traduttese
s. m. Il linguaggio usato dai traduttori, talvolta caratterizzato da un’eccessiva semplificazione di formule e registri linguistici.
• La letteratura italiana contemporanea è scritta, anziché nella sua propria lingua, in «traduttese», ovvero come se fosse tradotta dall’inglese? Se ne parla da tempo, e Giuseppe Antonelli, sul «Sole 24 ore», propone alcuni esempi piuttosto interessanti in proposito. (Mario Baudino, Stampa, 30 maggio 2008, p. 38, Società e Cultura) • Altra cosa è il «traduttese», una lingua troppo pulita e asettica, legata a regole desuete di eleganza stilistica. Ad es. nel traduttese c’è una vera e propria fobia per la ripetizione di una parola, anche quando voluta dall’autore: non si ripete mai due volte la parola «disse» o «andò» (nel primo caso «sostenne», «dichiarò», «replicò»…, nel secondo «si recò», «si diresse», «raggiunse»). Inoltre il traduttese, corretto ma insapore, disdegna, chissà perché, elementi molto creativi della nostra lingua quali i «morfemi», quei pezzetti di parole che le modificano, come diminutivi e accrescimenti («casine», «manone», «occhietti»…), o superlativi (in un testo tradotto non si trova «case bellissime» ma «case molto belle»). (Filippo La Porta, Messaggero, 7 dicembre 2014, p. 22, Cultura) • [tit.] Ma il «traduttese» non può bastare [testo] [...] La lingua media del 70% degli scrittori italiani contemporanei è per loro l’unica possibile: nel senso che non si tratta di una opzione meditata, ma di semplice istinto ‒ quello che li spinge a scrivere verso l’unica forma in cui sanno scrivere. Spesso più scialba che sciatta: estensione di quel «traduttese» (copyright del linguista Giuseppe Antonelli), che è rimasticatura di romanzi letti solo in traduzione. (Paolo Di Paolo, Avvenire, 2 febbraio 2017, p. 24, Agorà Cultura).
- Derivato dal s. m. tradutt(ore) con l’aggiunta del suffisso -ese.
> doppiaggese.