Trasformismo
Il trasformismo 'storico'
Il termine trasformismo entrò nel linguaggio politico italiano tra la fine del 1882 e l'inizio del 1883 per definire, con chiaro intento polemico, la politica di accordo con la destra moderata e di convergenza verso il centro inaugurata in quel periodo dal presidente del Consiglio, e leader della sinistra, A. Depretis. Il vocabolo, per la verità, era stato usato per la prima volta qualche anno prima - con quello stesso significato, ma con connotazione positiva - da un esponente della destra moderata, C. Alfieri di Sostegno (Del trasformismo parlamentare era il titolo di un opuscolo del 1874). La fortuna della parola, e insieme il suo uso polemico, ebbero però origine da un'espressione pronunciata dallo stesso Depretis in un discorso tenuto a Stradella l'8 ottobre 1882, nell'imminenza delle prime elezioni politiche a suffragio 'allargato' che si sarebbero tenute di lì a due settimane. In risposta a coloro che criticavano gli accordi da lui stipulati in campagna elettorale con la destra moderata di M. Minghetti e lo accusavano di aver così snaturato il programma della sinistra, Depretis si giustificava con una frase destinata a restare celebre: "Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?".
Che gli uomini della destra moderata si fossero trasformati, o si stessero trasformando, in progressisti era affermazione quanto meno opinabile. A subire un'evoluzione in senso opposto, e dunque in qualche misura a 'trasformarsi', erano stati piuttosto gli uomini della sinistra parlamentare. Chiusasi la parentesi progressista dei governi Cairoli, esauritasi, con l'approvazione della nuova legge elettorale, la stagione delle riforme, gli eredi della sinistra risorgimentale apparivano soprattutto preoccupati di rafforzare le loro basi di consenso e di garantire al tempo stesso la solidità delle istituzioni nel segno di un liberalismo moderato non molto diverso, nella sostanza, da quello dei loro antichi rivali. Ad accentuare le loro preoccupazioni contribuivano, da un lato, le sempre più visibili manifestazioni di un nuovo dissenso politico e sociale che stava trovando proprio allora nuove e più definite forme organizzative; dall'altro, le possibili conseguenze della riforma elettorale che loro stessi avevano voluto e che, accrescendo di tre volte il corpo elettorale, lo mutava anche dal punto di vista qualitativo, rendendolo in questo modo meno controllabile.
Da qui la spinta a superare gli schieramenti tradizionali e a dar vita a una nuova grande maggioranza 'centrista' teoricamente inattaccabile e capace dunque di garantire l''area della legittimità' dalle possibili incursioni delle forze antisistema. L'accordo si attuò in parte già nella campagna elettorale del 1882: grazie anche al meccanismo dei collegi plurinominali introdotto dalla nuova legge, numerosi furono i casi di convergenza fra destra e sinistra sul nome di uno o di più candidati. La consacrazione ufficiale della nuova maggioranza si ebbe però nel maggio del 1883 con la formazione del v ministero Depretis, che era appoggiato ufficialmente da una parte cospicua della vecchia destra.
l trasformismo come categoria morale
L'operazione politica avviata da Depretis aveva dunque scopi evidenti di stabilizzazione. Ciò non toglie che, almeno nelle intenzioni del suo principale promotore, essa si iscrivesse in una logica come pure in una cultura di segno positivista e moderatamente progressista.
L'accenno di Depretis alla 'trasformazione' non solo alludeva a una tendenza ormai in atto da molti anni, che invocava il superamento delle vecchie divisioni nel nome degli interessi nazionali, ma rinviava anche a un contesto lessicale e culturale in cui il termine trasformazione (come quello di evoluzione) acquistava una connotazione implicitamente positiva. Questa connotazione risultò capovolta nel passaggio al derivato trasformismo, che divenne immediatamente sinonimo di politica senza principi, di amoralità, di sostanziale corruzione. Già nel gennaio 1883, in un articolo apparso sul Don Chisciotte di Bologna, G. Carducci dava del fenomeno una definizione caustica, anticipando significativamente una condanna destinata a entrare nel senso comune: "Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri […]".
Un simile slittamento semantico è peraltro comune a molti termini del linguaggio politico, in particolare al coevo opportunismo, calco del termine francese opportunisme: coniato allo scopo di indicare una politica sostanzialmente analoga, sia nella pratica sia nelle motivazioni, a quella avviata in Italia da Depretis. Se opportunismo è diventato un termine universale - ricorrente soprattutto nel linguaggio e negli schemi mentali del movimento operaio - quella di t. è invece rimasta una categoria tipicamente italiana, spesso assunta addirittura a elemento cardine del carattere nazionale: il t. come vizio italico, come segno di un'inclinazione, maturata attraverso i secoli, a non prendere troppo sul serio le fedi e le ideologie, ma anche, in positivo, come manifestazione di uno speciale talento applicato alla capacità sia di adattamento sia di sopravvivenza. Italiano era del resto il più famoso 'trasformista' di tutti i tempi: ossia quel L. Fregoli, attore livornese nato nel 1867 e morto nel 1936, la cui specialità consisteva nel cambiare abito e trucco con prodigiosa rapidità. Il suo lungo e indiscusso successo sulle scene di mezzo mondo contribuì certamente alla fortuna del vocabolo e anche alla piegatura semantica che lo identificava in buona sostanza con l'abitudine a mutar casacca con disinvoltura: donde l'uso improprio dei termini trasformismo e trasformista in riferimento al passaggio di uomini o gruppi politici da uno schieramento all'altro.
L'interpretazione morale, opure moralistica, del t. traeva in verità alimento da alcuni dati reali, relativi ai caratteri assunti dalla pratica di governo e dalla lotta politica in Italia dopo la svolta del 1882-83. Il venir meno di ogni discriminante ideologica e programmatica fra i due maggiori schieramenti in campo ebbe come effetti un visibile degrado del dibattito politico nella 'grande maggioranza' costituzionale e il trasferimento delle funzioni proprie dell'opposizione a forze non pienamente legittimate (l'Estrema radicale, repubblicana e poi socialista) o a gruppi eterogenei o marginali, pronti peraltro a rientrare alla prima occasione nel gioco delle combinazioni ministeriali (i dissidenti della sinistra o le ali intransigenti della vecchia destra). La necessità per l'esecutivo - non più sorretto da una maggioranza in qualche modo precostituita - di costruirsi la sua base di consenso giorno per giorno, mediando fra gruppi di pressione e interessi locali, non giovò certamente alla qualità dell'azione di governo né alla trasparenza dei processi decisionali. La combinazione fra queste maggioranze e un apparato statale fortemente accentrato esaltava l'intreccio triangolare fra i singoli deputati, il governo e una pubblica amministrazione da sempre poco portata a interpretare il ruolo assegnatole in modo imparziale.
Il trasformismo come scelta di sistema
Questi fenomeni, che peraltro furono solo accentuati e non creati dalla prassi trasformistica, non vanno però considerati, in un'ottica essenzialmente deprecatoria, solo in quanto manifestazioni di malcostume e fomite di corruzione. Essi erano invece la conseguenza di un determinato assetto istituzionale e il risultato di alcune precise scelte politiche. Scelte sicuramente opinabili e forse non coraggiose, ma non prive di motivazioni serie: in quel periodo, la fedeltà alle istituzioni delle forze escluse dall'area della legittimità (estrema sinistra da un lato, cattolici dall'altro era tutt'altro che scontata; e l'Italia, che era stata unificata da appena un ventennio, aveva un disperato bisogno di rispettabilità anche internazionale (il 1882 è non soltanto l'anno della riforma elettorale, ma anche quello della Triplice alleanza). Dunque, ciò che spingeva i moderati di ambo le parti a far blocco al centro era non tanto una smodata brama di potere, quanto un eccesso di prudenza.
Inteso in questo senso ampio, il t. non è certamente un fenomeno solo italiano. Le sue origini si possono rintracciare nella teoria e nella pratica del juste milieu guizotiano ai tempi della monarchia di luglio (1830-1848): un modello, questo, a cui, pur dandone un'interpretazione dinamica, esplicitamente si ispirò C. Cavour nel promuovere, nel 1852, la politica del 'connubio'. A livello di teoria costituzionale, il t. trovava una sorta di giustificazione preventiva nelle opere del giurista svizzero J.K. Bluntschli, autore, nel 1869, di un fortunato trattato di politica, Charakter und Geist der politischen Parteien (trad. it. 1869), in cui si sosteneva tra l'altro la necessità dell'unione fra i partiti medi, ossia conservatori e liberali, al fine di impedire la prevalenza di quelli estremi (reazionari e radicali) nella conduzione dello Stato.
Il principale campo di applicazione di queste teorie - e anche il più importante precedente del t. depretisiano - deve sicuramente essere individuato nella Francia degli esordi della Terza Repubblica: la cui nascita - a partire dalla tribolata approvazione da parte dell'Assemblea nazionale delle lois constitutionelles nel 1875 - si dovette a un accordo fra i 'centri' (monarchici orleanisti e repubblicani moderati). La storia politica della Francia repubblicana conobbe, è vero, un dinamismo maggiormente pronunciato rispetto a quella dell'Italia liberale e consentì persino un blando simulacro di alternanza fra coalizioni a prevalenza conservatrice e alleanze a tinta progressista. I due sistemi politici funzionavano in modo molto simile. Analoghe erano, in primo luogo, le cause di fondo che, nei due Paesi, facevano apparire praticamente obbligata la via dell'unione dei centri e che rinviavano implicitamente all'assenza, o all'insufficienza, di un quadro di legittimità comunemente accettato. Analoghe, nella sostanza, erano anche le conseguenze pratiche: mobilità delle maggioranze, instabilità degli esecutivi, scarsa trasparenza dei processi decisionali, corruzione politica favorita dall'assenza di quel fondamentale correttivo rappresentato dall'alternanza di governo per via elettorale.
Visto in questa ottica, il t. del nostro Paese appare niente più che la versione italiana di un modello di governo, come di sistema politico, affermatosi in molti regimi parlamentari europei del tardo Ottocento in alternativa a quello tendenzialmente bipartitico sviluppatosi nei Paesi anglosassoni: dunque qualcosa di simile al 'modello consensuale' che è stato definito in epoca recente da A. Lijphart (1984) in opposizione al 'modello Westminster'.
La notevole fortuna incontrata da questo modello va ricondotta in primo luogo alla lentezza e alla difficoltà del processo di impianto sul continente delle istituzioni parlamentari e della 'democrazia liberale'. Il problema, infatti, non sussisteva nemmeno nei regimi autoritari, o semiautoritari, del centro-Europa, dove i governi potevano in qualche misura prescindere dall'appoggio delle assemblee rappresentative. Laddove, invece, la sorte del potere esecutivo era in vario modo collegata alle manifestazioni della volontà popolare, tanto più se espresse attraverso forme di suffragio allargato o universale, l'esigenza di proteggere le maggioranze parlamentari dalla possibile prevalenza delle tendenze estremiste si imponeva come prioritaria. Soprattutto nei Paesi - ed erano i più - nei quali ampie erano le fratture politico-ideologiche (o anche religiose oppure etnico-linguistiche, si veda, per es., il caso del Belgio), forte l'eredità dei conflitti passati e debole il consenso alle istituzioni, la competizione bipolare propria del modello anglosassone appariva troppo pericolosa, in quanto era ritenuta, a torto o a ragione, capace di rivelare e di approfondire lacerazioni e fratture preesistenti e di offrire più larghi spazi di intervento alle forze della rivoluzione come pure a quelle della reazione assolutistica.
Nati, come si è visto, allo scopo di rispondere a un'esigenza legittima, in una fase in cui le istituzioni liberal-democratiche stavano muovendo in molti Paesi i primi passi, i sistemi lato sensu trasformistici mostrarono nel corso del tempo una spiccata tendenza all'autoperpetuazione. Le grandi maggioranze centriste tendevano, infatti, fatalmente a usurarsi e, contraddicendo lo scopo originario per cui erano sorte, lasciavano spazi via via sempre più larghi, sulle loro ali estreme, allo sviluppo di opposizioni 'irresponsabili', la cui crescita, a sua volta, serviva a ribadire l'esigenza di fare blocco al centro. Il sistema sopravviveva ammettendo nell'area della legittimità singole componenti delle opposizioni, che, nel momento in cui si costituzionalizzavano, erano però sostituite da nuove forze radicali. Il ricambio avveniva dunque attraverso meccanismi di cooptazione e di esclusione, mai mediante un fisiologico processo di alternanza per via elettorale: il che certamente non giovava né alla funzionalità del sistema, né alla sua moralità. Proprio in Italia, Paese d'origine del t. 'storico', questo schema ha trovato le applicazioni più integrali e più sistematiche: tanto da informare di sé, pur nell'alternarsi delle leggi elettorali e degli assetti istituzionali, oltre un secolo di storia politica del Paese.
Trasformismo e storia d'Italia
Se il t. inteso in senso etico (oppure addirittura come dato antropologico) ha un significato soprattutto polemico, e certo non aiuta molto a capire la storia italiana, il t. inteso nel senso 'sistemico' appena descritto si rivela invece una chiave utile per leggere la vicenda politica nazionale in un'ottica di lungo periodo. Nel caso del nostro Paese, infatti, alla naturale tendenza del sistema all'autoperpetuazione, si aggiunse l'anomala persistenza di quei fattori di debolezza del tessuto politico-istituzionale (forti contrasti ideologici e anche ampie fratture sociali, carenza di valori generalmente condivisi, presenza di agguerrite opposizioni antisistema) che si è visto essere all'origine della tendenza a far blocco al centro.
L'operazione varata da Depretis nel 1882 assunse così un carattere irreversibile. Anche dopo la fine del t. 'storico', che viene comunemente fatta coincidere con la morte di Depretis (luglio del 1887) e l'ascesa di F. Crispi alla presidenza del Consiglio, l'assetto del sistema non cambiò e continuò a fondarsi su una 'grande maggioranza' che non solamente occupava in modo ben saldo il centro dello schieramento politico, ma coincideva, almeno in teoria, con l'area della legittimità costituzionale e dunque non ammetteva alternative se non traumatiche. Per rompere quello schema, la classe dirigente liberale avrebbe dovuto dividersi secondo una netta linea di separazione fra conservatori e progressisti: tutto ciò non poteva, però, essere messo in atto se non a prezzo di fare entrare all'interno del gioco politico (in una funzione determinante e non soltanto subalterna) le forze cattoliche e socialiste, la cui lealtà nei confronti delle istituzioni continuava a essere, a dir poco, quanto meno dubbia. Nei primi anni del secolo parve, per la verità, che G. Giolitti e S. Sonnino si presentassero come i possibili leader, in ambito liberale, di due schieramenti alternativi, ispirati a programmi contrapposti. In realtà Giolitti e Sonnino, come peraltro avevano fatto prima di loro Crispi e A. di Rudinì, utilizzavamno i loro programmi per proporsi come capi non già di due maggioranze diverse, ma della stessa 'grande maggioranza' liberale, occasionalmente allargata a questo o a quello spezzone delle forze già escluse dall'area della legittimità.
Il sistema fondato sulla 'grande maggioranza' superò bene la prova del suffragio 'quasi universale' maschile (grazie anche all'escamotage del patto Gentiloni, che permise alla classe dirigente di utilizzare a proprio vantaggio almeno una parte del voto cattolico). E sopravvisse persino alla gravissima spaccatura apertasi nell'area liberale sulla questione dell'intervento nella Grande guerra. Entrò in crisi a guerra finita, non per i contrasti interni alla maggioranza costituzionale, ma per l'improvviso venir meno di quella maggioranza in seguito all'esito traumatico delle elezioni del novembre 1919.
La perdita dell'autosufficienza da parte della classe dirigente di matrice risorgimentale non costituiva la premessa di un nuovo sistema, alternativo a quello vecchio. Al contrario, la presenza minacciosa in Parlamento di una fortissima opposizione antisistema obbligava tutte le altre forze a confluire in una stessa maggioranza per dare al Paese un qualsivoglia governo. Le ultime maggioranze parlamentari dell'età liberale furono dunque anch'esse trasformiste in senso lato: vale a dire nel senso che erano prive di alternative, non avevano una connotazione programmatica precisa e, infine, erano guidate da una logica di mera sopravvivenza. Quelle maggioranze, tuttavia, non potevano più disporre di alcuni strumenti classici del vecchio t. (ossia il rapporto personale, non mediato dalle strutture partitiche, fra il capo del governo e i singoli deputati, il legame fra il deputato e il suo stesso collegio); e mancavano di quel tanto di omogeneità che la comune matrice liberal-risorgimentale aveva bene o male assicurato alle maggioranze prebelliche: causa peraltro non ultima, questa, del collasso funzionale dell'intero sistema e della conseguente ascesa al governo di B. Mussolini.
Lo stesso Mussolini dopo aver fondato il suo primo esperimento di governo sulla preesistente maggioranza liberal-popolare, si fece, peraltro, promotore di una riforma elettorale la quale prevedeva, come condizione per il successo del fronte governativo, la concentrazione di tutte le forze autenticamente 'nazionali' in un unico 'listone'. Quella realizzata con la legge Acerbo del 1923 e poi con le elezioni del 1924 fu certo molto più che una semplice operazione trasformista. Essa fu però grandemente facilitata da una tradizione politica che considerava normale la concentrazione di tutte le forze 'sane' in un unico blocco. Questa tendenza di fondo non mutò nella sostanza nemmeno dopo la caduta del fascismo e la riconquista delle libertà democratiche. A guerra conclusa, parve naturale che i partiti che avevano guidato la lotta di liberazione (o almeno i maggiori fra di essi) continuassero a governare insieme il Paese. Quando, nel 1947, la coalizione tripartita si ruppe per iniziativa di A. De Gasperi, le sinistre furono espulse non solo dal governo, ma anche da una ridefinita area della legittimità, entro la quale sarebbero poi state riammesse in tempi e modi diversi (i socialisti con il centro-sinistra, e di contro i comunisti con la solidarietà nazionale), contestualmente al loro ingresso nelle maggioranze governative: senza mai assumere dunque la figura del polo alternativo in un quadro di opposizione costituzionale.
Leggere la storia politica repubblicana nella sola chiave della continuità con il vecchio t. sarebbe riduttivo, oltre che scorretto. Il modello originario si fondava, come si è visto, su maggioranze mobili costruite giorno per giorno attraverso gli accordi con i singoli deputati o con i gruppi di interesse locali: il tutto in assenza di schieramenti partitici e di gruppi parlamentari fortemente strutturati. Quello della 'democrazia dei partiti' attuato in età repubblicana (e già parzialmente sperimentato negli anni successivi alla Primo conflitto mondiale) era un modello rigido, i cui equilibri erano in larga parte predeterminati in base alle intese di vertice fra le segreterie. La rigidità del sistema e la solidità delle maggioranze da esso espresse risultavano però attenuate a causa della frammentazione partitica, favorita dalla legge elettorale proporzionale, nonché delle divisioni interne alle formazioni politiche maggiori: ragion per cui, nella pratica, la vita dei governi era legata a un complicato gioco di mediazioni fra partiti e fra correnti che aveva qualche punto di contatto con quello attuato dai leader parlamentari dell'Italia prefascista. Restava inoltre come costante immutabile, la sostanziale inamovibilità delle coalizioni di governo, instabili e anche conflittuali, ma pur sempre inattaccabili per via elettorale, e suscettibili di cambiamento solamente attraverso meccanismi sia di cooptazione sia di esclusione.
La 'rivoluzione maggioritaria' dei primi anni Novanta del 20° sec. - segnata soprattutto dall'esito vittorioso conseguito con il referendum del 1993 sull'elezione del Senato - aveva per obiettivo proprio la rottura di questo modello e l'avvento di una democrazia bipolare di stampo anglosassone. Il tempo potrà dire se e in quale misura l'obiettivo sia stato raggiunto. È certo comunque che le resistenze soggettive e gli ostacoli oggettivi con cui si è dovuto misurare il processo di transizione verso un modello compiuto di democrazia dell'alternanza vanno in larga parte attribuiti all'eredità del t.: inteso come scelta di sistema e non come mera espressione di un costume politico.
bibliografia
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