TRAPASSI, Pietro, detto Metastasio
TRAPASSI, Pietro, detto Metastasio. – Nacque a Roma il 3 gennaio 1698 da Felice e dalla casalinga toscana Francesca Galastri, morta il 13 giugno 1702; ebbe un fratello maggiore, Leopoldo, avviato agli studi curiali, avvocato in Roma, morto nel 1773; e due sorelle, Endimira e Barbara, nate dal secondo matrimonio del padre con Angela Lucarelli: se ne ha notizia dall’epistolario (nel 1729 risultano nubili; Lettere, in Tutte le opere, a cura di B. Brunelli, I-V, 1943-1954, III, pp. 47 s.); Endimira morì prima del 1758, Barbara nel 1772.
Il padre, soldato pontificio di origine assisiate e negoziante di generi alimentari, affidò il ragazzo alla tutela di Gian Vincenzo Gravina, letterato e giurista, che ne grecizzò il nome in Metastasio e lo mandò a Scalea, nella Calabria Citeriore, a studiare dal cugino Gregorio Caloprese, matematico e filosofo cartesiano. Tornato a Roma, Metastasio prese gli ordini minori, quindi si trasferì a Napoli, entrando nello studio dell’avvocato Giovanni Antonio Castagnola, e pubblicò da Michele Muzio un volume di Poesie (1717) che conteneva fra l’altro Il ratto d’Europa, «idillio» in versi ricercati, esclusivamente sdruccioli, e Giustino, tragedia in cinque atti con lieto fine, in endecasillabi e settenari sciolti, salvo le parti strofiche dei cori conclusivi. Qui l’indovino Cleone e l’imperatore Giustiniano, zio del protagonista Giustino II (in realtà l’inetto sovrano che regnò dal 565 al 578), predicono i trionfi del «sesto Carlo» d’Asburgo. Nel 1718 La strada della gloria, «sogno» in terzine per la morte di Gravina, e la «canzonetta» intitolata La primavera gli fruttarono l’ammissione in Arcadia con il nome pastorale di Artino Corasio.
Nel 1721 proseguì la marcia di avvicinamento agli Asburgo in occasione delle nozze di Antonio Pignatelli con Anna Francesca Pinelli di Belmonte, scrivendo Endimione (30 maggio; musica di Domenico Sarro) dedicato a Maria Anna, sorella dello sposo, dama di corte a Vienna e moglie di Johann Michael von Althann. Seguirono poco dopo Gli orti esperidi (28 agosto; Nicola Porpora) per il compleanno dell’imperatrice Elisabetta Cristina di Braunschweig-Wolfenbüttel. In entrambi i casi la prima donna fu il soprano Marianna Benti Bulgarelli, come pure nel Siface (1723; Francesco Feo), riscrittura della Forza della virtù di Domenico David (Venezia 1693), offerta al cardinale Michael Friedrich von Althann, fratello di Johann Michael e viceré austriaco di Napoli.
Al viceré gli impresari del teatro napoletano di S. Bartolomeo dedicarono anche il primo dramma nuovo di Metastasio, ossia Didone abbandonata (Carnevale 1724; Domenico Sarro), cantata da una coppia di stelle, la Benti e il contralto Nicola Grimaldi. Il dramma termina con un ampio monologo dell’eroina, suicida come nell’Eneide. A Venezia per il Carnevale 1726 andò in scena Siroe re di Persia (musica di Leonardo Vinci), subito ripreso a Napoli e a Roma, con lieto fine, con la Benti nella parte di Emira «in abito da uomo» e con il nome arcadico del poeta esplicitamente citato nel frontespizio della princeps. Dopo una serie di viaggi tra Napoli e Roma, con qualche puntata a Venezia, Metastasio si stabilì a Roma; tra il dicembre e il gennaio del 1727-28 nel palazzo della Cancelleria fu cantato il suo primo «componimento sacro», promotore il cardinale Pietro Ottoboni, suo padrino e nipote di papa Alessandro VIII (Per la festività del SS. Natale; Giovanni Battista Costanzi). Le esecuzioni ebbero luogo il 24 e il 26 dicembre e il 4 gennaio.
Nel biennio 1728-29, tre drammi di Metastasio andarono in scena quasi in contemporanea a Roma (teatro delle Dame) e a Venezia (teatro di S. Giovanni Grisostomo): Catone in Utica nel gennaio del 1728 a Roma (Vinci) e in dicembre a Venezia (Leonardo Leo), spostando però fuori scena il suicidio del protagonista per compiacere l’impresario e il pubblico; Ezio, che include una lode sperticata sulla fondazione della Repubblica Serenissima, nel novembre del 1728 a Venezia (Porpora) e nel gennaio del 1729 a Roma (Pietro Auletta); Semiramide riconosciuta, con il ruolo della prima donna en travesti, nel febbraio del 1729 a Roma (Vinci) e a Venezia (Porpora). Quando, con lettera del 31 agosto 1729 dell’intendente dei teatri imperiali di Vienna, Luigi Pio di Savoia, gli giunse l’invito degli Asburgo – sollecitati dal poeta cesareo allora in carica, Apostolo Zeno – forse non del tutto casualmente Metastasio compose un dramma sulla sovranità illuminata, ossia Alessandro nell’Indie, anche se non rinunciò alle trame oscure nel sanguinario Artaserse, entrambi dati con musica di Vinci al teatro delle Dame per il Carnevale romano del 1730 (il secondo fu ripreso a Venezia una settimana dopo, con musica di Johann Adolf Hasse). Nel bilancio complessivo dei sette anni trascorsi da adulto durante il periodo italiano, Metastasio scrisse un pasticcio, due drammi di soggetto mitologico e cinque storici, sia pure opportunamente rivisitati, un componimento sacro, una mezza dozzina di feste profane e circa trenta lettere sopravvissute.
Giunto a Vienna il 17 aprile 1730, il novello poeta cesareo prese e poi mantenne la residenza in Michaelerplatz (accanto alla Hofburg), nella casa dei Martinez, una famiglia di origine spagnola che aveva conosciuto a Napoli, dove Nicolò, futuro padre del bibliotecario imperiale Giuseppe e della compositrice Marianna, poi nominati eredi dal poeta, era stato maestro di camera della nunziatura apostolica. Per un emolumento complessivo di 4400 fiorini annui, il servizio cesareo prevedeva in genere un’azione sacra destinata alle penitenze quaresimali della corte, a cominciare dalla Passione di Gesù Cristo signor nostro, musicata dal vicemaestro di cappella in carica, il veneziano Antonio Caldara (1730), e seguita da altre sei, tutte durante il regno di Carlo VI (Sant’Elena al Calvario, 1731; La morte d’Abel, 1732; Giuseppe riconosciuto, 1733; Betulia liberata, 1734; Gioas re di Giuda, 1735; Isacco figura del Redentore, 1740). Oltre a queste, Metastasio scrisse una decina di feste e altrettanti drammi, otto di argomento storico per l’onomastico del sovrano, che cadeva il 4 novembre (Demetrio, 1731; Adriano in Siria, 1732; Demofoonte, 1733; La clemenza di Tito, 1734; Temistocle, 1736), o per il compleanno dell’imperatrice, festeggiato il 28 agosto (L’olimpiade, 1733; Ciro riconosciuto, 1736; Zenobia, 1737), più due mitologici, uno per il Carnevale (Issipile, 1732) e l’altro per il matrimonio di Maria Teresa con Francesco Stefano di Lorena (Achille in Sciro, 1736). Tutte le opere andarono in scena con le partiture di Caldara fino alla sua morte (29 dicembre 1736), tranne Issipile, intonata da Francesco Bartolomeo Conti, compositore di camera e tiorbista imperiale, e ovviamente Zenobia, affidata a Giovanni Bononcini, reduce dai successi londinesi, ma da questi presumibilmente mai composta e dunque tenuta probabilmente a battesimo da Luca Antonio Predieri (1740). Da Vienna, lontano dagli affetti giovanili e con più tempo da spendere in privato rispetto agli impegni del convulso periodo italiano, Metastasio indirizzò circa 150 lettere agli amici (in primis alla Benti), ai conoscenti e al fratello Leopoldo.
Il 20 ottobre 1740, poco prima dell’onomastico, morì Carlo VI, gettando nella «desolazione» il suo fedele poeta (Lettere, cit., III, p. 195). Mancava un erede maschio, dal momento che il piccolo arciduca Leopoldo era vissuto meno di un anno nel 1716. Secondo la prammatica sanzione del 1713, il trono spettava ai discendenti dell’imperatore in carica, femmine comprese, ossia alla ventitreenne Maria Teresa, anziché alla figlia del suo predecessore, il fratello Giuseppe I. Due mesi dopo la dipartita del sovrano, scoppiò la guerra di successione austriaca, conclusa soltanto nel 1748 con la pace di Aquisgrana. Metastasio scappò da Vienna e si rifugiò in Croazia all’inizio del conflitto, ma questo non impedì che si festeggiasse il matrimonio di Maria Anna con Carlo Alessandro di Lorena, rispettivamente sorella e cognato di Maria Teresa, celebrato dal poeta con Ipermestra (8 gennaio 1744; Hasse) sul mito coniugale delle Danaidi, soggetto già variamente impiegato dalla metà del Seicento da uno stuolo di drammaturghi e compositori.
Durante l’epoca teresiana Metastasio rallentò l’attività, scrivendo soltanto nove drammi in trent’anni. Dopo Ipermestra, fu la volta di Antigono (20 gennaio 1744) e di Attilio Regolo (12 gennaio 1750), rappresentati alla corte sassone di Federico Augusto, re di Polonia, sempre con musica di Hasse, mentre Il re pastore (27 ottobre 1751) e L’eroe cinese (13 maggio 1752) furono concepiti per essere messi in scena a Schönbrunn, «nell’imperial corte», da dame e cavalieri viennesi dilettanti, con la partitura di Giuseppe Bonno, «compositore di camera». Nel frattempo l’amico Carlo Broschi, detto Farinelli, il soprano conosciuto a Napoli quando aveva cantato quindicenne nella sua serenata Angelica (1720; Porpora), era entrato al servizio dei sovrani di Spagna e organizzava le fiestas reales nel teatro del Buen Retiro di Madrid per il compleanno di Ferdinando VI (23 settembre). A queste occasioni furono destinati i rifacimenti di Didone abbandonata (1752), Semiramide riconosciuta (1753) e Adriano in Siria (1757), rispettivamente con musica di Baldassarre Galuppi, Niccolò Jommelli e Nicola Conforto, chiamato a Madrid nel 1755 cui si deve anche l’intonazione di Nitteti (1756), un dramma nuovo ambientato ai tempi del faraone Psammetico III (da non confondere con Nitocri di Zeno). Rimase invece lettera morta il rifacimento dell’Alessandro nell’Indie, inviato in Spagna nel febbraio del 1754.
Maria Teresa fu madre prolifica di sedici figli, una dozzina dei quali raggiunse l’età adulta. Toccò al poeta cesareo celebrare gli eventi privati delle loro giovani esistenze, sin dalla più tenera infanzia: Maria Anna, poi badessa e naturalista a Praga, Maria Cristina e Maria Elisabetta eseguirono a tre L’augurio di felicità per il compleanno della nonna Elisabetta Cristina (28 agosto 1749), La rispettosa tenerezza per l’onomastico della mamma (15 ottobre 1750) e Il tributo di rispetto e d’amore per il compleanno del papà, Francesco Stefano di Lorena (8 dicembre 1754); la stessa Maria Anna, con due dame, cantò La gara per la nascita della sorellina Maria Antonietta (1755) e Il sogno per una ricorrenza imprecisata (1756); nel 1751 Maria Elisabetta si esibì con La virtuosa emulazione; nel 1753 Maria Amalia, futura duchessa di Parma, con il Primo omaggio di canto. A questo genere, quasi sempre con la musica di Georg von Reutter jr, maestro di cappella a corte e nel duomo di S. Stefano, appartennero i sei brevi «complimenti» assolo balbettati dai bambini Asburgo, mentre quelli a due voci per Maria Carolina e per Maria Antonietta, poi regine di Napoli e di Francia, vennero intonati da Hasse (1760).
Tra i compiti di Metastasio c’era anche la celebrazione di matrimoni o di eredi (e furono gli ultimi drammi musicati da Hasse): Il trionfo di Clelia per il «felicissimo parto» d’Isabella di Borbone Parma, moglie del futuro Giuseppe II (Vienna, 27 aprile 1762); Romolo ed Ersilia per le nozze di Leopoldo, allora giovane arciduca e poi imperatore dal 1790, con l’infanta di Spagna Maria Luisa (Innsbruck, 6 agosto 1765); il tardivo Ruggiero o vero L’eroica gratitudine (Milano, 16 ottobre 1771) per il connubio di Ferdinando d’Asburgo con Maria Beatrice d’Este che gli portava in dote il ducato di Modena: circostanza che avrà giustificato il ricorso a una fonte epico-cavalleresca come l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto – il poema che celebra l’origine della dinastia estense – anziché al consueto ambito storico o mitologico. Metastasio scrisse inoltre una ventina di feste teatrali bipartite per un numero di personaggi variabile da due a sei, generalmente di argomento mitologico; fanno eccezione le più celebri: Le cinesi, originariamente per Caldara (Vienna, Carnevale 1735), poi riprese ad Aranjuez da Conforto (30 maggio 1751), e L’isola disabitata per Bonno (Aranjuez, 30 maggio 1753). Se da Vienna scrisse circa 1500 lettere, compose anche una trentina di cantate, sonetti, liriche di vario genere e curò l’imponente quantità di manoscritti (perduti) destinati all’edizione da scaffale in 12 volumi che Marie-Charlotte-Marguerite Barbry, vedova dello stampatore Claude-Jean-Baptiste Hérissant, pubblicò a Parigi tra il 1780 e il 1782. L’autore non la poté vedere completata.
Morì a Vienna il 12 aprile 1782, due anni dopo l’amata imperatrice (29 novembre 1780). Fu tumulato nella cripta della chiesa di S. Michele, a due passi dalla casa dove per più di mezzo secolo aveva abitato con i Martinez.
Subito alcune imprese editoriali resero parzialmente noto il suo corposo epistolario: nel 1783 in Assisi apparvero le Lettere del signor abate Pietro Trapassi Metastasio, poeta cesareo, nobile asisano, raccolte e pubblicate da un cittadino della medesima città (ossia Ottavio Sgariglia); contemporaneamente la Storia dell’abate Pietro Trapassi Metastasio, poeta drammatico, corredata di note e di molte sue lettere, a opera di Marc’Antonio Aluigi (sempre in Assisi); nel 1784 i quattro volumi che i romani Gioacchino e Michele Puccinelli affidarono alla Raccolta di lettere scientifiche, di negozi e famigliari; nel 1785 i cinque tomi della Società Tipografica di Nizza, che aveva stampato anche le Opere in diciassette volumi dal 1783.
Dal punto di vista politico, evidente nell’epistolario e nella produzione letteraria, il poeta cesareo fu senz’altro uomo devoto ma non bigotto, lucidamente legittimista, fedele all’antico regime e lontano dalla posizione degli illuministi o dall’elogio del brutale stato di natura. Cortese con tutti e dotato di un vivace senso dell’umorismo, esibito di preferenza con gli amici, non faceva mistero della pigrizia che la sua posizione gli consentiva a Vienna, evitandogli la feroce concorrenza del libero mercato operistico internazionale, e spesso mandava a destinatari diversi la stessa lettera, lamentandosi talvolta dei compiti supplementari, come la stesura dell’Achille in Sciro che nel 1736 si aggiunse, per le nozze di Maria Teresa, al Ciro riconosciuto per il compleanno di Elisabetta Cristina e al Temistocle per l’onomastico di Carlo VI (Lettere, cit., III, pp. 142 s.).
Per quanto riguarda le fonti messe a frutto nei drammi, la vexata quaestio si può dividere schematicamente in tre argomenti: l’intreccio, le situazioni topiche particolari, gli artifici retorici. Per il primo punto, ossia per la tessitura della vicenda, Metastasio tace i legami con i moderni italiani e francesi, ma dichiara spesso i debiti contratti con i classici greci o latini e con gli umanisti, a meno che non siano troppo numerosi e scontati. Per esempio, Catone può vantare una lunga serie di antecedenti che il poeta ritenne inutile elencare: almeno Plutarco (Catone il Minore LVI-LXXIII, e Cesare LII-LIV), Cassio Dione (Storia XLIII, 10-13), Dante (Purgatorio I, 28-108), la Farsalia di Lucano ripresa da Petrarca (Rime XLIV, CII), oltre a Cicerone che ne parla dappertutto. Beninteso l’Uticense si trovava pure in teatro, fra l’altro nel Cato di Joseph Addison (1713) rimaneggiato da Pier Jacopo Martello (1723). Analogamente Romolo ed Ersilia riguardava il «celebre ratto [delle sabine], tanto in ogni secolo rammentato» da una serie di autori taciuti dal poeta, ai quali attinse anche Antoine Houdar de La Motte nel suo ben diverso Romulus (1722).
Al di là del problema delle fonti, come pure delle ambientazioni vuoi storica vuoi mitologica vuoi geografica, tutti i drammi per musica di Metastasio che appartengono al genere ‘serio’ parlano dell’ordinamento dello Stato, sia esso monarchico o repubblicano, e sono costruiti in modo analogo. Ostentano al pubblico l’unità classica di tempo, grazie alle allusioni cronologiche disseminate nei testi («oggi», «in un sol giorno», «in questo giorno»). Quella di luogo non si limita alla ristretta piazza dei greci ma si allarga a una città (Roma, Seleucia sul Tigri, Canopo in Egitto ecc.), a un ambiente agreste (le «sponde dell’Idaspe», le «campagne d’Elide») o a un’isola intera (Lemno, Sciro). L’azione in tre atti racconta le avventure di due coppie di giovani amanti (soprani maschi e femmine), coronate dal lieto fine coniugale e dal trionfo della sovranità legittima che compete al principe o al popolo. Qualche variante dello schema si trova in Didone e in Catone, dove mancano i matrimoni, e in Attilio Regolo, dove l’eroe eponimo lascia la patria per affrontare a Cartagine un supplizio ben noto e terribile ma taciuto dai personaggi del dramma ed escluso dalla scena.
Per quanto riguarda le situazioni topiche, si osservano alcuni stereotipi, fra cui gli addii dell’una o dell’altra coppia, i loro bisticci e le successive riconciliazioni, per i quali si potrebbe invocare una lunghissima serie di precedenti letterari, teatrali e operistici. Ma soprattutto Metastasio istituisce un ordine arcadico per gli «accidenti» tradizionali che non poteva evitare e che Benedetto Marcello aveva preso ferocemente in giro fin dal 1720 nel pamphlet Il teatro alla moda. Per esempio, la tazza con il veleno che nessuno beve, esibita e passata di mano in mano, occupa una lunga sezione del finale in Artaserse (atto III, scene 8-11); il sacrificio mancato di Licida nell’Olimpiade, per il quale l’innamorata Argene si candida a sostituire la vittima (III, 6-9), oltre all’opera seicentesca ricorda i casi di Olindo e Sofronia in Tasso (Gerusalemme II, 23-32), di Mirtillo e Amarilli in Guarini (Il pastor fido V, 2, vv. 285-343), di Sidonio e Dorisbe in Marino (Adone XIV, 303-306), di Cinna ed Émilie nel Cinna di Pierre Corneille (V, 2); Giasone si addormenta beatamente «sopra un sasso» in modo che Learco possa tentare di ucciderlo nel sonno (Issipile II, 10-12), mentre una lettera fatidica del padre viene recapitata a Lisinga nella prima scena dell’Eroe cinese.
A dispetto di quanto affermano taluni contemporanei, replicati fino a oggi, spesso altre situazioni meno topiche ma sovente impiegate da Metastasio non si trovano in drammi anteriori sul medesimo soggetto, o dal titolo simile, bensì dove il lettore meno se l’aspetta. Per esempio, in Didone, che beninteso l’autore dichiara tratta da Virgilio (Eneide IV), oltre che da un Ovidio meno scontato (Fasti III, 551-656), il primo incontro della protagonista con Enea non si basa sull’opera omonima di Giovanni Francesco Busenello (1641) né sulle tragedie francesi di George de Scudéry (Didon, 1637), di Antoine-Jacob Montfleury (L’ambigu comique, 1673) o di Louise-Geneviève Gillot de Saintonge (Didon, 1693), ma imita Racine (Bérénice II, 4) e l’episodio di Rinaldo e Armida in Tasso (Gerusalemme XVI, 54-60). Al contrario Demetrio, sulle avventure del Nicatore di cui parlano fra l’altro Diodoro (Biblioteca, XXXI, 40a, XXXIII, 9c), Appiano (Storia XI, 8, 46-47; XI, 11, 67) e Marco Giuniano Giustino (Epitome XXXV, 2), checché se ne dica, malgrado la topica scena degli addii non assomiglia né a Tite et Bérénice di Corneille (1671) né a Bérénice di Racine (1671), ma contrae qualche debito con Don Sanche d’Aragon dello stesso Corneille (1649). Diverso il caso della Clemenza di Tito, la cui storia, secondo l’autore, s’ispira a Svetonio (Titus IX, 1-2), a Sesto Aurelio Vittore (Caesares X), a Dione (Storia LXVI, 18-19, 2) e a Giovanni Zonara (Epitome XI, 18), i quali dipingono il carattere dell’imperatore ma dedicano poche righe all’azione unitaria della pièce ossia alla congiura dei seguaci di Lentulo e al «pieno e generoso perdono» del principe, «contento d’averli paternamente ripresi»: in compenso il dramma metastasiano non deriva da Tito di Nicolò Beregan (1666) né da Tito e Berenice di Carlo Sigismondo Capece (1714); semmai le riflessioni del sovrano e l’invettiva di Vitellia s’ispirano al Cinna di Corneille (1641) e all’Andromaque di Racine (1667).
Per quanto riguarda gli artifici retorici, le reminiscenze degli antichi, degli italiani o dei francesi vanno intese nel modo spiegato dallo stesso Metastasio nella lettera del 30 aprile 1761 al drammaturgo francese Pierre-Laurent Buyrette, detto Dormont de Belloy, allora a Pietroburgo: «Provveduto con la lettura di tutta la merce teatrale di tutte le culte nazioni, ho sempre stabilito di scrivere originalmente cosa propria; e se la circoscritta condizione umana o la fedeltà della memoria, più tenace custode di quelle cose che ha ricevute con ammirazione e piacere, mi ha suggerito nelle occasioni analoghe il bello da me già letto, il più delle volte credendomene inventore, me ne sono di buona fede applaudito; e quando mi sono avveduto del contrario, ho creduto che mi onorasse abbastanza il giudizio della scelta e dell’impiego de’ preziosi materiali de’ quali mi avean fornito le più illustri miniere; e mi sarei vergognato della mia debolezza se mi fossi indotto ad abbandonar l’ottimo per la puerile vanità di creare il diverso» (Lettere, cit., IV, p. 196).
Metastasio apprezza Tibullo, Seneca, Petrarca più di Dante o Boccaccio, Ariosto meno di Tasso e Marino, e impiega un linguaggio limpido, alto e adeguato alla materia come vuole Orazio, autorità ch’egli tradusse e preferì ad Aristotele, nonostante l’ampio suo Estratto dell’Arte poetica (completato nel 1773, rimasto manoscritto e apparso nel volume XII dell’edizione Hérissant). La sua versificazione è nettamente divisa fra gli endecasillabi sciolti, liberamente mescolati ai settenari nel recitativo, e le strofe destinate ai brevi cori celebrativi, al duetto riservato alla prima coppia e soprattutto alle arie, quasi sempre di due strofe, perlopiù isometriche, distribuite secondo il rango dei personaggi e secondo la varietas delle tipologie (di paragone, di sdegno, di trambusto e, ovviamente, d’amore; ma le tassonomie coeve variano a seconda dei commentatori, cfr. R. Strohm, Italienische Opernarien des frühen Settecento, I, Köln 1976, pp. 223-260).
A questa formula vincente, che costituì un modello replicato per tutto il Settecento e oltre, arrise un successo sterminato, sia editoriale sia teatrale, da Copenaghen a Palermo, da Lisbona a Mosca, dalle piazze importanti come Madrid a quelle secondarie come Bergamo. Fra i tanti casi eclatanti basterà citare Didone, ripresa in più di duecento occasioni con intonazioni vecchie o nuove almeno fino agli anni Trenta del XIX secolo; L’olimpiade che festeggiò l’onomastico di Caterina II appena salita al trono di Russia (1762); La clemenza di Tito che opportunamente rimodernata incoronò Leopoldo II d’Asburgo re di Boemia con le note di Mozart (Praga 1791). Non si contano i passi memorabili estratti dai drammi di Metastasio che assunsero valenza aforistica («È la fede degli amanti / come l’araba fenice», Demetrio II, 3), né le arie usate a decine in versione cameristica da compositori oscuri o famosi, come Il rimprovero che Rossini pubblicò a Parigi nelle Soirées musicales per voce e pianoforte (1835), esercitandosi poi numerose volte con il testo ossimorico di «Mi lagnerò tacendo / della mia sorte amara» (Siroe II, 1).
La fortuna del poeta cesareo non si esaurisce con l’imitazione dei librettisti che lo seguirono, ma investe critici, polemisti e fruitori dal Sette al Novecento. Fra questi: Ranieri Calzabigi, Giuseppe Baretti e Stefano Arteaga che gli dedicarono saggi entusiatici (rispettivamente: Dissertazione su le poesie drammatiche del signor abate Pietro Metastasio nell’edizione Quillau del 1755; Le opere drammatiche dell’abate Pietro Metastasio nella Frusta letteraria del 1763; Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente del 1785); Francesco De Sanctis che, pur non apprezzandolo incondizionatamente, lo considerava un importante «stato di transizione» fra l’antico e il moderno (La nuova letteratura, in Storia della letteratura italiana del 1870-1871); Giosue Carducci che si meravigliava per la quantità di riprese e di edizioni alle quali non poteva star dietro (Pietro Metastasio del 1882); senza contare i patrioti del Risorgimento che recitavano la canzonetta intitolata La libertà, sperando di ottenere la costituzione, o le signore di buona famiglia, innamorate di Megacle nell’Olimpiade, oppure i curatori fascisti che sfornarono una quarantina di volte Attilio Regolo, travestendolo con l’orbace.
Opere. Edizioni moderne: Tutte le opere, a cura di B. Brunelli, I-V, Milano 1943-1954 (i voll. III-V contengono le Lettere); Oratori sacri, a cura di S. Stroppa, Venezia 1996; Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile, a cura di E. Selmi, Palermo 2000; Drammi per musica, a cura di A.L. Bellina, I-III, Venezia 2002-2004; www. progettometastasio.it.
Fonti e Bibl.: E. Sala Di Felice, M.: ideologia, drammaturgia, spettacolo, Milano 1983; Convegno indetto in occasione del II centenario della morte di M., Roma 1985; M. e il melodramma, a cura di E. Sala Di Felice - L. Sannia Nowé, Padova 1985; M. e il mondo musicale, a cura di M.T. Muraro, Firenze 1986; M.G. Accorsi, Vent’anni di studi metastasiani (1968-1988), in Lettere italiane, XLI (1989), pp. 604-627; S. Stroppa, Fra notturni sereni. Le azioni sacre del M., Firenze 1993; R. Di Benedetto, Sul lessico di M.: «magistrale», «popolare» e altre categorie estetiche, in Le parole della musica, I, a cura di F. Nicolodi - P. Trovato, Firenze 1994, pp. 169-176; A. Chegai, L’esilio di M.: forme e riforme dello spettacolo d’opera fra Sette e Ottocento, Firenze 1998, 2000; G. de Van, Les jeux de l’action. La construction de l’intrigue dans les drames de Métastase, in Paragone, s. 3, ottobre-dicembre 1998, nn. 19-20, pp. 3-57; A. Beniscelli, Felicità sognate. Il teatro di M., Genova 2000; Il melodramma di P. M.: la poesia, la musica, la messa in scena e l’opera italiana nel Settecento, a cura di E. Sala Di Felice - R.M. Caira Lumetti, Roma 2001; E. Benzi, Le forme dell’aria: metrica, retorica e logica in M., Lucca 2005; R. Mellace, L’autunno del M.: gli ultimi drammi per musica di Johann Adolph Hasse, Firenze 2007; M. Burden, Establishing a text, securing a reputation. M.’s use of Aristotle, in Ancient drama in music for the modern stage, a cura di P. Brown - S. Ograjenšek, Oxford 2010, pp. 177-192; C. Caruso, M. e il dramma antico, in Dionysus ex machina, I (2010), pp. 152-185; P. Weiss, L’opera italiana nel ’700, Roma 2013, ad ind.; A. Lanzola - L. Beltrami, «Leggete a chi vi piace ma non date ad alcuno copia delle mie lettere». Per un nuovo avviamento all’edizione digitale dell’epistolario metastasiano, in «Fur comuni a noi / l’opre, i pensier, gli affetti», a cura di Q. Marini - S. Morando - S. Verdino, Novi Ligure 2018, pp. 67-92.