio musivo (per i mosaici v. Guimond, 1981, nn. 108, 117 a, b; per i vetri v. Harden, 1987, n. 107; sui pendants nelle arti suntuarie v. Burkhalter, Arce, 1984), a cui si ispira anche la straordinaria coppa a rilievo di Licurgo (Harden, 1987, n. 139).
Ancora al repertorio dei mosaici, ma attraverso forse la mediazione della toreutica, si ispirano le raffigurazioni di caccia, fra cui spicca quella al cervo con le reti della bottiglia di Chiaramonte Gulfi (v.) che trova raffronti a Piazza Armerina, a Ippona, nel piatto di Seuso, ma anche nei sarcofagi di tradizione urbana (Ghedini, 1991).
Tuttavia, nonostante le analogie spesso puntuali che legano le varie raffigurazioni, la precisione nel dettaglio e l'aggiunta talvolta del colore e la larga circolazione di tali oggetti, dovuta alla scarsità dei centri di produzione, i vetri possono senz'altro essere considerati «vettori» di cultura figurativa, ma più difficile risulta ipotizzare che essi siano serviti da modello per altre classi di manufatti. Sembra invece più verosimile che sia i mastri vetrai sia i mosaicisti, i toreuti, gli scalpellini, che ponevano la loro capacità artigianale al servizio della medesima committenza, attingessero a un repertorio comune, fortemente connotato sul piano dell'ideologia.
Manufatti toreutici. - Le puntuali tangenze esistenti fra le raffigurazioni documentate su oggetti in metallo e quelle di altre manifatture artigianali sono state da tempo messe in evidenza dagli studiosi che le hanno poste in relazione con l'uso e, forse, il commercio, delle matrici utilizzate per la loro realizzazione e dei calchi in gesso che da esse potevano essere tratti nel corso dell'esecuzione o a prodotto finito. Tuttavia, se pure tale presupposto appare plausibile, risulta altrettanto evidente che anche l'oggetto, per le sue caratteristiche di mobilità e per la sua natura di prodotto di lusso, poté svolgere una funzione di «vettore» di cultura figurativa, analogamente a quanto ipotizzato per altre categorie di manufatti.
Significativo in tal senso appare il raffronto fra la raffigurazione di Danae che si appresta ad accogliere in grembo la pioggia d'oro di uno specchio greco del IV sec. a.C. e quella riproposta, con una lieve variante nella posizione del braccio, su alcune lèkythoi plastiche all'incirca coeve (D'Abruzzo, 1993): dall'analisi di tali manufatti sembra infatti potersi inferire un interscambio che pare più plausibile ipotizzare dal prodotto di lusso al manufatto corrente piuttosto che viceversa.
Il fenomeno del passaggio delle iconografie dagli oggetti metallici ad altre classi artigianali risulta particolarmente evidente nel «Giudizio di Oreste», quale è a noi noto dal Vaso Corsini: le varie scene infatti riecheggiano su gemme, lucerne, sarcofagi, come ha ben dimostrato lo Hafner in un saggio ormai classico (Iudicium Orestis. Klassisches und klassizistisches, Berlino 1958).
Analogie significative si registrano anche con altre manifatture artigianali: si pensi p.es. alla Venere in conchiglia retta da Tritoni che ritroviamo nello stesso schema figurativo nel mosaico di Šahba', nel cofanetto di Proiecta e nella Tensa Capitolina (Toso, 1995; Ghedini, 1995 b); o alla scena di toilette del mosaico di Sidi Ghrib che ritorna ancora nel cofanetto di Proiecta e su un oggetto del tesoro di Seuso (Baratte, 1992, p. 95). Anche il già citato tema della merenda all'aperto nella soluzione figurativa attestata nel mosàico della Piccola Caccia a Piazza Armerina appare puntualmente ripetuto nel piatto di Seuso (v. supra), mentre la singolare Menade con campanello e frusta del mosaico dionisiaco di Sarrin appare identica nel piatto d'argento della Collezione Ortiz (Baity, 1991)·
Una citazione a parte merita il Bellerofonte che abbevera Pegaso del piatto di Ginevra (inv. AD 2382): qui troviamo rielaborata una soluzione figurativa ispirata a una creazione augustea, a noi nota dal rilievo Spada (Helbig4, pp. 765-768) e dall'osteoteca di Megiste (Strocka, 1984, pp. 203-208; v. anche la base di Como: Frova, 1993), che viene puntualmente ripresa nel cofanetto di Veroli, databile in piena età medievale (Simon, 1964, p. 324 ss.; v. anche Sichtermann, 1993). In questo caso, fermo restando che si potrebbe anche invocare l'ipotesi dell'intermediario tecnico, probabilmente un calco in gesso (v. infra), resta tuttavia ipotizzabile anche per il manufatto toreutico la funzione di «vettore» del soggetto, addirittura oltre i limiti cronologici dell'età classica.
Produzione ceramica. - Fra gli oggetti che contribuirono alla circolazione delle iconografie e di conseguenza alla diffusione di una cultura figurativa possiamo annoverare anche i manufatti ceramici, dalle lastre di rivestimento alla suppellettile d'uso domestico (piatti, coppe, bicchieri, vasi, lucerne, ecc.), decorata a rilievo e a stampo, che riproduceva in materiale più povero i preziosi servizî in metalli pregiati.
Proprio l'identità del repertorio, più volte sottolineata, consente di ipotizzare che fra manifattura toreutica e ceramica vi fosse un interscambio di tipo tecnico (uso dei medesimi calchi o matrici: per la ceramica aretina v. Ettlinger, 1967; per le lastre Campana, Borbein, 1968; per le lucerne, Di Filippo Balestrazzi, 1988, pp. 7-18, con bibl.). Ma la ceramica decorata, proprio per il costo minore rispetto alla suppellettile in metallo, svolse ovviamente anche un'importante funzione nella diffusione di soggetti e iconografie, consentendone l'acquisizione a strati sempre più larghi di utenti che in tal modo facevano propri i temi prediletti dalle classi dominanti. Tale ruolo di «vettore» di schemi iconografici, spesso fortemente connotati in senso ideologico, appare ben illustrato p.es. dalla lucerna dell'Agorà di Atene con scena del riscatto del corpo di Ettore (Kossatz-Deissmann, 1981, n. 710): proprio per il fatto che la versione scelta per decorare il disco della lucerna si differenzia dal più fortunato schema augusteo, attestato p.es. nella tazza di Hoby e nella sigillata coeva (Kossatz-Deissmann, 1981, nn. 681 ss., 687), mentre si apparenta strettamente alla soluzione preferita dagli scalpellini attici (posizione di Achille che distoglie il capo dalla vista del vecchio padre inginocchiato, aggiunta della coppia Hermes-Teti in secondo piano: Kossatz-Deissmann, 1981, n. 690 ss. e passim) possiamo dedurre che le lucerne, così facilmente trasportabili, possono aver contribuito, unitamente ai sarcofagi, a far circolare questo particolare schema figurativo.
Analoghe considerazioni si possono fare per il singolare gruppo di Perseo e Andromeda seduti su roccia di fronte a una polla d'acqua, creazione di I sec. d.C. ispirata al gruppo piramidale di Marte e Venere. Tale soluzione figurativa, che non trova riscontro nella tradizione letteraria e può dunque essere considerata una creazione ad hoc, probabilmente di età augustea e verisimilmente connotata sotto il profilo ideologico (Perseo potrebbe essere Augusto e Andromeda Livia), non godette di soverchia fortuna: le uniche testimonianze a noi note sono infatti un gruppo di affreschi pompeiani, alcune lucerne e un cammeo ora a Pietroburgo (per il gruppo di Marte e Venere, v. Andersen, 1985; per gli affreschi pompeiani, le lucerne, il cammeo, v. Schauenburg, 1981, η. 102 ss.). Il ritrovare tale singolare raffigurazione in una libera rielaborazione su un mosaico da Brading del IV sec. d.C. (Schauenburg, 1981, n. 116), quindi a significativa distanza cronologica e areale rispetto all'archetipo e alle sue derivazioni, sembra suggerire che proprio lucerne e gemme possono aver contribuito a preservare e far circolare questa particolare soluzione figurativa.
A tale proposito appare necessario anche ricordare che fra repertorio ceramico e glittico esisteva un rapporto altrettanto stretto che fra repertorio ceramico e toreutico (v. anche Di Filippo Balestrazzi, 1988, p. 11): ne sono significativa testimonianza p.es. la Venere pudica entro conchiglia, che ritroviamo identica su una gemma di Berlino e su una lucerna di Cipro (Lawrence, 1967, figg. 16-17), la Leda erotica della lucerna di Preimos e di alcune gemme (Dierichs, 1990, p. 42,III, 26; Linant de Bellefonds, 1992, p. 244, n. 130), l'Atteone aggredito dai cani della lucerna di Monaco, della gemma di Bonn, del medaglione in bronzo di Boston (Guimond, 1981, nn. 58 a, 68, 69, ivi ulteriori confronti), che riproduce forse un archetipo statuario (cfr. la statua da Lanuvio ora al British Museum: Guimond, 1981, n. 38), acquisito anche dal repertorio musivo (cfr. mosaico di Ivailograd: Guimond, 1981, n. 108).
Emblèmata. - L'uso di inserire nei pavimenti o nelle pareti pannelli musivi eseguiti in laboratorio, allettando le tessere su lastre di marmo o di terracotta, è attestato già in età ellenistica e godette di ampia fortuna fino alla piena età imperiale (Balil, 1976; Donderer, 1983; Lavagne, 1988, p. 407); ma in realtà sembra oggi dimostrabile che tale tecnica sia stata in uso fino in età tardoantica anche se in quest'epoca la tradizionale decorazione figurata che assimilava l’èmblema a un vero e proprio quadro sembra cedere il posto a decorazioni di tipo geometrico o floreale.
A tale proposito possiamo ricordare i bipedali di Ostia (Sear, 1977, p. 122 s.) e la lastra marmorea del Museo Nazionale Romano raffigurante un marmorarius intento a eseguire in bottega un èmblema geometrico di opus sedile.
Anche il passo della lettera di Simmaco (Ep., VIII, 42, 2), in cui il panegirista latino chiede all'amico di inviargli un campione del novum quippe musivi genus... vel in tabulis vel in tegulis...» potrebbe essere interpretato nel senso che i modelli di particolari schemi decorativi venivano realizzati secondo l'antica procedura dell'èmblema e poi fatti oggetto di esportazione o commercio (in tal senso èmblema sembrerebbe equivalente al paràdeigma del papiro Cairo Zenone 59665, su cui v. infra il paragrafo intermediarÎ tecnici: Cartoni e Cantino Wataghin, 1990, p. 281).
Gli emblèmata, per le loro caratteristiche di facile trasportabilità e per la loro funzione decorativa, costituirono fin dalla tarda età repubblicana un «vettore» di cultura figurativa e di schemi iconografici (Suet., lul, 46, ci informa che Giulio Cesare amava esporre nella sua tenda i tessellata e sectilia preferiti; cfr. anche Wattel de Croizant, 1986, pp. 200-215). A tale proposito non sembra inutile ricordare gli emblèmata con le raffigurazioni del gatto che afferra l'uccello e di una natura morta, chiaro esempio di una trasmissione interna alla categoria (Parlasca, 1975, p. 365; Balil, 1976, p. 14, c), a cui si può aggiungere l’èmblema di Zliten con la singolare raffigurazione della battitura del grano sull'aia, di cui si coglie l'eco, sia pure in una soluzione figurativa leggermente variata, nel mosaico della Tomba della Mietitura della necropoli ostiense dell'Isola Sacra (Angelucci, 1990, fig. 51). Tale soggetto, non essendo infatti altrimenti attestato nelle arti figurative, potrebbe essere stato trasmesso di bottega in bottega proprio grazie alla circolazione di emblèmata.
Infine non si può recisamente escludere che gli esemplari di dimensioni più ridotte potessero addirittura essere esposti come campionario nelle botteghe dei mosaicisti, analogamente a quanto ipotizzato per bozzetti e calchi in gesso.
Sarcofagi. - L'incidenza dei sarcofagi sulla trasmissione di soggetti e iconografie appare tanto innegabile quanto difficilmente valutabile: da un lato infatti la loro destinazione funeraria li sottraeva all'uso quotidiano, dall'altro però la forte carica emblematica che da essi promanava e la loro larga circolazione nell'ambito del cospicuo fenomeno del commercio, che interessò in età imperiale tutto il bacino del Mediterraneo, li qualificava senz'altro come «vettore» privilegiato di temi simbolici e fortemente autorappresentativi.
Il repertorio dei sarcofagi, riconducibile alla tradizione epico-mitica da un lato, alla vita quotidiana dall'altro, presenta una varietà di soggetti e di soluzioni iconografiche che consentono raffronti talvolta assai puntuali con diverse classi artigianali. Per giustificare la molteplicità delle fonti di ispirazione gli studiosi hanno ipotizzato l'uso di modelli di vario tipo: libri illustrati, «cartoni», calchi in gesso da opere toreutiche, ecc. (Koch, Sichtermann, 1982; Froning, 1980 e 1981). E che gli scalpellini che realizzavano le complesse raffigurazioni dei sarcofagi utilizzassero intermediarî tecnici, su cui torneremo anche più oltre, sembra dimostrato anche dal modo con cui le raffigurazioni complesse potevano essere scomposte o ricomposte: nei sarcofagi con il mito di Ifigenia in Tauride, p.es., sono state individuate otto scene originarie che sviluppano in sequenza temporale i momenti salienti della vicenda, ma che non compaiono necessariamente in ordine cronologico o in successione logica e vengono diversamente assemblate secondo il gusto dell'artigiano o del committente (Bonanno, 1993). Tuttavia la fedeltà iconografica dei gruppi originari sembra suggerire che vignette in serie completa o ridotta fossero a disposizione degli artigiani: diversamente non si spiegherebbe l'incoerenza di certe successioni narrative, evidentemente non più comprese dall'esecutore delle nuove sequenze.
Ma non sempre è necessario ricorrere all'ipotesi degli intermediarî tecnici: gli stessi sarcofagi infatti potevano divenire modello per successive creazioni, come risulta evidente nell'ambito del fenomeno delle copie locali di opere prodotte nelle officine attiche o urbane e successivamente esportate nelle varie località. Il sarcofago con battaglia alle navi, di cui ci è pervenuto un frammento conservato al museo di Torcello, p.es., fu verisimilmente copiato da un artigiano aquileiese da un originale attico importato ad Aquileia, di cui pure, significativamente, ci è pervenuta una piccola porzione (Ghedini, 1989).
Anche l'esecutore del rilievo aquileiese con Admeto e Alcesti copiò probabilmente i personaggi da un sarcofago attico con la raffigurazione del riscatto del corpo di Ettore nella redazione greco-orientale di cui s'è parlato: le due figure affrontate appaiono infatti così strettamente esemplate sulla coppia Hermes-Teti, da costringerci a presupporre una derivazione per copia diretta da un originale attico.
Analogamente il gruppo Priamo-Achille del sarcofago di Woburn Abbey (Kossatz-Deismann, 1981, η. 706), che si stacca nettamente dalla tradizione consolidata e presenta una soluzione figurativa chiaramente improntata al gruppo Ippolito-Nutrice del sarcofago di Tiro (Linant de Bellefonds, 1990, n. 86 ss., passim), è stato probabilmente realizzato copiando e reinterpretando lo schema originale.
Sembra dunque che, proprio per la varietà e la complessità delle raffigurazioni che si dispiegavano sulla cassa e sul coperchio, tale classe di manufatti si offra anche come osservatorio privilegiato per analizzare procedure di bottega altrimenti difficilmente ricostruibili.
L'analisi dei manufatti d'uso o di lusso che, circolando entro e oltre i confini dell'impero, consentivano la diffusione non solo dei soggetti ma anche degli schemi figurativi, potrebbe continuare ricordando p.es. la produzione glittica in cui il fenomeno della esecuzione in serie (per copia diretta: v. Dierichs, 1990, IV, 2, 3, 5) è meglio documentato che in altre categorie artigianali; nell'ambito di tale produzione emergono anche interessanti spunti di riflessione in merito al problema della specificità del repertorio e dell'interscambio con altre manifatture specializzate quali quelle toreutica e ceramica. Ma la moltiplicazione degli esempi poco aiuta a chiarire la reale consistenza del fenomeno: infatti, se è fuor di dubbio che gli oggetti mobili trasmettessero cultura figurativa e rendessero note anche particolari soluzioni iconografiche, meno agevole appare definire se e in che modo tali oggetti potessero fiingere da modello al di fuori della propria classe artigianale. Poiché sembra improponibile che un maestro mosaicista si mettesse a copiare un vetro, o uno scalpellino una gemma, per giustificare tangenze puntuali fra iconografie attestate in manufatti appartenenti a classi artigianali diverse, è necessario ipotizzare altri, più specifici mezzi di trasmissione, che potessero circolare non solo all'interno della bottega, ma anche fra botteghe diverse.
Il confronto con la pratica dei modelli in gesso, attestata per la scultura a tutto tondo, sembra decisamente orientare la ricerca consentendo di ipotizzare analoghe procedure anche per le arti figurative bidimensionali.
4. IntermediarÎ tecnici. - Modelli in gesso. - L'esistenza di calchi in gesso, riproducenti non solo opere statuarie, ma anche composizioni a carattere narrativo, è stata ampiamente confermata dai ritrovamenti di Begrām e Memfi e dai più recenti, ma non meno significativi, di Sabratha (Reinsberg, 1980; Barone, 1994). Tali calchi in gesso, desunti per lo più da opere toreutiche, sono considerati intermediarî tecnici privilegiati per la diffusione di iconografie ispirate al repertorio epico-tragico (Van der Meer, 1975, p. 183; Froning, 1980 e 1981; Burkhalter, 1992, p. 334 ss.), decorativo e anche storico (Hackin, 1954; Barone, 1994, tavv. LII s., CVII s.).
L'uso di tali calchi non doveva però essere limitato alle botteghe toreutiche, ma può essere plausibilmente esteso anche ad altre manifatture artigianali. Se, p.es., consideriamo la singolare iconografia del Ganimede seduto che offre da bere all'aquila, riprodotta su uno dei gessi di Begräm e la confrontiamo con quella attestata su alcune lucerne anatoliche e su gemme di varia provenienza (Sichtermann, 1988, nn. 146, 167; v. anche il tondo in terracotta da Heidelberg: ibid., n. 165), non si può non rilevarne la puntuale identità, che consente forse di ipotizzare che anche nelle officine ceramiche e glittiche potessero essere usati modelli in gesso (si ricordi a tale proposito la perfetta identità iconografica che si registra fra i gessi di Begräm con Diomede e Odisseo e le gemme con il medesimo soggetto). Lo stesso schema ricompare anche sull'altare funerario di Stazio Asclepiade (Sichtermann, 1988, n. 142), confermando la circolazione del modello anche nelle botteghe di scultori.
D'altronde la Froning ha fornito una ricca ed esauriente casistica dell'uso dei medesimi schemi figurativi negli argenti della prima età imperiale e nei sarcofagi di II e III sec. d.C. In particolare sembrano coincidere, come già s'è detto, le raffigurazioni ispirate alle tragedie: i gruppi di Fedra assistita dalla nutrice o di Medea che contempla i figli, negli schemi documentati nei sarcofagi urbani e attici, trovano rispettivamente riscontro in uno specchio da Pompei e nel kàlathos di Monaco, mentre il sacrificio dei prigionieri troiani ripropone la redazione della coppa d'argento di Monaco (Froning, 1980).
Un'ulteriore conferma dell'uso dei calchi in gesso per la trasmissione delle iconografie viene dai rilievi a carattere decorativo, dai vasi di marmo, dai candelabri, ecc. (Froning, 1981; Cain, 1985).
Tali intermediarî tecnici furono forse usati anche da pittori e mosaicisti: se infatti raffrontiamo l'Europa natante accanto al toro del gesso di Memfi (Reinsberg, 1980, n. 56, fig. 89) con alcuni affreschi pompeiani raffiguranti nello stesso schema Europa o Frisso o una Nereide; Icard- Gianolio, Szabados, 1992, n. 54), difficilmente possiamo sfuggire alla suggestione di ipotizzare che lo schema, che circolava nelle botteghe dei pittori, fosse stato recepito proprio attraverso un calco in gesso simile a quello egiziano. Analoghe considerazioni potrebbero essere fatte anche per giustificare l'assoluta identità che esiste fra la Nereide su toro marino del mosaico di Aquileia e quella del medaglione di Abukir (Ghedini, 1992 b, p. 307): i due monumenti così lontani nel tempo e nello spazio ebbero certamente un archetipo in comune, che pure potrebbe essere circolato proprio grazie a matrici in gesso da opere toreutiche (si ricordi che il diametro del medaglione è di quasi 6 cm).
Cartoni. - Fra i «vettori» di trasmissione delle iconografie i più citati, ma anche i più discussi, sono certamente i «cartoni» (Skizzenbücher, Musterbücher, cahiers des modèles), invocati dagli studiosi, a torto o a ragione, ogniqualvolta si registrano precise analogie iconografiche in opere rinvenute in località lontane o in manufatti appartenenti a diverse classi artigianali (a favore dell'esistenza dei cartoni si sono recentemente espressi, fra gli altri: Froning, 1980, p. 324 s.; Besques, 1984, p. 71 ss.; Nowicka, 1984, p. 257; Andersen, 1985; Balil, 1986; Brilliant, 1987, p. 42; Blanchard Lemée, 1988, p. 380; Cantino Wataghin, 1990, p. 279 ss.; Ling, 1991, p. 217 s.; e per l'età medievale: Vergnolle, 1984; contra Bruneau, 1984; Balmelle, Darmon, 1986, p. 246; Bruneau, 1988, p. 71 s.; Schmelzeisen, 1992, pp. 29 s., 175).
Anche i più accaniti nemici dei «cartoni» (Bruneau, 1984; Balmelle, Darmon, 1986) sembrano però sostanzialmente concordare sul presupposto che gli artigiani, prima della esecuzione di un'opera complessa oppure tecnicamente difficile da realizzare (stoffe, mosaici, argenti, ecc.), approntassero degli schizzi da sottoporre all'attenzione del committente e da usare poi come traccia in corso d'opera.
Dell'esistenza di tali schizzi (paradèigmata, exempla) abbiamo testimonianze significative: basti pensare al papiro Cairo Zenone 59665, in cui si parla di un mosaico a disegno figurato complesso (graphikòn ànthos) per l'esecuzione del quale si richiedeva il modello (Bruneau, 1980; Daszewski, 1985, p. 6 ss.); ancora un papiro (Cairo Zenone 59445) ci illumina sull'uso dei paradèigmata in pittura, dal momento che sottolinea come l'affresco del soffitto voltato di Diotimo doveva essere conforme al modello (o ì o v το παράϑειλμα; Nowicka, 1984). L'uso del modello è ben attestato anche nell'arte tessile: e non solo per le complesse raffigurazioni che ornavano il peplo di Atena, per la cui scelta si indiceva addirittura un concorso (cfr. Aristot., Ath. Pol., 49, 4), ma anche per più modesti drappi, quali quello che Diseris tessè su modello di Praxidike (Anth. Pai., VI, 136). In tale prospettiva sembra porsi anche la già ricordata testimonianza di Simmaco che richiede che l’exemplum gli venga inviato vel in tabulis vel in tegulis (Ep., VIII, 42, 2).
La pratica del disegno preparatorio è inoltre confermata da tutte quelle iscrizioni musive in cui espressamente si sottolinea che l'esecutore materiale dell'opera è persona diversa dal suo ideatore (Bruneau, 1984, p. 264 s.; Donderer, 1989), implicitamente presupponendo un modello da copiare.
Ciò detto, sembra difficile seguire il Bruneau nell'ipotesi che tale materiale preparatorio fosse immediatamente e sempre distrutto dopo l'uso e non potesse invece essere riutilizzato dall'autore stesso, dalla sua bottega oppure anche dal committente che poteva riservarsene il possesso. La distruzione dello schizzo preparatorio, oltre a essere una pratica decisamente antieconomica, sembra anche contraddetta dal passo pliniano relativo ai graphidis vestigia di Parrasio che, conservati in tabulis ac membranis, costituivano oggetto di studio da parte degli artisti («ex quibus proficere dicuntur artifices»: Plin., Nat. hist., XXXV, 168). E che gli schizzi dei grandi pittori potessero addirittura essere oggetto di esposizione lo conferma Petronio che nella pinacoteca visitata da Encolpio ricorda accanto a opere di Zeusi anche rudimenta Protogenis (Sat., 83).
Se le opere preparatorie dei grandi artisti erano oggetto di tale interesse o se i quadri più rinomati venivano copiati da pittori di più modeste qualità (Quint., Inst., X, 2, 6), non v'è motivo di dubitare che anche gli schizzi preparatori potessero venire conservati o all'interno della bottega o, in taluni casi, anche all'esterno di essa, divenendo materia di scambio o commercio. In tale prospettiva acquista spessore la testimonianza di Cassiodoro (Inst. div., I, 20, 3), in cui l'autore afferma di aver raccolto in un codice diversi tipi di composizione (multiplices facies facturarum), senza specificare se geometriche, floreali o figurate, ma sottolineando la loro funzione di modello per successive opere. Ciascun artigiano dunque e ciascuna bottega dovevano possedere un proprio patrimonio iconografico, che poteva essere soggetto ad ampliamento o riduzione nel corso degli anni e che verisimilmente comprendeva sia composizioni complesse riprodotte nei dettagli (si veda p.es. la perfetta identità iconografica e compositiva che esiste fra i mosaici di Orfeo di Henšīr Thina e Sāqiyet ez-Ziz: Liepmann, 1974, pp. 28, n. 33, 29, n. 60) sia schemi figurativi semplici (personaggio inginocchiato, figura femminile seduta), i quali grazie all'aggiunta degli attributi potevano servire a raffigurare soggetti diversi (Andersen, 1985, p. 122).
Scarse, ma non del tutto assenti, le testimonianze archeologiche: per la prima categoria possiamo p.es. citare il papiro del Victoria and Albert Museum T 15.1946 (Settis, 1982, p. 183), in cui troviamo raffigurato, con una scansione spaziale tipica della produzione musiva o tessile, Orfeo con gli animali entro un tondo inscritto in un quadrato (secondo taluni anche la raffigurazione di Amore e Psyche e l’abductio di Briseide sono da annoverare in tale categoria: v. supra tradizione letteraria: Illustrazioni da libri); per la seconda possiamo invece ricordare gli schizzi del papiro Vindobonense G 30509 (Andersen, 1985, p. 122).
Punzoni. - Fra i «vettori» di iconografie si possono annoverare anche i punzoni che venivano utilizzati nelle officine ceramiche per decorare piatti, coppe, vasi con raffigurazioni semplici o complesse. Tali punzoni che potevano, come le matrici, circolare o essere oggetto di scambio o commercio fra le botteghe (Hofmann, 1971), consentivano attraverso le diverse associazioni di creare composizioni variate, in analogia con quanto ipotizzato per i cartoni con silhouettes semplici.
I punzoni svolsero certamente un'importante funzione nella diffusione del patrimonio iconografico: in tal senso interessante appare il raffronto fra la Leda stante inseguita dal cigno di alcune coppe africane e il medesimo soggetto reso con analoga soluzione iconografica nel mosaico di Alcalá de Henares (Salomonson, 1969; Linant de Bellefonds, 1992, p. 237, n. 62).
Lo status quaestionis relativo al problema della t. i. si presenta ancora scarsamente definito e necessita di ulteriori approfondimenti: infatti, se la tradizione letteraria è apparsa determinante nella fase di formazione della cultura figurativa, se artigiani itineranti, oggetti d'uso e di lusso, illustrazioni da libri sono sembrati sufficienti per giustificare la larga circolazione non solo dei temi ma anche di determinate soluzioni figurative, e se per spiegare identità puntuali è stato necessario ricorrere all'ipotesi degli intermediarî tecnici (calchi in gesso, cartoni, punzoni), restano tuttavia ancora da chiarire le modalità d'uso di tali «vettori».
Per la soluzione di tale questione sembra necessario da un lato approfondire le problematiche inerenti all'organizzazione del lavoro all'interno della bottega, dall'altro verificare l'incidenza degli intermediarî nei casi di trasmissione interna a una classe di manufatti e nei casi di trasmissione fra classi artigianali differenti. A tale proposito, e in via del tutto preliminare, si potrebbe proporre una distinzione fra officine specializzate nella produzione in serie di manufatti trasportabili (p.es. sarcofagi, gemme, ecc.) e officine produttrici di opere legate invece al supporto architettonico (p.es. mosaici, affreschi, ecc.). Nel primo caso infatti, pur essendo gli intermediarî plausibilmente ipotizzabili, le iconografie si potevano trasmettere anche per copia diretta da un manufatto all'altro, mentre nel secondo l'uso dell'intermediario appare indispensabile, non sembrando plausibile l'ipotesi della riproduzione da oggetti mobili. Analoghe considerazioni possono valere anche per manufatti appartenenti a classi artigianali diverse che presentano iconografie identiche, sembrando anche in questo caso poco probabile la riproduzione da un oggetto all'altro.
Bibl.: In generale: T. Hölscher, Römische Bildsprache als semantisches System, Heidelberg 1987 (trad. it. Torino 1993); S. Settis, Un'arte al plurale. L'Impero romano, i Greci e i posteri, in Storia di Roma, IV, Torino 1989, pp. 827-878; G. Bejor, L'arte romana: centro e periferia, arte colta e arti plebee, in S. Settis (ed.), Civiltà dei Romani. Un linguaggio comune, Milano 1993, pp. 235-246; S. De Maria, Botteghe d'artisti, botteghe di copisti. Collezioni d'arte, ibid., pp. 219-234; C. Frugoni, Dall'iconografia pagana all'iconografia cristiana, ibid., pp. 247-256; F. Ghedini, L'arte romana: generi e gesti, ibid., pp. 161-178.
Produzione a tutto tondo: Ch. Landwehr, Die antiken Gipsabgüsse aus Baiae. Griechische Bronzestatuen in Abgüssen römischer Zeit, Berlino 1985; G. Barone, Gessi del Museo di Sabratha, Roma 1994.
Rilievo, pittura, mosaico: Ph. Bruneau, Les mosaïstes antiques avaient-ils des cahiers des modèles?, in RA, 1984, pp. 241-271.
Tradizione letteraria: T. B. L. Webster, Monuments Illustrating Old and Middle Comedy, Londra 1960; id., Monuments Illustrating New Comedy, Londra 1961; id., Monuments Illustrating Tragedy and Satyr Play, Londra 1962; A. D. Trendall, T. b. L. Webster, Illustrations of Greek Drama, Londra 1971; j. M. Moret,L'Ilioupersis dans la céramique italiote, Roma 1975; H. Lavagne, Le combat de Darès et Enteile (Eneide, V, 362-482) sur une mosaïque de Villelaure (Vaucluse), in Caesarodunum, XIII bis, 1978, pp. 133-146; I. Baldassarre, Piramo e Thisbe: dal mito all'immagine, in L'art décoratif à Ronfe â la fin de la république et au début du principal Table ronde, Rome 1979, Roma 1981, pp. 337-347; A. Kossatz- Deissmann, in LIMC, I, 1981, pp. 37-200, s.v. Achilleus, Ν. Horsfall, The Origins of the Illustrated Book, in Aegyptus, LXIII, 1983, pp. 199-216; F. Burkhalter, J. Arce, La coupe de Méroé. Une nouvelle étude iconographique et historique, in BCH, CVIII, 1984, pp. 407-423; F. G. Andersen, Pompeian Painting. Some Practical Aspects of Creation, in AnalRom, XIV, 1985, pp. 114-127; F. Gury, La forge du destin. A propos d'une série de peintures pompéiennes du IVe style, in MEFRA, XCVIII, 1986, pp. 427-489; J. A. Heffernan, Ekphrasis and Representation, in New Literary History, XXII, 1991, pp. 297-316; R. Ling, Roman Painting, Cambridge 1991; F. Ghedini, Caccia e banchetto: un rapporto difficile, in RdA, XVI, 1992, pp. 72-88; H. Lavagne, Aix-en-Provence: la domus de la rue des Magnans et la mosaïque de Darès et Enteile, in Gallia, LI, 1994, pp. 203-215; N. Bryson, Philostratus and the Imaginary Museum, in S. Goldhill, R. Osborne (ed.), Art and Text in Ancient Greek Culture, Cambridge 1994, pp. 255-283; S. Goldhill, Ekphrasis and the Culture of Viewing, ibid., pp. 197-223; F. I. Zeitlin, The Artful Eye: Vision Ekphrasis and Spectacle in Euripidean Theatre, ibid., pp. 138-196. - Illustrazioni di libri: S. Kharitonidis, L. Kahil, R. Ginouvès, Les mosaïques de la Maison du Ménandre à Mytilène (AntK, Suppl. 6), Berna 1970; E. Kitzinger, Observations on the Samson Floor at Mopsuestia, in DOP, XXVII, 1973, pp. 133-144; E. G. Turner, The Charioteers fromAntinoe, in JHS, XCIII, 1973, pp. 192-195; K. Schefold, Bilderbücher als Vorlagen römischer Sarkophage, in MEFRA, LXXXVIII, 1976, pp. 759-797; V. Strocka, Die Wandmalerei der Hanghäuser in Ephesos (Forschungen in Ephesos, VIII, 1), Vienna 1977; P. G. P. Meyboom, Some Observations on Narration in Greek Art, in MededRom, XL, 1978, pp. 55-82; U. Sinn, Die homerischen Becher (AM, Suppl. 7), Berlino 1979; G. Frangini, M. L. Martinelli, Una scena della storia di Briseide: il pap. Monacense 128 e la tradizione iconografica, in Prospettiva, 25, 1981, pp. 4-13; K. Weitzmann, An Enamelled Glass Beaker with a Scene from New Comedy, in AntK, XXIV, 1981, pp. 39-49; A. Daviault, J. Lancha, L. A. Lòpez Palomo, Un mosaico con inscripciones, Puente Genii (Córdoba), Madrid 1987; M. Donderer, Die Mosaizisten der Antike und ihre wirtschaftliche und soziale Stellung. Eine Quellenstudie, Erlangen 1989; G. Cavallo, Libro e cultura scritta, in Storia di Roma, IV, cit., pp. 693-734; id., Gli usi della cultura scritta nel mondo romano, in AA.VV., Princeps urbium, Amilano 1991, pp. 171-253; L. Bacchielli, Pittura funeraria antica in Cirenaica, in LibSt, XXIV, 1993, pp. 77-116; D. Fernandez Galiano, The Villa of Maternus at Carranque, in Vth International Colloquium on Ancient Mosaics, Bath 1994, pp. 200-210; Τ. Ivanov, Römische Mosaiken aus Colonia Ulpia Oes- censium, in La mosaïque gréco-romaine, IV, Trêves 1984, Parigi 1994, pp. 155-164.
Artigiani itineranti: H. Stem, Les mosaïques de la Grande Mosquée de Cordoue, Berlino 1976; K. M. D. Dunbabin, The Mosaics of Roman North Africa. Studies in Iconography and Patronage, Oxford 1978; J. P. Sodini, L'artisanat urbain à l'époque paléochrétienne (IV-VII s.), in Ktema, IV, 1979, pp. 71-119; J. P. Darmon, Les mosaïques en Occident, in ANRW, II, 12, 2, 1981, pp. 266-319; J. Lancha, Florilège viennoise, in Mosaïque. Recueil d'hommages à H. Stern, Parigi 1983, pp. 245-251; C. Balmelle, J. P. Darmon, L'artisan mosaïste dans l'antiquité tardive, in Artistes, artisans et production artistique au Moyen Age, Parigi 1986, pp.235-249; H. Eristov, Peinture romaine et textes antiques. Informations et ambiguïtés. A propos du «RecueilMilliet», in RA, 1987, pp. 109-123; Ph. Bruneau, Philologie mosaïstique, ïnJSav, 1988, pp. 3-73; D. Joly, Mosaïque africaine et mosaïque italienne. Quelques réflexions à propos de certains ornements, in Hommenaje a García y Bellido, V, Madrid 1988, pp. 169-211; M. Donderer, Die Mosaizisten der Antike..., cit.; F. Queyrel, C. Ofellius Férus, in BCH, CXV, 1991, pp. 389-464.
Oggetti mobili. - Stoffe: H. Schmidt, in EUA, XIII, 1965, cc. 868-870, s.v. Tessuti-, L. Del Francia, Un tessuto copto con nascita di Afrodite, in N. Bonacasa (ed.), Alessandria e il mondo ellenistico-romano. Studi in onore di A. Adriani, II, Roma 1984, pp. 209-221; G. Cantino Wataghin, La produzione musiva in Alto Adriatico e Mediterraneo, in Aquileia e l'arco adriatico (Antichità altoadriatiche, XXXVI), Udine 1990, pp. 269-298; F. Ghedini, Iconografie urbane e maestranze africane nel mosaico della Piccola Caccia di Piazza Armerina, in RM, XCVIII, 1991, pp. 323-335; G. Calcani, L'antichità marginale. Continuità dell'arte provinciale nel Rinascimento, Roma 1993; F. Ghedini, Il mosaico con «trionfo» di Venere dalla c.d. domus dei Dioscuri a Ostia, in Atti del II Colloquio AISCOM, Roma 1994, Bordighera 1995, pp. 301-310; S. Toso, Il «Trionfo di Venere». Una nuova proposta di classificazione iconografica, ibid., pp. 293-300; F. Ghedini, Cultura figurativa e trasmissione dei modelli: le stoffe, in RdA, XIX, 1995. - Vetri: L. Guimond, in LIMC, I, 1981, pp. 454-469, s.v. Aktaion-, D. B. Harden (ed.), Glass of the Caesars, Milano 1987. - Manufatti toreutici: E. Simon, Nonnos und das Elfenbeinkästchen aus Veroli, in Jdl, LXXVI, 1964, pp. 279-336; H. Froning, Die ikonographische Tradition der kaiserzeitlichen mythologischen Sarkophagreliefs, ibid., XCV, 1980, pp. 322-341; V. M. Strocka, Sepulkral-Allegorie auf dokimeischen Sarkophagen, in MarbWPr, 1984, pp. 197-241; J. Balty, Notes d'iconographie dionysiaque: la mosaïque de Sarrin (Osrhoène), in MEFRA, CHI, 1991, pp. 19-33; F· Baratte, Les ateliers d'argenterie dans l'antiquité tardive. Données actuelles, in G. Sena Chiesa (ed.), Milano capitale dell'impero. Felix Temporis Reparatio, Milano 1992, pp. 87-101; M. D'Abruzzo, Una pasta vitrea da Aitino e il mito di Danae: osservazioni sull'iconografia, in RdA, XVII, 1993, pp. 18-31; Β. M. Scarfì, Le quattro basi figurate in Via 5 Giornate, in Novum Comum 2050, Como 1993, pp. 151-162; H. Sichtermann, Bellerophon auf attischen Sarkophagen, in G. Koch (ed.), Grabeskunst der römischen Kaiserzeit, Magonza 1993, pp. 51-66. - Produzione ceramica: E. Ettlinger, Arretina und augusteischer Silber, in Gestalt und Geschichte. Festschrift K. Schefold, Berna 1967, pp. 115-119; M. Lawrence, The Birth of Venus in Roman Art, in Essays in the History of Art Presented to R. Wittkower, Londra 1967, pp. 10-16; A. H. Borbein, Campanareliefs. Typologische und Stilkritische Untersuchungen (RM, Suppl. XIV), Heidelberg 1968; K. Schauenburg, in LIMC, I, 1981, pp. 774-790, s.v. Andromeda; E. Di Filippo Balestrazzi, Lucerne del Museo di Aquileia, II, 2, Fiume Veneto 1988; A. Dierichs, Leda-Schwan-Gruppen in der Glyptik und ihre monumentalen Vorbilder, in Boreas, XIII, 1990, pp. 37-50; P. Linant de Bellefonds, in LIMC, VI, 1992, pp. 231-246, s.v. Leda. - Emblèmata: K. Parlasca, Hellenistische und römische Mosaiken aus Ägypten, in La mosaïque gréco-romaine, II, Parigi 1975, pp. 363- 369; A. Balil, Emblèmata, in Studia Archaeologica, XXXIX, 1976, pp. 3-27; S. F. Sear, Roman Wall and Vault Mosaics (RM, Suppl. XXIII), Heidelberg 1977; M. Donderer, Ein verschollenes römische Mosaik und die Gattung der Wandemblemata, in Mosaïque. Recueil d'hommage Stern, cit., pp. 123-128; O. Wattel de Croizant, L'enlèvement d'Europe sur la pseudo épave de Cannes et le problème des «emblemata voyageurs», in Archaeonautica, VI, 1986, pp. 200-215; H. Lavagne, Operosa antra. Recherches sur la grotte à Rome, de Sylla à Hadrien, Roma 1988; S. Angelucci e altri, Sepolture e riti nella necropoli di Ostia, in BA, 5-6, 1990 pp. 49-113; Sarcofagi: H. Froning, Marmor-Schmuckreliefs mit griechischen Mythen, Magonza 1981; G. Koch, H. Sichtermann, Römische Sarkophage, Monaco 1982; F. Ghedini, Un frammento di sarcofago con battaglia alle navi nel Museo Provinciale di Torcello, in AquilNost, LX, 1989, cc. 193-206; P. Linant de Bellefonds, in LIMC, V, 1990, pp. 445-464 s.v. Hippolytos I; M. Bonanno, Il mito di Ifigenia nei sarcofagi attici, in G. Koch (ed.), Grabeskunst der römischen Kaiserzeit, cit., pp. 67-76.
Intermediari tecnici. - Modelli in gesso: C. Bernardi, I Niketeria, in Rivlt- Num, XVIII, 1970, pp. 79-90; L. B. van der Meer, Archetype. Transmitting Model. Prototype. Studies of Etruscan Urns from Volterra, in BABesch, L, 1975, pp. 179-186; C. Reinsberg, Studien zur hellenistischen Toreutik, Hildesheim 1980; F. Burkhalter, Moulages en plâtre antiques et toreutique alexandrine, in N. Bonacasa (ed.), Alessandria e il mondo ellenistico-romano, II, cit., pp. 334-347; H.-U. Cain, Römische Marmorkandelaber, Magonza 1985; M. Donderer, Die Chronologie der römischen Mosaiken in Venetien und Histrien bis zur Zeit der Antonine, Berlino 1986; H. Sichtermann, in LIMC, IV, 1988, pp. 154-170, s.». Ganymedes; F. Ghedini, L'età romana, in Storia di Venezia, I. Origini. Età ducale, Roma 1992, pp. 271-320; Ν. Icard-Gianolio, Α. V. Szabados, in LIMC, VI, 1992, pp. 785-824, s.v. Nereides. - Cartoni: U. Liepmann, Ein Orpheusmosaik im Kestner Museum zu Hannover, in Niederdeutsche Beiträge zur Kunstgeschichte, XIII, 1974, pp. 9-36; Ph. Bruneau, Le devis de pose de mosaïques: le papyrus Cairo Zen. 59665, ίηΣτηλη. Τομος εις μνημην Ν. Κοντολεοντος, Atene 1980, pp. 134-1435 S. Settis, «Ineguaglianze» e continuità: un'immagine dell'arte romana, in O. J. Brendel (ed.), Introduzione all'arte romana, Torino 1982, pp. 161- 200; S. Besques, Quelques problèmes concernant les transferts de thèmes dans la coroplathie du monde méditerranéen, in BAntFr, 1984, pp. 71-81; E. Vergnolle, Un carnet de modèles de l'an mil originaire de Saint Benoit sur Loire, in Arte medievale, II, 1984, pp. 23-52; M. Nowicka, Théophilos, peintre alexandrin et son activité, in N. Bonacasa (ed.), Alessandria e il mondo ellenistico-romano,II, cit., pp. 256-259; W. A. Daszewski, Corpus of Mosaics from Egypt, I. Hellenistic and Early Roman Period, Magonza 1985; A. Balil, El oficio del musivario, in BVallad, LII, 1986, pp. 143-161; R. Brilliant, Narrare per immagini, Firenze 1987; M. Blanchard Lemée, A propos des mosaïques de Sidi Ghrib, in MEFRA, C, 1988, pp. 367-384; K. Schmelzeisen, Römische Mosaiken der Africa Procon- sularis, Francoforte 1992. - Punzoni: J. W. Salomonson, Spätrömische rote Tonware mit Reliefverzierung aus nordafrikanischen Werkstätten, in BABesch, XLIV, 1969, pp. 4-109; Β. Hofmann, Les relations entre potiers, fabricants de moules et artistes producteurs de poinçons, in ReiCretRomFautActa, XIII, 1971,pp. 5-17.
(E. F. Ghedini)