trascendenza
La proprietà o la qualità di qualcosa che si trova al di là, va oltre un determinato ambito, e in questo senso è l’opposto di immanenza, che indica invece ciò che si risolve o permane dentro un ambito specifico.
Già Platone, nella Repubblica (➔) (VI, 509 b), aveva parlato del Bene come principio «che è al di là dell’essere», introducendo una terminologia che i filosofi neoplatonici imporranno per definire la caratteristica propria dell’Uno: per Plotino l’Uno «è al di là dell’essenza, principio di essa» (Enneadi, VI, 8, 19) e come Bene è al di là del tutto, che pure produce, senza averne bisogno (ivi, V, 5, 12). Già nella più antica tradizione della terminologia filosofica latino-medievale s’incontra il verbo transcendere (o, con grafia meno usata ma più rispondente all’etimologia, transscendere), adoperato nel suo originario senso di «salire al disopra», «superare», per designare ogni rapporto di netta superiorità o superamento realizzato da parte di una sfera della realtà gnoseologica o metafisica rispetto a un’altra. Così, per es., Agostino esorta a trascendere anche il se ipsum quando, tornati in sé stessi, si sia avvertita mutevole anche la propria natura (De vera religione, 39), mentre in Boezio la ragione transcendit l’oggetto dell’immaginazione. Sotto certi aspetti, il transcendere è proprio dell’attività gnoseologica che oltrepassa, nella sua ascesa, una data sfera reale o ideale per attingerne una superiore. Tuttavia questo significato si estende dal campo soggettivo a quello oggettivo, e il transcendere viene riferito alle stesse realtà sia in quanto ontologicamente sovrastano altre realtà sia in quanto gnoseologicamente superano la facoltà conoscitiva che dovrebbe attingerle. In Mario Vittorino, per es., Dio viene connotato al di là e al di sopra di tutte le modalità dell’essere, del conoscere, del linguaggio e si caratterizza come logicamente inconoscibile, indefinibile, ineffabile (Ad Candidum, 13, 1). Per Scoto Eriugena, Dio trascende la natura in quanto non è soggetto alle sue limitazioni e si manifesta solo quando si siano dissolte le determinazioni di quella (De divisione naturae, II, 30); una posizione analoga è propria della teologia negativa dello pseudo-Dionigi Areopagita (De divinis nominibus, I, 4; 4, 2), della mistica speculativa tedesca del 14° sec. e di Cusano (De docta ignorantia, I, 24 e 26). La teologia scolastica classica, invece, fidando sull’analogicità dell’essere, non pone Dio al di là dell’essere stesso e per Tommaso d’Aquino il verbo transcendere, anziché applicarsi a Dio, designa le verità della teologia che sua altitudine rationem transcendunt, in quanto sfuggono alla pura razionalità della conoscenza filosofica. Se dunque in termini generali trascendente è tutto ciò che esiste al di fuori e al disopra di un’altra realtà, la quale ne dipende, comunque, in forza della propria inferiorità, mentre l’altra non dipende da essa, la realtà, nel confronto con la quale la t. si manifesta, può essere ontologica o gnoseologica: così, per es., le idee platoniche sono trascendenti rispetto alle cose empiriche, e il noumeno kantiano è trascendente rispetto alla facoltà intellettiva. In senso ontologico o metafisico, il concetto di t. viene per lo più a coincidere con quello di realtà soprasensibile e, in certi contesti teologici, con quello di Dio inteso come persona e creatore libero del mondo, pertanto contrapposto a tutte le concezioni ‘immanentistiche’ volte a identificarlo con la natura. Infine, se nel pensiero antico e medievale l’antitesi t./immanenza concerne principalmente la posizione della realtà ideale rispetto alla realtà empirica (da cui, per es., il contrasto fra la t. dell’idea platonica e l’immanenza dell’universale aristotelico), nell’età moderna, invece, essa riguarda soprattutto la posizione della realtà rispetto al pensiero: s’intende quindi come l’osservazione della t. venga a caratterizzare sempre più strettamente ogni forma di realismo, contro la difesa idealistica dell’immanenza.
Il termine è largamente presente nella filosofia del 20° sec., ma non è possibile darne una definizione unica, poiché esso assume significati completamente differenti a seconda dell’autore che ne fa uso. In Husserl, il termine trascendente è specialmente impiegato per riferirsi a una caratteristica che egli mette in luce nella struttura della percezione: quest’ultima ci dà sempre ‘scorci’, ‘vedute parziali’ della cosa percepita, che, rispetto a tali vedute parziali, si presenta sempre come trascendente, cioè al di là di ogni possibile successiva veduta che possiamo avere della cosa stessa. Il problema della t. viene così a coincidere per Husserl con quello della struttura intenzionale della nostra conoscenza, che altro non è che il suo strutturale «trascendere» la cogitatio verso qualcosa che questa non è, cioè l’oggetto naturale. Anche in Heidegger, sulla scorta di Husserl, il tema della t. è legato a quello dell’intenzionalità, ma questa, in conseguenza del diverso concetto che ha Heidegger della fenomenologia, è vista come «inerenza al mondo»: al di qua del rapporto logico e conoscitivo che Husserl prospetta unilateralmente come intenzionalità, vi è tutta la complessa «mondità del mondo» che Heidegger sviluppa nelle sue famose analisi del 2° cap. della prima parte di Essere e tempo (1927). Alla radice del fenomeno dell’essere nel mondo si svela però esserci, alla fine dell’opera, la temporalità. Un passaggio fondamentale della dimostrazione di questo assunto è l’interpretazione, da parte di Heidegger, della scienza moderna come «tematizzazione», cioè come riduzione della realtà e del mondo a un campo di fenomeni meramente oggettivi e riproducibili grazie alla tecnica. Se ciò è vero, a monte della scienza si svela per Heidegger il «progetto», cioè la costituzione temporale dell’«esserci», e la t. è qualcosa che appartiene essenzialmente all’«esserci» e che lo pone prima e al di sopra di ogni oggettivazione: «Perché la tematizzazione della semplice-presenza, cioè il progetto scientifico della natura, sia possibile, l’Esserci deve trascendere l’ente tematizzato. La t. non consiste nell’oggettivazione, ma questa presuppone quella» (Essere e tempo, § 69 b). Più in generale, a proposito del legame fra essere nel mondo, temporalità e t., Heidegger conclude quindi alla consequenzialità stretta fra temporalità e t.: «E poiché l’essere dell’Esserci si fonda interamente nella temporalità, questa deve render possibile l’essere-nel-mondo e con esso la trascendenza dell’Esserci». In Jaspers, infine, pur con evidenti e dichiarati richiami alle analisi heideggeriane, il tema della t. è più direttamente legato a quello dell’esistenza come libertà e al suo rapporto con il «mondo». Vivendo e orientandosi nel mondo, l’esperienza che il soggetto fa in esso è quella di un inglobamento; nel suo agire e nel perseguire i suoi progetti, egli urta ripetutamente contro un «limite» ed è questo fatto che gli manifesta la t.: «Mentre l’indefinito costituisce il limite tanto dell’orientazione nel mondo quanto del mondo, in questo limite, che nell’ente si ripresenta sempre come impenetrabile, e che dal punto di vista oggettivo è percepibile solo negativamente come limite, si rende presente l’essere da un’altra origine. Questo essere, che rinvia oltre il mondo, si concepisce nel mondo come esistenza in rapporto alla trascendenza. Se l’indefinito fosse definitivamente superato, il mondo e la conoscenza sarebbero compiuti. Invece, proprio l’impossibilità del suo superamento diventa la base per quel salto teoretico in cui consiste il trascendere che ha come contenuto l’esistenza possibile in quanto libertà» (Filosofia, 1. Orientazione filosofica nel mondo, 1932, cap.2).