TRAPIANTI
(v. trapianto, XXXIV, p. 181; innesti e trapianti, XIX, p. 315; App. II, II, p. 51; trapianti, App. IV, III, p. 670)
Biologia. - L'orientamento genetico, che aveva portato ai concetti d'istocompatibilità e d'istoincompatibilità, ha indotto ulteriori sviluppi. Gli studi sperimentali hanno dimostrato la validità della teoria genetica dei t. che spiega i dati ottenuti in popolazioni di topi inbred o selezionati secondo particolari schemi d'incrocio postulando l'esistenza di geni situati in numerosi loci, denominati H o dell'istocompatibilità, dove ciascun gene presenta numerose forme alleliche, tutte codominanti. Nel topo, i loci dell'istocompatibilità sono circa 30, numerati: H-1, H-2, H-3, ecc.; di essi il principale è il locus H-2, denominato anche complesso maggiore d'istocompatibilità (Major Histocompatibility Complex, MHC) e localizzato nel cromosoma 17. Nell'uomo l'MHC è localizzato nel cromosoma 6. Nel topo e nell'uomo l'MHC contiene geni che codificano gli antigeni dei t. e controllano la risposta immune (v. immunità, in questa Appendice). I principali prodotti dei geni MHC sono le molecole di classe i e ii, le molecole di classe iii (alcuni componenti del sistema del complemento e alcune citochine) e altre proteine.
Nel topo il cromosoma 17 contiene il complesso H-2 e verso 3′ il complesso Tla. H-2 è costituito dalle regioni K, I, S, D, mentre Tla è costituito dalle regioni Qa e Tla. I geni di classe i sono K, D, e L, localizzati nel complesso H-2 e Qa-2, Qa-3, Tla e Qa-1, localizzati nel complesso Tla. I geni di classe ii, Aβ, Aα, Eβ, ed Eα, sono localizzati nella regione I del complesso H-2, mentre i geni di classe iii, C4 e Slp, sono localizzati nella regione S. Nell'uomo il cromosoma 6 contiene l'MHC costituito da geni HLA e altri. I geni di classe i sono HLA-A, −B, −C, −E; i geni di classe ii sono HLA-DR, −DQ, −DP, −DO, −DN; i geni di classe iii sono C4A, C4B, Bf, C2, TNFA, TNFB.
Le molecole MHC di classe i sono espresse sulla membrana di tutte le cellule, mentre quelle di classe ii sono espresse sulle cellule del sistema immunitario, particolarmente su cellule B, macrofagi, cellule di Langerhans, cellule dendritiche, cellule epiteliali del timo e, nell'uomo, su cellule T attivate. Le proprietà antigeniche delle molecole MHC di classe i e ii hanno rilevanza immunologica e consentono studi genetici nel topo e nell'uomo.
Se un individuo riceve un trapianto di tessuto oppure l'iniezione di cellule provenienti da un donatore geneticamente diverso all'MHC si osserva l'insorgenza di una risposta immunitaria che conduce al rigetto del trapianto e alla produzione di anticorpi contro gli antigeni di classe i e ii. Anche la mescolanza in vitro di cellule provenienti da tessuti linfatici di individui diversi all'MHC induce una reazione denominata linfocitaria mista (Mixed Lymphocyte Reaction, MLR), nella quale i linfociti di un individuo diventano blasti, sintetizzano DNA e proliferano in seguito allo stimolo antigenico esercitato dalla popolazione cellulare dell'altro individuo. Se cellule immunologicamente competenti di un donatore sono iniettate in un ricevente diverso all'MHC ma incapace di rigettare l'inoculo, perché immunosoppresso da irradiazione o da farmaci o perché immunologicamente immaturo (topo neonato), si osserva una reazione, denominata reazione del trapianto verso l'ospite (Graft versus Host Reaction, GvHR), nella quale le cellule trapiantate reagiscono contro gli antigeni d'istocompatibilità dell'ospite. Ne consegue un'ipertrofia dei tessuti linfatici dovuta alla proliferazione sia delle cellule trapiantate sia delle cellule dell'ospite. Questa reazione è considerata l'analogo in vivo della MLR in vitro. Infine, una reazione in vitro molto usata per caratterizzare i prodotti antigenici dell'MHC è la linfolisi mediata da cellule (Cell-Mediated Lympholysis, CML). Si tratta di una reazione citotossica contro cellule bersaglio, esercitata da linfociti specificamente sensibilizzati che si differenziano nel corso di una MLR. La CML è considerata l'analogo in vitro della fase effettrice del rigetto dei trapianti.
L'uso di questi metodi nel topo e nell'uomo ha consentito di identificare due categorie di antigeni con distinta mappatura genetica. Una categoria è costituita da antigeni riconosciuti sierologicamente (Serologically Defined, SD) e l'altra da antigeni riconosciuti mediante la reazione linfocitaria mista (Lymphocyte-Defined, LD). Dopo aver constatato che gli antigeni LD possono essere riconosciuti anche sierologicamente, questa classificazione è stata abbandonata e sostituita dalla distinzione in antigeni di classe i (antigeni SD) e di classe ii (antigeni LD). Le proprietà degli antigeni di classe i e ii rivelate coi metodi immunologici sopraindicati sono riassunte nella tab. 1.
La sopravvivenza di allotrapianti di rene o cute nell'uomo dipende dal grado di parentela fra donatore e ricevente. La sopravvivenza è maggiore fra fratelli o sorelle, intermedia tra padre e figlio, minima tra individui scelti casualmente (tab. 2). Le priorità nella scelta del donatore di trapianto sono indicate nella tab. 3. Le cellule del sangue possiedono antigeni dell'istocompatibilità comuni a tutti gli organi e tessuti. Di qui l'importanza di tipizzare donatori e riceventi per la costituzione antigenica dei linfociti (sistema HLA) allo scopo di scegliere il migliore donatore.
La tipizzazione per gli antigeni HLA-A, −B, −C (classe i) e −DR (classe ii) viene eseguita su linfociti mediante un test citotossico con numerosi antisieri, ottenuti da donne multipare o da individui politrasfusi, o con anticorpi monoclonali anti-HLA per stabilire l'identità o il grado di cross-reazione antigenica fra le cellule del ricevente e quelle dei possibili donatori. La tipizzazione dei linfociti per gli antigeni di classe ii HLA-A, −DQ, e −DP viene eseguita mediante MLR. La tipizzazione viene ora eseguita anche a livello del DNA mediante RFLP (Restriction Fragment Length Polymorphism) e tecniche d'ibridazione con oligonucleotidi.
L'insieme dei risultati ottenuti ha dimostrato che la compatibilità per il sistema HLA favorisce l'attecchimento dei t., soprattutto tra fratelli o tra padre e figlio. Infatti la sopravvivenza del rene a 4 anni dal t. è 90% tra fratelli compatibili e 45% tra fratelli incompatibili; 80% tra padre e figlio compatibili e 70% tra padre e figlio incompatibili. Quando donatore e ricevente sono coppie casuali la differenza in sopravvivenza del t. di rene fra individui compatibili e incompatibili all'HLA è molto meno marcata. Per es., l'identità degli antigeni HLA-A e −B fra individui scelti a caso migliora la sopravvivenza del t. di rene a 5 anni soltanto del 15% rispetto a individui che differiscono per 3 o 4 antigeni. Queste osservazioni suggeriscono che l'identità tra individui imparentati per gli antigeni HLA o tipizzati comporta anche l'identità per altri antigeni HLA o per antigeni codificati da loci minori dell'istocompatibilità. In coppie casuali, anche quando donatore e ricevente sono identici per gli antigeni HLA, è probabile che non esista identità a loci minori dell'istocompatibilità. In generale la compatibilità per gli antigeni DR e D sembra avere un ruolo maggiore della compatibilità per gli antigeni di classe i nel determinare l'attecchimento di un t. di rene.
Fisiopatologia. - Rigetto. - Nella reazione di rigetto ha un notevole significato l'infiltrazione di cellule mononucleate, linfociti e macrofagi in particolare (v. App. IV, iii, p. 672). La risposta immune che provoca il rigetto di un allotrapianto consiste in una fase sensibilizzante, nella quale gli antigeni attivano i linfociti T a proliferare e differenziarsi, e una fase effettrice, in cui i linfociti T esercitano un'azione citotossica contro il trapianto. La fase sensibilizzante è indotta dall'alloantigene, che stimola cellule T CD4+ quando presentate da macrofagi, cellule dendritiche e, in minor misura, cellule B. È necessaria la partecipazione di queste cellule che presentano l'antigene (Antigen-Presenting Cells, APC) perché, in loro assenza, l'alloantigene non solo non attiva le cellule T ma ne inibisce una successiva attivazione.
Contrariamente a quanto si osserva in vitro, dove la sensibilizzazione delle cellule T è mediata dalle APC del ricevente, la sensibilizzazione in vivo delle cellule T è indotta dall'alloantigene in presenza di APC del trapianto. Infatti, l'eliminazione delle cellule dendritiche da un t. di cute ne prolunga la sopravvivenza. La necessità della presenza di APC allogeniche, anziché singeniche, per sensibilizzare efficacemente le cellule T in vivo non è chiara. In vitro, la sensibilizzazione delle cellule T, probabilmente mediata dal riconoscimento di peptidi allogenici MHC associati a molecole self MHC di classe ii espresse sulle APC del ricevente, induce la produzione di una quantità di linfochine sufficiente ad attivare le cellule T effettrici. In vivo, la sensibilizzazione delle cellule T mediata dall'alloantigene presentato dalle APC del ricevente avviene, ma probabilmente non induce la produzione di una quantità di linfochine sufficienti a raggiungere le cellule T effettrici che incontrano il trapianto. La sensibilizzazione delle cellule T può avvenire nel t., specialmente in t. molto vascolarizzati come quello di rene. Per altri t., come quello di cute, è stato dimostrato che le APC del t. migrano ai linfonodi di drenaggio dove le cellule dendritiche del donatore diventano cellule interdigitate in contatto con numerose cellule T circolanti del ricevente. La densità di APC nel t. influenza la velocità del rigetto. Nel topo, la velocità di rigetto di un allotrapianto di cute dipende dalla zona di prelievo del t.: rigetto lento per la cute della coda (poche APC), rapido per la cute del dorso (molte APC), intermedio per la cute dell'orecchio (densità intermedia di APC).
Nella fase effettrice, le cellule T del ricevente riconoscono l'alloantigene sulla membrana della cellula bersaglio solo se sono espressi gli stessi determinanti allogenici presentati dalle APC nella fase sensibilizzante. Per es., questi determinanti potrebbero essere assenti se l'alloantigene è di classe ii e sono state eliminate le APC del t. che avevano sensibilizzato il ricevente. Oppure, i determinanti delle cellule bersaglio potrebbero essere diversi da quelli che avevano indotto la sensibilizzazione mediante il riconoscimento di peptidi allogenici associati a molecole self MHC di classe ii espresse sulle APC del ricevente. Dai risultati di esperimenti in vitro si può desumere che i linfociti sensibilizzati esercitano un'azione citotossica diretta sul t. o mediata dalla liberazione di linfotossine. Inoltre, a seguito della reazione con gli antigeni del t., i linfociti sensibilizzati liberano sostanze chemiotattiche che sono capaci di richiamare e trattenere nel t. i macrofagi dell'ospite e di stimolare l'attività fagocitaria di queste cellule. Risultato di questi fenomeni è la morte del trapianto.
Il rigetto di un t. è accompagnato dalla comparsa di anticorpi nel siero del ricevente che possono reagire con il t. o, in vitro, con altre cellule del donatore. Gli anticorpi circolanti, tuttavia, non sono quasi mai responsabili del rigetto del trapianto. Infatti siero prelevato da animali di ceppo A immunizzati con un allotrapianto di cute B e iniettato a ospiti A che hanno ricevuto un t. di cute dello stesso donatore B non accelera il rigetto di questo trapianto. La presenza di anticorpi circolanti non solo non provoca quasi mai il rigetto ma spesso favorisce l'attecchimento di un t. incompatibile. È possibile che anticorpi non citotossici combinandosi con gli antigeni cellulari del t. li mascherino e li proteggano dall'attacco dei linfociti T sensibilizzati. Bisogna ricordare, tuttavia, che allotrapianti di cellule dissociate, linfoidi o epiteliali, sono rapidamente eliminati da anticorpi circolanti. Inoltre, allotrapianti di rene in individui già sensibilizzati sono spesso rigettati da anticorpi. T. xenogenici di cute quasi sempre sono rapidamente eliminati da una risposta anticorpale; molto più raramente anche t. allogenici di cute possono essere rapidamente rigettati da anticorpi.
Solitamente, il rigetto di un t. è una risposta cellulo-mediata. Esperimenti in vitro di CML, considerata come una reazione analoga al rigetto di un t. in vivo, hanno dimostrato che: cellule T CD4 + stimolate da alloantigeni MHC di classe ii producono IL-2 e generano i linfociti T citotossici (Cytotoxic T Lymphocytes, CTL) di cui sono precursori; cellule T CD8 + stimolate da alloantigeni MHC di classe i producono IL-2 e generano i CTL di cui sono precursori. Inoltre, cellule T CD4 + stimolate da alloantigeni MHC di classe i (solo se associati a molecole self MHC di classe ii) producono IL-2 ma non generano CTL, mentre cellule T CD8 + stimolate da alloantigeni MHC di classe ii (associati o non a molecole self MHC di classe i) non producono IL-2 ma possono generare i CTL di cui sono precursori (tab. 4).
I risultati di esperimenti in vivo con topi mutanti all'MHC di classe i o ii, privati delle cellule T e poi ricostituiti solo con cellule T CD4+ o CD8+ sono concordi con i dati ottenuti negli esperimenti in vitro di CML. In generale, le cellule T CD4+ provocano il rigetto di t. incompatibili per antigeni MHC di classe ii mentre le cellule T CD8+ provocano il rigetto di t. incompatibili per antigeni MHC di classe i. Tuttavia, cellule T CD8+ possono anche partecipare al rigetto di t. incompatibili per antigeni di classe ii così come cellule T CD4+ possono anche partecipare al rigetto di t. incompatibili per antigeni di classe i. Quando ricevente e donatore differiscono per entrambe le classi i e ii, solitamente prevalgono le cellule T CD4+ produttrici di IL-2 e le cellule T CD8+ citotossiche. L'esame istologico di un allotrapianto che differisca dal ricevente per antigeni di classe i o ii o entrambe rivela invariabilmente la presenza di cellule T CD4+, CD8+ e numerosi macrofagi.
La correlazione tra la CML in vitro e il rigetto del t. in vivo è ben documentata per differenze antigeniche controllate dall'MHC ma non ha trovato conferma quando ricevente e donatore differiscono per antigeni minor. Per es., per differenze antigeniche controllate dal locus H-Y il rigetto del t. è una risposta di ipersensibilità di tipo ritardato anziché una reazione citotossica.
Per inibire la reazione immunitaria contro il t., oltre alla terapia farmacologica a base di immunosoppressivi, tre metodi vengono impiegati prima del t. con il fine di diminuire i rischi di rigetto: la trasfusione di sangue intero, la splenectomia e l'irradiazione linfoide totale (Total Lymphoid Irradiation, TLI).
La trasfusione di sangue intero solitamente migliora l'attecchimento del t. per motivi non chiariti. Contrariamente a quanto già illustrato per il t. di cute, la sopravvivenza di un t. allogenico di rene può essere spesso migliorata da precedenti trasfusioni di sangue. Questo risultato potrebbe essere dovuto all'induzione di anticorpi bloccanti o di cellule soppressive. Anche il precedente rigetto di un t. di rene favorisce la sopravvivenza di un secondo t. dello stesso organo. Questa forma d'immunosoppressione specifica è tanto più frequente quanto maggiore è l'istocompatibilità fra donatore e ricevente.
L'attecchimento del t. è anche favorito dalla splenectomia del ricevente, probabilmente perché la milza è il più importante organo del sistema linfatico periferico e la sua eliminazione diminuisce significativamente il numero dei linfociti capaci di provocare la reazione di rigetto.
La terza procedura che può essere utilizzata per preparare il paziente al t. consiste nell'irradiazione linfoide totale. In questo caso il paziente viene sottoposto a irraggiamento frazionato delle più importanti stazioni linfatiche, trattamento che induce un profondo stato d'immunosoppressione dovuto alla sopravvivenza selettiva di cellule T soppressorie non-specifiche.
Nella fase post-trapianto vengono usati farmaci diversi, tutti ad attività immunosoppressiva, per controllare il rigetto del trapianto.
L'azatioprina, una 6-mercaptopurina, è stata il primo farmaco immunosoppressivo usato. Esso interferisce con un sistema enzimatico coinvolto nella sintesi degli acidi nucleici e quindi inibisce la proliferazione di tutte le cellule. Nel corso del rigetto i linfociti sono in attiva proliferazione e quindi vengono preferenzialmente inibiti. Il prednisone, uno steroide con attività linfolitica, è frequentemente usato in associazione con azatioprina.
Un altro agente immunosoppressivo frequentemente usato per prevenire e controllare la reazione di rigetto è il siero anti-linfocitario. In questo caso si usano immunoglobuline deaggregate di coniglio, iniettate per via endovenosa, che tendono a essere tolerogene invece che immunogene, dirette contro diversi antigeni linfocitari umani. L'uso di anticorpi monoclonali, che hanno una specificità più ristretta, non dà un'immunosoppressione soddisfacente.
Il farmaco immunosoppressivo più efficace attualmente disponibile è la ciclosporina, metabolita ottenuto dal fungo Tricoderma polysporum. Essa agisce inibendo l'attività dell'IL-2, linfochina necessaria per la proliferazione delle cellule T cooperanti e citotossiche, sopprimendo quindi sia i meccanismi umorali che cellulari che provocano il rigetto. Data la sua specificità, la ciclosporina non ha gli effetti collaterali dell'azatioprina, che è inibitoria per tutte le cellule incluse quelle mieloidi, né dei cortisonici o del siero anti-linfocitario che hanno attività litica verso tutti i linfociti.
L'immunosoppressione utilizzata per controllare il rigetto non è però senza conseguenze negative e, fra queste, le più importanti sono l'insorgenza di infezioni e di neoplasie. Le infezioni possono essere di origine virale, soprattutto erpetica, o batterica. L'incidenza di infezioni è comunque molto diminuita dall'uso di ciclosporina che, lasciando relativamente indenni le cellule B, permette l'induzione di risposte anticorpali almeno contro alcuni antigeni batterici (polisaccaridi). L'altro effetto collaterale del trattamento immunosoppressivo è l'aumentata incidenza di neoplasie.
Bibl.: H.J. Winn, Laws of transplantation, in Human immunogenetics, New York 1988; H. Auchincloss Jr., D.H. Sachs, Transplantation and graft rejection, in Fundamental immunology, a cura di W.E. Paul, ivi 1993.
Aspetti particolari dei trapianti di organi nell'uomo. - Saranno qui dati alcuni cenni a integrazione dell'ampia trattazione sui t. di alcuni organi (rene, cuore, fegato, pancreas, polmoni) contenuta in App. IV, iii, p. 673. A parte saranno trattati i problemi relativi all'uso terapeutico del t. del midollo osseo (v. oltre; v. anche thomas, Edward Donnall, in questa Appendice).
Rene. - Il t. del rene, che attualmente è l'organo più frequentemente sottoposto a tale trattamento, è stato realizzato per la prima volta nel 1954 da J.F. Murray (v. in questa Appendice) che, essendosi già impadronito con ripetute esercitazioni pratiche su animali dei problemi chirurgici di questo t., poté affrontare un caso in cui si poteva ragionevolmente escludere la possibilità di un rigetto, essendo gemelli omozigoti il beneficiario e il donatore. I molti anni che sono stati necessari per realizzare una metodica antirigetto sono indice delle difficoltà che si sono dovute affrontare per giungere alle attuali condizioni di realizzabilità di questo tipo d'intervento.
Si calcola che ascendano a 200.000 i t. renali effettuati nel mondo a tutto il 1991, con un più che soddisfacente indice di sopravvivenza dell'organo trapiantato. A tale risultato non è estranea la migliorata efficacia dei farmaci immunosoppressori, fra i quali, dal 1978 in poi, primeggia la ciclosporina A. In Italia nel periodo 1978-91 sono stati realizzati 4747 t., con una percentuale di sopravvivenza dell'organo, a 2 anni dal t., pari al 94%.
Cuore. - Subito dopo il primo t. di cuore, eseguito nel dicembre 1967 da Ch. Barnard, ve ne fu un secondo effettuato dal gruppo guidato da N. Shumway della Stanford University (USA), dove, qualche anno dopo, con il patrocinio del National Institute of Health, si è sviluppato un centro di studi e di ricerche su questo tema, guidato da E. Dong, che ha contribuito validamente alla razionalizzazione di questo tipo d'intervento. In linea di massima il t. di cuore trova indicazioni nei casi d'insufficienza circolatoria non correggibile in altro modo e con una speranza di vita di 12 mesi. Approssimativamente si calcola che sino al 1990 nel mondo ne siano stati praticati 10.000. In Italia sono stati autorizzati nel 1985 dal ministero della Sanità e a tutto il 1991 ne sono stati eseguiti 822, con risultati sovrapponibili a quelli registrati nei più qualificati centri internazionali.
Fegato. - Il t. di fegato viene preso in considerazione nelle epatopatie in stadio terminale, se non traggono beneficio dalle cure ordinarie. Sul piano tecnico costituisce un intervento particolarmente impegnativo, per la sua notevole durata, per la delicatezza del prelievo dell'organo, per la quantità di sangue che viene impegnata durante il t., per la sensibilità che il parenchima epatico presenta ai vari stimoli, per le difficoltà che si possono incontrare nella ricostruzione delle vie biliari epato-intestinali. Il t. di fegato è stato eseguito per la prima volta nel 1963 a Denver (Colorado) da Th. Starzl. In Europa il primo t. è stato eseguito da R. Calne a Cambridge, nel 1968. In Italia è stato eseguito per la prima volta al Policlinico di Roma nel 1982 e successivamente in vari altri centri specializzati, per un numero complessivo di 382 trapianti. In data relativamente recente, sia a Chicago sia in Giappone, sono stati eseguiti t. di segmenti di fegato prelevati a viventi: di solito a un genitore in favore del proprio bambino portatore di un'epatopatia in fase terminale, per consentire l'attesa di un organo idoneo. Tale pratica peraltro è oggetto di critiche per i pericoli che presenta per tutti e due i protagonisti; è da notare per altro che se in Giappone, dove non è ammesso il concetto di morte cerebrale, è arduo reperire un organo che non abbia subito un arresto circolatorio di durata preoccupante, negli USA e in Europa la possibilità di prelevare organi da pazienti in coma irreversibile esiste, e può essere migliorata con la diffusione della cultura del t. e con una corretta organizzazione dei servizi di reperimento degli organi.
Pancreas. - Il t. del pancreas è preso in considerazione per i casi di diabete giovanile insulino-dipendente, per prevenire le gravi complicazioni (insufficienza renale diabetica, retinopatia evolvente verso la cecità) cui tali forme potrebbero approdare. È stato realizzato nell'università di Minneapolis (USA) sul finire del 1966 da R. Lilley e W. Kellog e, in associazione col trapianto del rene, da G. Kelly. In anni più recenti è stato effettuato anche in Italia, nei centri appositamente autorizzati di alcune città. La sua messa a punto è stata accompagnata dall'insorgere di problemi di varia natura, alcuni dei quali ne hanno frenato l'effettuazione; ma diversi miglioramenti, alcuni già acquisiti, altri ancora oggetto di ricerca, fanno sperare in migliori possibilità di realizzazione. La necessità dell'immediato collegamento del t. col trattamento immunosoppressivo, non gradito dal paziente, spesso ha fatto ritardare l'effettuazione del t. stesso, spostandola al momento in cui la concreta minaccia dello sviluppo di un'insufficienza renale lo rendeva improcrastinabile. Per altro verso, le prime esperienze hanno dimostrato la necessità di limitare alle sole insule di Langerhans il materiale trapiantato, escludendo la componente esocrina, per impedire agli enzimi, raccolti nel fluido prodotto dall'attività esocrina, di produrre lesioni necrotiche nelle zone circostanti l'area del trapianto. Si è riusciti a separare dal restante tessuto pancreatico le insule, a ripulirle adeguatamente e, grazie ai progressi della tecnologia, a realizzare la crio-preservazione del materiale così allestito. Peraltro, la generale scarsezza del materiale utilizzabile, comune al mondo dei t., ha dato impulso a ricerche tendenti ad accertare la possibilità di utilizzare nei t. insule provenienti dal mondo animale, precisamente dai suini, per verificare se all'affinità biochimica esistente tra l'insulina umana e quella porcina, di animale adulto, corrispondesse una pari efficacia terapeutica. Un altro filone sperimentale concerne la ricerca di un tipo di protezione anti-rigetto che possa risparmiare il trattamento immunosoppressivo, in altre parole la ricerca di un mezzo tecnico che inibisca la reazione immunitaria tra t. e ospite. Speranze in questo senso derivano dalla realizzazione dell'isolamento delle insule all'interno di microcapsule, trapiantabili, realizzate con l'acido alginico e policationi aminoacidi.
Polmone. - Il t. del polmone, a seconda dell'estensione della patologia che lo provoca, può riguardare uno solo o tutti e due gli organi e, in quest'ultimo caso, qualora alla patologia polmonare si associ una notevole compromissione della funzione cardiaca, si può prendere in considerazione il coinvolgimento del cuore nel t. (t. cuore-polmone). In linea di massima il problema del t. del polmone è determinato da una grave e irreversibile insufficienza respiratoria, conseguente a enfisema polmonare, bronchiectasie, polmone policistico, silicosi, asbestosi o, fatto particolarmente impegnativo, dalla presenza di un tumore ''presumibilmente'' ben circoscritto. Per la prima volta il t. del polmone è stato realizzato nel 1963 da J. Hardy, che ha ottenuto una sopravvivenza di soli 18 giorni; e per circa una ventina di anni, fatta una modesta eccezione per i 10 mesi di sopravvivenza ottenuti dal t. eseguito da F. Derom, i risultati sono stati tutt'altro che incoraggianti. Il numero di questi t. è rimasto, pertanto, particolarmente esiguo.
In effetti, il t. del polmone ha urtato contro due non trascurabili ostacoli. Il primo è rappresentato dalla laboriosità del reperimento del possibile donatore, perché ai criteri di selezione imposti dall'istocompatibilità si associano le caratteristiche relative alla conformazione e alle dimensioni della gabbia toracica del donatore, che devono armonizzare con quelle del richiedente; altri requisiti essenziali sono, nel trapiantato, l'assenza di esiti di traumatismi toracici, di un relativamente recente intervento rianimatore con prolungata intubazione endotracheale e iperventilazione polmonare forzata, di una predisposizione a episodi flogistici del parenchima polmonare. L'altro inconveniente, di cui recentemente si è riusciti ad attenuare la portata, è stato per molti anni la formazione di deiscenze in corrispondenza delle suture praticate per la ricostruzione della struttura tracheo-bronchiale, frutto di una deficitaria cicatrizzazione locale, naturale conseguenza di un abituale apporto ematico scarso ulteriormente aggravato dalla somministrazione di corticosteroidi, generosamente usati, per necessità, nella lotta anti-rigetto. L'introduzione della ciclosporina A − che ha consentito una forte riduzione dell'impiego dei corticosteroidi e talora addirittura una temporanea interruzione della loro somministrazione − ha nettamente migliorato la situazione e ha ridato slancio agli operatori, alcuni dei quali, in occasione di suture sulle anastomosi tracheo-bronchiali, per migliorare la vascolarizzazione e favorire la cicatrizzazione, provvedono ad applicare in dette zone lembi di omento.
Altra misura protettiva, che concerne però la salvaguardia della struttura funzionale del parenchima polmonare in occasione della trasposizione dell'organo nella cavità toracica dell'ospite, è rappresentata dal calcolo della durata della necessaria sospensione funzionale, per stabilire la necessità o meno di predisporre particolari mezzi idonei a salvaguardare l'integrità funzionale del parenchima, dei capillari alveolari, delle pareti degli alveoli e del liquido che, con i relativi componenti, ne riveste gli endoteli, concorrendo a facilitare il passaggio dell'O2: a titolo di esempio si cita la tecnica usata nell'università del Wisconsin (USA), consistente nella perfusione del circolo polmonare con un'apposita soluzione mantenuta a una determinata bassa temperatura. Infine, per quanto concerne gli atti chirurgici veri e propri, coordinati alla trasposizione dell'organo o degli organi nella nuova sede − a prescindere dalla delicatezza con cui il posizionamento deve essere effettuato e dalla sterilità dell'ambiente in cui si svolgono i movimenti di parti così sensibili all'insediamento di germi patogeni − nel posizionamento delle singole parti si deve evitare ogni compromissione degli altri organi anatomici, quali, per es., i nervi vago, ricorrente e frenico. Come pure, nell'assistenza, bisognerà tener presente l'avvenuta soppressione del riflesso della tosse, nel polmone o nei polmoni trapiantati, conseguente all'impossibile ripristino delle fibre nervose, vettrici dei relativi stimoli, recise nell'intervento. Si dovrà anche impedire l'iperidratazione del tessuto polmonare, conseguente alla compromissione delle vie linfatiche preposte al deflusso dei liquidi in esubero, ma per le quali si può prevedere il ripristino nel giro di qualche settimana.
L'individuazione dei momenti particolarmente delicati dell'intervento di t. polmonare e delle modalità per farvi fronte, i perfezionamenti nel trattamento farmacologico per la prevenzione e il dominio del rigetto, hanno incrementato l'accessibilità a questo tipo d'intervento e si calcola che in tutto il mondo, tra t. di polmone e di cuore-polmone, si sia superato il numero di 1000 interventi a tutto il 1992, con un incremento percentuale, negli ultimi tempi, dei t. di polmone sui t. cuore-polmone. A quest'ultima varietà di t. le statistiche attribuiscono una percentuale di sopravvivenza a due anni dall'intervento pari al 60%. In Italia, nel 1991, il ministero della Sanità ha autorizzato l'esecuzione dei t. cuore-polmone a centri specializzati dislocati a Bergamo, Milano, Padova, Pavia, Udine e Roma. Il numero relativamente modesto dei casi sinora operati non consente proiezioni statistiche degne di menzione.
Bibl.: I.D. Hardy, W.S. Webbs e altri, Lung homotransplant in man: report of the initial case, in Journ. of American Medical Association, 186, 12 (1963), pp. 1065-74; R.Y. Calms, Liver transplantation, in Yearbook Medical Publishers, a cura di R.Y. Calne e R. Williams, Chicago 1979; I.C. Baldwin, F.B. Stimson, P.E. Over, S.V. Jarnieson, N.E. Shunway, The techniques of cardiac transplant, in J.V. Hurst, The heart, New York 1985; T.E. Starzl, S. Iwtsuki, B.V. Shaw Jr. e altri, Techniques of the liver transplantation, in Surgery of the liver and biliary tract, a cura di L.H. Blungart, Londra 1986; Liver transplantation, The Cambridge King's Hospital experience, a cura di R.Y. Calms, ivi 1988; R. Calafiore, F. Calcinaro, G. Basta e altri, Microencapsulated mammalian cells as therapeutic products, in Novel drug delivery and therapeutics application, a cura di L.F. Puscott e V.S. Nimmo, Chichester 1989; T.E. Starzl, A.J. Demetris, D.V. Thiel, Liver transplantation, in New England Journal of Medicine, 321 (1989), p. 1014 (i parte), p. 1092 (ii parte).
Trapianto del midollo osseo. - In medicina il t. del midollo osseo, nelle sue linee essenziali, consiste nell'introduzione per via venosa di cellule midollari normali (linfociti T, per il 10-20%; cellule staminali, linfoblastiche ed eritroblastiche, per la restante parte) in quantità globale proporzionata al peso del paziente (20 ml per kg di peso corporeo). Tale materiale è prelevato da un donatore in anestesia generale, mediante ripetute aspirazioni eseguite con una siringa infissa in più zone del tratto posteriore del cingolo pelvico: nelle creste iliache e nel massiccio sacrale. Trova indicazione nell'anemia aplastica derivante da un'insufficienza midollare, nella cosiddetta immunodeficienza combinata grave (Severe Combinate Immuno-Deficiency, SCID), negli errori congeniti della sintesi dell'emoglobina, come nella thalassaemia o anemia mediterranea e nelle leucemie, specialmente in quelle di tipo tumorale.
Se dovesse essere giudicato esclusivamente sulla base delle sue caratteristiche esteriori, per la mancanza di manualità macro- e soprattutto microchirurgiche presenti in genere nei comuni t., il t. del midollo osseo dovrebbe essere incluso nelle infusioni endovenose, così come veniva considerato, almeno nella sua fase sperimentale, da alcuni autori (E.D. Thomas), tanto più che, a infusione endovenosa avvenuta, le cellule midollari non sono più sotto il diretto controllo del medico che ha effettuato l'infusione. Infatti, veicolate dal sistema circolatorio, percorrono tutti i distretti dell'intero organismo e quando giungono a livello dei capillari sanguigni midollari − i cosiddetti sinusoidi −, probabilmente per l'intervento di un meccanismo a livello molecolare, restano stabilmente annidate in un microambiente che si dimostra quanto mai favorevole allo sviluppo della neoeritropoiesi. In effetti però un intervento di controllo (medico anziché chirurgico, pre- e post-implantologico) esiste ed è il frutto di lunghissimi anni di sagaci e ostinate ricerche. Esso ha l'obiettivo di eradicare le cellule patologiche e di prevenire, o almeno delimitare, le manifestazioni tipo ''rigetto'', che nel caso del t. midollare hanno dimensioni ben più gravi di quelle che si osservano nei comuni t. e sono dovute alla presenza nell'espianto di quel 10-20% di linfociti T non compatibili con le strutture antigeniche dell'ospite. La fenomenologia immunitaria che ne può derivare è indicata come ''malattia del trapianto contro l'ospite'', corrispondente all'espressione e alla sigla in lingua inglese Graft versus Host Desease (GvHD), di uso comune anche nei testi in lingua italiana. Tale complicazione può dar luogo a gravi sofferenze, prevalentemente a carico della cute, del fegato e dell'intestino. Non ha avuto esito favorevole l'espediente di ridurre nel materiale da trasfondere la quota di linfociti T (la cosiddetta ''T-deplezione''), in quanto, se da una parte si è avuta una riduzione della GvHD, dall'altra a tale beneficio ha fatto riscontro un aumento delle ricadute. Per cercare di attenuare, se non proprio d'inibire le complicanze immunologiche che un t. midollare può provocare, lo si fa precedere da un intenso trattamento immunosoppressivo imperniato sulla somministrazione quotidiana di dosi di un particolare farmaco, la ciclofosfamide. In più, specialmente nelle forme tumorali, il quarto giorno precedente il t., a scopo mieloablativo, per eliminare dal midollo nei limiti del possibile i ceppi cellulari alterati, si sottopone il paziente, in tutta la sua persona, a una irradiazione diffusa che non deve superare i 1000 rad ed è realizzata con due contrapposte sorgenti di cobalto (60Co). La condizione di grave insufficienza funzionale che tale trattamento induce e che, pur non raggiungendo effetti letali, è degna della massima attenzione, viene bilanciata con una complessa terapia di sostegno, tenendo presente che debbono trascorrere ben 21 giorni prima che la neo-eritropoiesi, opera delle cellule midollari somministrate con l'infusione, raggiunga un livello più o meno prossimo a quello normale. Per cercare di prevenire l'insorgenza della GvHD, che si verifica in media nel 50% dei casi e solo in metà di questi in forma grave, si prosegue l'uso degli immunosoppressori; attualmente si dà la preferenza alla ciclosporina A, che è priva di tossicità.
Un quadro generale sull'opportunità o meno del ricorso al t. del midollo osseo per il trattamento delle menzionate malattie non può esser preso in considerazione in questa sede, per la molteplicità delle condizioni e dei fattori di cui si dovrebbe tener conto: la differenza di patogenesi, sufficientemente nota (errore nella struttura dell'emoglobina) e con caratteri specifici in alcune malattie, completamente diversa e poco più che intuita in altre; l'età d'insorgenza della malattia, che nei giovani appare più sensibile al trattamento che negli anziani; la scelta del momento dell'intervento rispetto alla data del precedente aggravamento; i tipi delle concomitanti cure d'immunosoppressione e di sostegno, e così via. D'altra parte la prospettiva di tipi diversi di terapie si va facendo sempre più concreta. Vari lavori (R.M. Blaese, K. Culver, F. Anderson, O. Cohen-Haguenar, C. Bordignon) dimostrano che per alcune emoglobinopatie ha raggiunto il livello della sperimentazione clinica un tipo completamente diverso di terapia, quella genica (v. terapia genica, in questa Appendice). Un lavoro pubblicato da A.J. Barrett, M.M. Horowitz e altri (nov. 1994) invece, prendendo in considerazione la leucemia linfoblastica acuta nell'infanzia, confronta i risultati ottenuti col ricorso al t. del midollo osseo con quelli realizzati con la chemioterapia.
Bibl.: E.D. Thomas e altri, in New England Medical Journal, 256 (1967), pp. 491-96; A. Clift, C.D. Buckner, E.D. Thomas e altri, in Bone marrow transplantation, 2 (1987), pp. 243-58; G. Gahrton, in The Nobel Prizes, Stoccolma 1990, pp. 23-24; E.D. Thomas, Bone marrow transplantation - Past, present and future, Nobel lecture, ivi 1990; G. Lucarelli, M. Galimberti, P. Polchi e altri, Bone marrow transplantation in patients with thalassemia, in New England Medical Journal, 322 (1990), pp. 417-21; A.J. Barrett e altri, Bone marrow transplantation from HLA-identical siblings as compared with acute lymphoblastic leukemia in a second remission, ibid., 331, 19 (nov. 1994), pp. 1253-55.
Diritto. - In Italia la materia dei t. è regolata da varie disposizioni legislative che sono state emanate in tempi diversi a partire dal 1967 e prevedono differenti modalità, a seconda che si tratti di effettuare tale intervento utilizzando organi provenienti da una persona vivente oppure da cadavere.
Trapianto da vivente. - La possibilità di effettuare il t. di un organo prelevandolo da un'altra persona in passato era esclusa dal nostro ordinamento. Infatti, il codice civile del 1942, all'art. 5, comminava la nullità degli "atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica". Tale previsione aveva una duplice finalità: da un lato rafforzava la "integrità e sanità della stirpe" che costituiva una delle idee cardine della legislazione dell'epoca, dall'altro affermava definitivamente che il corpo umano non poteva costituire un bene di scambio e pertanto era da ritenersi invalida ogni pattuizione diretta ad assicurare al disponente un corrispettivo. Tale articolo è ancora in vigore nel nostro ordinamento, ma la sua formulazione restrittiva è stata progressivamente temperata con l'emanazione dell'apposita l. 26 giugno 1967 n. 458, che tuttora disciplina il t. di rene tra persone viventi statuendo espressamente che la cessione del rene per effettuare il t. è permessa in deroga a quanto disposto dall'art. 5 codice civile.
Nonostante l'equivoca terminologia legislativa (l'art. 1 della legge n. 458 afferma che "è ammesso disporre") non si è in presenza di un vero e proprio atto di disposizione, poiché la manifestazione di volontà del soggetto non è di per sé sufficiente a produrre l'effetto dispositivo, essendo necessaria un'apposita autorizzazione pretorile (ex art. 2, comma 4 della l. n. 458) per la realizzazione di tale effetto. Il giudice svolge una duplice funzione: da un lato valuta l'opportunità di effettuare il t., dall'altro accerta la spontaneità e la validità del consenso del disponente, il quale non solo deve essere un soggetto dotato dell'ordinaria capacità d'intendere e di volere, ma deve essere anche pienamente consapevole delle conseguenze del prelievo sulla propria integrità fisica. L'atto di disposizione deve essere totalmente gratuito. Tale gratuità è un dato costante della legislazione di tutti i paesi europei, anche se viene concessa in alcuni paesi la possibilità di rimborsare al donatore le spese mediche sostenute. La stessa legge inoltre, per evitare eventuali speculazioni, consente la donazione solo tra consanguinei, permettendola tra soggetti estranei solo in casi eccezionali, che il giudice deve valutare volta per volta. Per maggior garanzia sono stabilite sanzioni penali a carico di coloro che svolgono, a fine di lucro, attività di mediazione nella donazione del rene
Viene comunemente considerato t. anche il prelievo di midollo osseo per allotrapianto. Tale pratica in realtà non è assimilabile al t. dal momento che non cagiona una diminuzione permanente nel soggetto, poiché il tessuto è in grado di rigenerarsi; per tale motivo essa è stata opportunamente regolata assieme alle emotrasfusioni all'interno della l. 407 del 4 maggio 1990, dall'articolo 1 che stabilisce che "è consentito rispettando le norme indicate per l'emaferesi il prelievo di cellule staminali, midollari e periferiche a scopo di infusione per l'allotrapianto e l'autotrapianto nello stesso soggetto o in un soggetto diverso". In deroga a quanto previsto dall'articolo 3 della stessa legge questo tipo di prelievo si può eseguire anche su un soggetto minorenne "previo consenso degli esercenti la potestà dei genitori o del tutore o del giudice tutelare". Questa estensione è da ritenersi lecita sia giuridicamente che eticamente, quando sia accertato che non vi è rischio per la vita e l'integrità fisica del soggetto minorenne donatore.
Trapianto da cadavere. - Più copiosa si presenta la produzione legislativa in materia di prelievi di organi da cadavere. Esistono a tal proposito anche alcune normative della Comunità Europea. La prima è stata una risoluzione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa (n. 29 del 1978), che contiene una serie di definizioni, regole, inviti, agli stati membri per l'adeguamento delle loro legislazioni nazionali in tema di t., e la seconda la raccomandazione n. 5 del 1979, che concerne le misure di garanzia per il trasporto celere e agevolato in ambito internazionale di materiali destinati a tal fine.
La prima legge italiana risale al 1957 (l. 3 aprile 1957 n. 235); consentiva per la prima volta il prelievo della cornea e del bulbo oculare dal cadavere. A essa hanno fatto seguito altri provvedimenti che ne hanno estesa l'applicabilità. Va ricordato in particolare il d.P.R. 20 gennaio 1961 n. 300, che ha elencato quali altre parti potessero essere prelevate dal cadavere, e la l. 2 dicembre 1975 n. 644 (con il relativo regolamento d'esecuzione, approvato con d.P.R. n. 409 del 16 giugno 1976). Quest'ultima ha capovolto la prospettiva della l. n. 235 consentendo l'espianto di tutti gli organi a eccezione dell'encefalo e delle ghiandole della sfera genitale connesse con la procreazione. Si è passati dunque da un ''sistema chiuso'', per cui la legge dettava una disciplina eccezionale consentendo l'espianto di alcuni organi in deroga a un divieto generale, a un ''sistema aperto'' che in generale consente l'espianto di qualsiasi organo, a eccezione di alcuni per i quali è tassativamente vietato per evidenti ragioni morali.
Un requisito fondamentale per il t. da cadavere è il consenso che può essere manifestato o dal soggetto donatore in vita o dai parenti dopo la morte. Nel nostro ordinamento il cadavere non può essere considerato né di proprietà pubblica né di proprietà privata; infatti, alla volontà manifestata in vita dal defunto, circa le modalità di destinazione della salma, è riconosciuta solo una limitata rilevanza, compatibilmente con una serie di esigenze di ordine sanitario, scientifico, sociale. Ci si domanda, quindi, quale sia il valore da attribuire alla dichiarazione (o alla mancanza di un'esplicita dichiarazione) del soggetto circa l'utilizzazione dei propri organi post mortem. In materia si è assistito a un'evoluzione: si è passati dalla necessità di un'esplicita autorizzazione del soggetto (ex art. 1 della l. n. 235 del 1957) alla generale ammissibilità del prelievo, purché il disponente non abbia esplicitamente negato il proprio consenso o non vi sia opposizione dei familiari. Ma numerosi interrogativi, che attendono al momento una risposta dal legislatore, sorgono nell'ipotesi in cui il soggetto in vita non si sia esplicitamente pronunciato né a favore né contro il prelievo dei suoi organi. L'attuale disciplina, in questo caso, consente ai familiari o al coniuge non separato di opporsi alle operazioni di prelievo, facendosi interpreti della volontà del de cuius. Da gran parte della dottrina è auspicata una modifica dell'attuale disciplina in modo tale da imporre a tutti i cittadini l'obbligo di manifestare esplicitamente il proprio dissenso al prelievo degli organi post mortem in appositi documenti, così da desumere automaticamente, in caso contrario, il consenso del de cuius al prelievo.
Tale silenzio-assenso è presente nella legislazione di molti altri paesi europei (Austria, Belgio, Danimarca, Portogallo, Spagna, Svizzera) poiché, senza dubbio, rende più agevole la pratica dei trapianti. In tal senso si era orientata la raccomandazione della Comunità Europea dell'11 giugno 1978 n. 29, con cui s'invitavano i vari governi a fare in modo che nella patente di guida o nel documento di riconoscimento potesse essere contenuta una dichiarazione preventiva del soggetto circa la donazione dei propri organi post mortem. Questa tendenza è stata confermata anche dalla Conferenza dei ministri della Sanità del Consiglio d'Europa nel 1987 nell'ambito di un documento che affronta in maniera globale tutte le complesse questioni legate al tema dei trapianti. Esso si articola in tre parti: una prima dedicata ai problemi etici e socio culturali, una seconda dedicata ai problemi organizzativi e infine una terza dedicata ai problemi legislativi. In questa parte si è ribadita la centralità della questione del consenso nell'ambito della donazione di organi, ammettendo la possibilità di dare un valore legale al silenzio del defunto, senza disconoscere l'importanza che in questa situazione assume la volontà dei familiari. Non vi è dubbio che una normativa che tenga conto dei problemi succintamente esposti porterebbe a considerare il cadavere quale res communitatis sia pure nel rispetto dei limiti dettati dalla confessione religiosa cui appartiene il soggetto o dalle sue personali convinzioni. In Italia su tale argomento si è pronunciato anche il Comitato nazionale di bioetica, organo a carattere consultivo costituito presso la presidenza del Consiglio dei ministri, che ha dedicato alla donazione di organi per il t. un proprio documento del 7 ottobre 1991. In esso pur riconoscendosi "la massima dignità alla manifestazione di volontà da parte del potenziale donatore", si ritiene che sia possibile dare un significato positivo al silenzio, attraverso un suo opportuno inquadramento legislativo, specialmente fino a che non si diffonda "un'ampia cultura dei trapianti che si esalti nei valori della solidarietà e responsabilità". Sotto questo profilo un'opera di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sull'importanza di poter utilizzare alcuni nostri organi dopo la morte è svolta dall'AIDO (Associazione Italiana Donatori d'Organi), un'associazione nata a Bologna nel 1971 con lo scopo di promuovere tale forma di solidarietà umana.
Un altro aspetto di fondamentale importanza in materia di t. è la determinazione del momento della morte, poiché solo da tale istante si legittima l'espianto. In passato esso riceveva una minuziosa regolamentazione legislativa a opera degli articoli 3 e 4 della l. n. 644 del 1975. Tali articoli elencavano l'insieme delle condizioni che dovevano coesistere per l'accertamento della morte. Questa disciplina è stata oggetto di critiche soprattutto da parte dei medici che ritenevano la procedura troppo complessa soprattutto alla luce delle nuove acquisizioni in materia, e tenuto conto della possibilità di utilizzare nuovi strumenti per effettuare la diagnosi di morte. Per questo ne era stata auspicata una modifica che, pur non mettendo in pericolo il sicuro accertamento della morte, garantisse una maggiore semplicità e conseguentemente una maggior rapidità d'azione, spesso indispensabili quando si tratta d'intervenire in situazioni d'emergenza.
Infatti uno dei principali problemi al riguardo è costituito dal fatto che se gli organi da espiantare non vengono artificialmente irrorati e ossigenati essi si decompongono rapidamente e non sono più utilizzabili per il trapianto. Per questo non è possibile in caso di morte per arresto cardiaco il successivo utilizzo degli organi, a eccezione delle cornee (questo tipo di organo, essendo scarsamente vascolarizzato, è utilizzabile anche se il soggetto è morto a seguito di arresto cardiaco e non è stato sottoposto quindi a particolari misure). Tuttavia il problema dell'accertamento della morte è stato oggetto di grandi discussioni oltre che a livello medico anche a livello filosofico e giuridico. Per quanto riguarda l'Italia il 15 febbraio 1991 il Comitato nazionale di bioetica ha affrontato questa tematica in maniera globale in un suo documento, intitolato appunto Definizione ed accertamento della morte nell'uomo. Si è così definitivamente affermato che "il concetto di morte è definito dalla perdita totale ed irreversibile della capacità dell'organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale... La morte può essere accertata attraverso criteri anatomici, clinici, biologici, cardiaci e neurologici". A proposito di questi ultimi il Comitato ha ritenuto che non possono accettarsi né i criteri che fanno riferimento esclusivamente alla morte della sola corteccia cerebrale, né quelli che fanno riferimento alla morte del solo tronco-encefalo, ritenendo preferibili invece i criteri che riguardano la morte dell'intero encefalo e non solo di alcune sue strutture. Nel medesimo documento è stata auspicata una riduzione, da dodici a sei ore, del tempo di osservazione della persistenza delle condizioni che determinano la morte, nonché l'elaborazione di un'apposita normativa sulla diagnosi di morte, completamente autonoma rispetto alla successiva destinazione del cadavere. Tali indicazioni sono state recepite dall'autorità legislativa italiana attraverso la l. n. 578 del 29 dicembre 1993, intitolata "Norme per l'accertamento e la certificazione di morte", in cui si assume, appunto, come criterio di morte la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'intero encefalo. L'accertamento avviene in maniera diversa a seconda che si tratti di diagnosticare la morte per arresto cardiaco o la morte in soggetto affetto da lesioni encefaliche e sottoposto a misure rianimatorie. I differenti parametri che devono essere presi in considerazione, sono stati precisati in un successivo decreto del ministero della Sanità: il D.M. n. 582 del 22 agosto 1994. Quest'ultimo contiene significative differenze rispetto alla precedente disciplina. In primo luogo per quanto riguarda le modalità di accertamento, esse sono divenute più precise e articolate, poiché tengono conto della possibilità di utilizzare nuovi esami strumentali, che consentono una riduzione dei periodi di osservazione necessari alla definitività della diagnosi. Tali periodi inoltre sono differenziati a seconda dell'età del soggetto, essendo necessaria una maggior cautela per i bambini al di sotto dei cinque anni. Infine tale decreto ha modificato sia la composizione, sia le modalità per la convocazione del collegio medico deputato all'accertamento di morte, ribadendo tuttavia l'impossibilità per i medici che hanno certificato la morte di far parte dell'équipe che successivamente effettua il trapianto.
Tutte queste normative hanno abrogato alcune parti della l. 644/1975, che aveva già subito delle modifiche sia a opera della legge n. 198 del 4 luglio 1990, che ha introdotto delle innovazioni sull'organizzazione delle strutture in cui poter effettuare gli espianti di organi, sia a opera della l. n. 304 del 18 agosto 1993 che ha disciplinato in materia autonoma i prelievi e gli innesti di cornea, vista la particolarità di questo tipo di organo.
Non sono trascurabili alcuni casi particolari, collegati alla pratica dei t. in soggetti in età pediatrica, sui quali si è pronunciato, attraverso un proprio documento del 21 gennaio 1994, il Comitato nazionale di bioetica. Esistono infatti vari problemi legati alla particolare condizione dei soggetti coinvolti. I minori debbono per quanto possibile essere consapevoli del tipo d'intervento che subiscono nonché dei rischi e dei benefici connessi e dare il proprio consenso. Un problema particolarmente grave sia sotto il profilo etico che giuridico è rappresentato dalla possibilità di impiegare organi e tessuti fetali per trapianti. Quando questi ultimi sono provenienti da aborti tale utilizzo può suscitare delicate questioni sotto il profilo etico, essendo una forma di cooperazione, sia pure indiretta, all'interruzione volontaria di gravidanza. Quando invece tali organi o tessuti vengono prelevati da neonati anencefalici, sorgono ulteriori problemi, anche di natura legale. Per tale categoria infatti non possono essere utilizzati i criteri comunemente previsti dalla legge per diagnosticare la morte cerebrale nei neonati, poiché non sono validi, e ciò rende al momento giuridicamente impossibile l'utilizzazione dei loro organi. Non vanno naturalmente trascurati anche i delicati problemi etici suscitati dal fatto di sottoporre a trattamento rianimatorio questi bimbi, destinati a una morte certa. Tali questioni necessitano di trovare una regolamentazione specifica, così come la questione del consenso.
È prevedibile che il dibattito aperto in tutti i paesi europei intorno al problema dei t. induca a modificare ancora la legislazione vigente in Italia. In ogni caso, la riforma auspicata dovrà tener conto di molteplici esigenze; infatti, da un lato dovrà facilitare la pratica dei t., ma dall'altro dovrà evitare che s'instauri un turpe commercio d'organi, provenienti dai paesi economicamente più deboli (com'è già avvenuto in passato con il plasma). Su questo punto il Parlamento europeo ha adottato, il 14 settembre 1994, un'apposita risoluzione per proibire qualsiasi forma di commercializzazione degli organi umani per il trapianto. Tale documento si va ad aggiungere ai numerosi divieti di commercializzazione stabiliti a livello internazionale. D'altra parte, ci si augura che le varie autorità legislative, nell'affrontare i nuovi problemi che il diffondersi della pratica dei t. continuamente suscita, non trascurino le proposte scaturite dall'acceso dibattito che ormai da qualche anno si è instaurato sul problema dei t. tra i vari studiosi di bioetica per le implicazioni d'ordine morale.
Bibl.: F. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova 1974; O. Mele, Normativa per il prelievo di parte del cadavere a scopo di trapianti terapeutici, in Giust. Penale, 1 (1975), pp. 287 ss.; M. Bianca, Diritto civile, i, Milano 1978, pp. 161 ss.; E. Moscati, Trapianto di organi, in Dizionari di diritto privato, a cura di N. Irti, i, Milano 1980, p. 809 ss.; F. Mantovani, Trapianti, in Nuovissimo Digesto Italiano, Appendice, vol. vii, 1987, pp. 793 ss. Una visione generale della legislazione estera in materia di t. si trova nella Documentazione per le Commissioni parlamentari, a cura del Servizio Studi della Camera dei deputati, xi legislatura, novembre 1988; cfr. inoltre G. Perico, I trapianti umani verso una nuova normativa, in Problemi di etica sanitaria, Milano 1992, pp. 177-96; Id., Il consenso al trapianto, in Aggiornamenti sociali, 44 (1993), 3, pp. 173-86. Le problematiche in materia di t. affrontate dalla bioetica sono esposte e discusse in Trapianti d'organo, a cura di A. Bompiani ed E. Sgreccia, Milano 1989; L. Ciccone, I trapianti d'organo: aspetti etici, in Medicina e Morale, 4 (1990), pp. 693-716; Comitato Nazionale per la Bioetica, Donazione d'organo a fini di trapianto (7 ottobre 1991), Roma 1991; Id., Trapianti d'organo nell'infanzia (21 gennaio 1994), ivi 1994; E. Sgreccia, Manuale di bioetica, Milano 1994, p. 597 ss. Per quanto riguarda i problemi legati all'accertamento di morte: Comitato Nazionale per la Bioetica, Definizione ed accertamento della morte nell'uomo (15 febbraio 1991), Roma 1991; A. Puca, Trapianto di cuore e morte cerebrale (aspetti etici), Torino 1993; G. Biscontini, La morte e il diritto: il problema dei trapianti d'organo, Napoli 1994. Per gli aspetti sociali e psicologici, E. Soricelli, Il trapianto d'organi, Genova 1994. Per quanto riguarda in particolare il problema della commercializzazione, G. Berlinguer, V. Garrafa, La merce uomo, Roma 1993.