Tra le due guerre puniche
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Negli anni immediatamente successivi alla prima guerra punica, i Romani approfittano dell’indebolimento di Cartagine, scossa anche dalla terribile rivolta dei mercenari sul proprio territorio, per impadronirsi anche della Sardegna. Ma i Barcidi, che soppiantano la fazione aristocratica al potere a Cartagine, preparano la riscossa, partendo dalla penisola iberica: è del 221 a.C. la presa di Sagunto da parte del ventiseienne Annibale. I Romani intanto sono impegnati su più fronti: le guerre illiriche contro Teuta e Demetrio di Faro e la lotta contro i Celti che apre la via alla conquista dell’Italia settentrionale.
Dopo la sconfitta Cartagine è stremata. Fino a che il governo resta nelle mani della fazione oligarchica, i rapporti con Roma rimangono buoni, ma la situazione muta con la rivolta dei mercenari. Rientrate in Africa, le truppe di Sicilia vengono prima riunite all’interno di Cartagine, poi inviate a Sicca Veneria, un centinaio di miglia all’interno, dove attendono invano che il governo punico paghi gli stipendi; deluse, vanno ad accamparsi presso Tunisi. Dell’intera loro forza assumono il comando il Campano Spendios e il Libico Matho, che guadagna alla rivolta l’apporto dei suoi consanguinei, esasperati dal dominio cartaginese.
Cominciata con l’assedio di Utica e di Hippo Diarrhytus (Biserta) da parte dei ribelli, la guerra è condotta dapprima, per i Punici, da Annone il Grande, capo della fazione oligarchica. L’assenza di risultati induce però il popolo a richiamare Amilcare, rimasto in disparte. Sullo scorcio del 238 a.C., dopo più di tre anni di lotta feroce, gli insorti vengono annientati: i superstiti, trascinati in città, sono messi a morte tra i tormenti. Anche Utica e Hippo Diarrhytus, che si sono unite alla rivolta, devono arrendersi.
I vertici dello stato punico e la sua struttura subiscono ora mutamenti profondi: ad Annone e al partito oligarchico si sostituisce la fazione dei Barca, il cui capo, Amilcare, avvia una riforma "democratica" in senso lato. Appoggiandosi alle classi inferiori, egli procede a quella che è stata definita una "rivoluzione popolare", ma soprattutto salda tra loro due elementi fino ad allora inconciliabili: la plebe e l’esercito. La diffidenza di Roma, restia a dialogare con il suo regime, viene aggravata dall’ostilità di Amilcare e dai suoi propositi di rivincita. Si avviano così gli eventi che condurranno al nuovo confronto.
Dopo le prime vittorie degli insorti si ribellano anche i mercenari di Sardegna. E gli ufficiali e i Cartaginesi presenti nell’isola massacrano il comandante Bostare. Assaliti dai Sardi, gli ammutinati chiedono aiuto a Roma, che rifiuta. Da ultimo, però, il senato accoglie un nuovo appello, inviando truppe. Alla reazione cartaginese, Roma minaccia la ripresa della guerra e Cartagine deve abbandonare la Sardegna e pagare un’indennità aggiuntiva di 1200 talenti.
L’isola è il più prezioso dominio oltremare dei Punici e costituisce il cardine delle sue rotte mediterranee. Terra di antica frequentazione fenicia, ha conosciuto dall’VIII secolo una colonizzazione estesa fino alle coste settentrionali. Oltre che con la presenza militare, Cartagine se ne è garantita il controllo attraverso un processo di assimilazione con le genti indigene. Il risultato non è stato però il medesimo ovunque e, al momento di scegliere da quale parte stare, non tutte le componenti le sono favorevoli: le fonti provano che sono i Sardi a schierarsi con Cartagine e che da loro è animata la resistenza.
Quanto agli abitanti dei centri costieri, di origine fenicia, il dato archeologico sembra escludere che siano toccati dalla rivolta. Nell’isola gli insorti massacrano i Cartaginesi, ma il termine va riferito ai soli cittadini della metropoli e alle loro famiglie e non comprende i Fenici, che non erano stricto sensu cittadini. Costoro non solo rimangono indenni, ma si schierano forse prima con i mercenari e poi con Roma: non è un caso che, nel 238 a.C., l’isola sia, secondo il bizantino Zonara, occupata senza combattere. Tra V e III secolo a.C. la Sardegna si è aperta al flusso di genti dal Nordafrica, dirette verso l’interno; una fase che ha coinvolto le élite indigene, emarginando i nuclei fenici. Deluse da Cartagine, prodiga di autonomia politica ma rigida nel controllo economico, le città costiere sono attratte dalle nuove prospettive nel Tirreno.
Fin dal 241 a.C. i mercanti italici frequentano le coste del Nordafrica e, allo scoppio dell’insurrezione, prendono a rifornire i ribelli. Secondo Polibio quasi 500 di loro, sorpresi dalle navi militari puniche, vengono internati a Cartagine. Il senato protesta e ne ottiene la liberazione ma, chiusa la vertenza, ordina alle navi sue e dei socii di cessare i traffici con gli insorti e di rifornire i Punici. In questa stessa occasione respinge, nel rispetto del trattato, sia il primo invito dei mercenari di Sardegna, sia una deditio da parte di Utica.
I rapporti mutano con Amilcare ai vertici dello stato punico. Roma rivendica allora la libertà di commercio anche in Africa e con i nemici di Cartagine. Riprendono così i contatti con i ribelli, ma riprendono anche gli incidenti. Lo confermano alcuni passi di Appiano riferibili alla fase finale della rivolta, quando ormai i mercenari, logorati dalla carestia, sono allo stremo. Diversa è, stavolta, la sorte dei mercanti catturati, che vengono uccisi.
Questa situazione spinge Roma ad accogliere il nuovo appello dalla Sardegna. Condiviso dalle colonie fenicie, desiderose di libertà commerciale, l’invito è considerato richiesta di governi legittimi, cui le violazioni puniche al trattato di Catulo rendono lecito rispondere. Nel 238 a.C. Roma sbarca in Sardegna e in Corsica (dove già controlla il porto di Alalia/Aléria); ma la conquista non è compiuta. Quando, nel 227 a.C., organizza le isole maggiori, la tregua in Sardegna e Corsica è momentanea. Il dominio romano rimane precario fino alla prima età imperiale.
Crollata con la morte di Pirro la potenza epirotica, una nuova minaccia incombe sul basso Adriatico. L’insidia dei pirati illirici si è aggravata da quando il regulo Agrone ha riunito alcune tribù, organizzando la guerra di corsa.
Con l’appoggio della Macedonia, gli Illiri hanno esteso il loro raggio di azione e nel 231 a.C., guidati dalla vedova, Teuta, hanno assalito l’Epiro e preso la capitale, Fenice. L’uccisione di alcuni negotiatores italici spinge Roma a protestare. Già nel 244 a.C. era nata la colonia latina di Brundisium (Brindisi) per sorvegliare il Canale d’Otranto: ora Roma ha i mezzi per intervenire. Oltre alle lamentele dei socii, la spinge l’interesse verso rotte capaci di assicurare preziosi flussi di materiale strategico.
Temendo di urtare la suscettibilità dei Greci, il senato ne attende l’invito e coglie poi l’occasione offerta dalla morte di Demetrio II di Macedonia, evitando il confronto. Il casus belli è offerto dall’uccisione di Lucio Coruncanio, uno dei legati inviati da Teuta a protestare. Verso la sponda illirica fa vela (229 a.C.) una flotta di 200 quinqueremi, al comando del console Cn. Fulvio Centumalo, mentre da Brindisi traghettano le legioni agli ordini del collega, Lucio Postumio Albino. Demetrio di Faro, a capo del presidio, consegna Corcyra, mentre i Romani liberano le altre poleis minacciate ed espugnano alcuni centri nemici. Impotenti a resistere, gli Illiri arretrano; Teuta rinuncia ad ogni mira su quelle terre, paga un tributo e promette di non superare in armi il centro di Lissos (Lesh).
Nell’orbita della repubblica entrano ora, oltre ad alcune tribù costiere, le città di Apollonia, Dyrrachium, Issa (Lissa) e la stessa Corcyra. Liberi dalla minaccia barbarica, i Greci, riconoscenti, ammettono Roma agli agoni istmici in Corinto: atto che vale una patente di grecità. Si aprono le porte del mondo ellenico, ma comincia l’attrito con la Macedonia.
Dieci anni dopo (219 a.C.) Roma interviene ancora. Con la connivenza del nuovo re macedone, Antigono Dosone, Demetrio – lasciato a capo della natia Faro – si unisce al principe illirico Scerdilaidas, forse fratello di Agrone e guida una squadra navale a compier razzie contro Pilos e le Cicladi. Tornato a Faro, viene attaccato da entrambi i consoli, Marco Livio Salinatore e Lucio Emilio Paolo; e, fuggiasco, ripara in Macedonia.
I Celti della Cisalpina erano rimasti in pace per quarantacinque anni. Nel 236 a.C., tuttavia, i re dei Boi, Ati e Galato, chiamano da oltralpe una forza di Galli Gesati. Costoro si spingono sotto le mura di Ariminum (Rimini), intimando ai coloni di andarsene. I consoli, accorsi in difesa, inviano a Roma i messi dei Celti, delegando la risposta al senato. Questa dilazione provoca una frattura tra i nemici e la discordia sfocia in lotta intestina. Uccisi i loro re per avere trattato senza informarli, i Boi vengono a battaglia con i Gesati: evolutisi al contatto con Umbri ed Etruschi, essi diffidano di un popolo più primitivo di loro.
Malgrado Polibio accenni ai Gesati (da gaesum, un tipo di giavellotto) come a mercenari, essi mettono in atto la prassi della “migration negociée” (Roger Dion). Caratteristica della cultura celtica, tale consuetudine prevede lo spostamento di un popolo da un punto all’altro della Gallia, pacifico perché concordato con gli abitanti della regione verso la quale è diretto. I Gesati chiedono ai Romani di abbandonare un territorio che considerano loro, una pretesa che si giustifica solo nel caso in cui, chiamati dai Boi, essi si sentano certi del loro diritto.
La politica romana registra inquietanti sviluppi. Capo degli agrari estremisti, Caio Flaminio Nepote proporrà di lì a poco (232 a.C.), da tribuno della plebe, una legge de agro Gallico Piceno viritim dividundo, per la lottizzazione dell’agro gallico e piceno su cui erano stanziati i vinti Senoni. Al provvedimento si oppone invano la maggioranza del senato. Diffidenti verso le colonizzazioni viritane, i patres rifiutano questa in particolare, di grande ampiezza e diretta verso sedi lontane, che toglierà a masse di cittadini la possibilità di compiere i doveri civici e religiosi. Invano: l’appoggiano i capi della plebe rurale, decisi a soddisfare i loro protetti, piccoli e medi proprietari terrieri.
I Boi assistono così inquieti all’espulsione dei Senoni. La "pulizia etnica" nell’ager Gallicus comincia – l’archeologia lo conferma – in questi anni: l’aprirsi di un vasto spazio disabitato spiega l’appello ai Transalpini, chiamati a ripopolarlo sottraendolo ai coloni di Roma. La cacciata dei Senoni costituisce però solo una fase del programma, volto alla conquista dell’intera piana del Po, sicché quello del 236 a.C. risulta, a sua volta, solo l’episodio iniziale di una lunghissima lotta. Convinti che i Romani non combattano più per “l’egemonia e il potere [...], ma per distruggerli e sterminarli” (Polibio), i Boi, il cui territorio è il primo sul percorso dei coloni, promuoveranno poco dopo – insieme con gli Insubri (al centro della Lombardia attuale), forse i Lingoni (a oriente dei Boi, a sud del Po), e soprattutto una nuova e più cospicua forza di Gesati – la coalizione che, nel 225 a.C., invaderà l’Etruria.
I Romani temono una nuova puntata su Ariminum, e inviano a proteggerla il console Lucio Emilio Papo; ma i Boi deviano l’armata celtica oltre Appennino. L’invasione del 225 a.C. punta verso l’Etruria; e si muta in una grande razzia. Forse 70 mila guerrieri giungono fino all’altezza di Chiusi; poi, carichi di bottino e incalzati dal console Papo, accorso da Ariminum, arretrano piegando verso la costa. Qui, presso il promontorio di Talamone, vengono presi alle spalle dall’esercito, che – al comando del collega, Caio Attilio Regolo – era tornato dalla Sardegna. Regolo cade sul campo, ma l’orda celtica viene distrutta.
Ai Romani si apre la valle del Po e le strutture create allora sono destinate al suo controllo. Sorta all’imbocco della Cisalpina, oltre la strettoia sopra Ancona, la latina Ariminum (Rimini) può essere, al bisogno, catenaccio o tramite. Nel 220 a.C. la città viene collegata a Roma dalla via Flaminia, “la strada delle conquiste della plebe rurale” (Plinio Fraccaro) lungo la quale risalgono eserciti e coloni. Due anni dopo vengono dedotti, sul Po, i centri latini di Piacenza e Cremona, che garantiscono l’accesso alla Transpadana. Il loro territorio protegge il guado sul fiume, separa la terra dei Boi da quella degli Insubri vietando collusioni fra le tribù ostili, e collega invece Anares e Cenomani, alleati di Roma. Su questo sistema poggia la strategia di conquista verso il cuore della Cisalpina.
I Romani paiono usciti così dalla rotta di collisione con Cartagine. A capo dei Punici in Spagna vi è il moderato Asdrubale; e l’azione dei leader agrari, volta ad allontanare il senato dalla mercatura, affievolisce gli interessi mediterranei e riduce le prospettive di uno scontro. Appoggiate da Caio Flaminio, passano due leggi: la prima (lex Claudia, dal nome del tribuno che la propone) volta a impedire che i patres possiedano navi di portata superiore alle 300 anfore (e quindi a escluderli dal commercio transmarino), la seconda a proibire la partecipazione agli appalti. Ma il comando in Spagna cambia; e i Cisalpini cadono tra le braccia di Annibale. Concordato sotto la regia dei Punici, l’intervento del Barcide è l’elemento nuovo nel quadro di una guerra decisiva.
Oltre al figlio Annibale, di nove anni, accompagna Amilcare in Spagna il genero Asdrubale, enfant prodige della classe dirigente punica, suo braccio destro e prediletto del popolo di Cartagine. Capi indiscussi della fazione democratico-nazionalistica, suocero e genero sono le voci più autorevoli a favore dell’ellenismo nel dibattito in corso in città.
Il loro disegno è ampio e complesso: da oltre un secolo nel mondo orientale sorgono figure che, sull’esempio di Alessandro Magno, si pongono al di sopra dei mortali e oltre le leggi, cingendo la corona. Al loro modello si ispirano i Barcidi, che, dopo l’indebolimento delle strutture oligarchiche, puntano al ripristino della potenza punica attraverso la conquista di vasti domini oltremare e forse – esito ultimo, dopo una guerra di rivincita con Roma – alla presa del potere nella stessa Cartagine.
Occorre innanzitutto controllare la Spagna e le sue miniere, per risollevare l’economia e consentire il mantenimento di forti eserciti mercenari. Lontana da ogni ingerenza, la penisola potrebbe offrire anche un ricco serbatoio di reclutamento tra indigeni che sono ottimi combattenti e valentissimi fabbri.
Partito dal centro fenicio di Gades (Cadice), Amilcare guida la guerra per nove anni prima di cadere mentre copre la ritirata dei suoi, respinti dall’assedio di Helike (lat. Ilici, Elche) da imponenti forze nemiche; egli ha raggiunto, a nord, la zona di Akra Leuke (lat. Lucentum, Alicante).
Le truppe, abilitate a scegliersi il comandante fino dalla guerra contro i mercenari, eleggono Asdrubale. Grande organizzatore, egli fonda al centro della costa di Levante la sua capitale, cui dà il nome della madrepatria, Qart Hadasht (Cartagena); e si pone come rifondatore dello stato punico. Elabora altresì concezioni politiche nuove: nei suoi piani queste terre devono costituire uno stato vero e proprio, fondato su una cultura originale nata dalla fusione degli apporti punici e iberici. La capitale ospita quindi l’assemblea dei notabili delle tribù di Spagna, di cui si vuole l’appoggio. In rappresentanza del mondo indigeno, il concilio lo saluta con il titolo di re, ed egli – rendendo evidenti le ambizioni monarchiche di cui già lo tacciano in patria gli avversari politici – cinge la corona, prendendo in sposa una principessa iberica: atti che ricordano quelli di Alessandro.
Nel 231 a.C. Roma invia un’ambasceria in Spagna: nasce ora, forse, l’alleanza militare con Sagunto. Durante una seconda missione, nel 226 a.C., la repubblica stipula con Asdrubale il cosiddetto trattato dell’Ebro, che impegna i Cartaginesi a non superare in armi il corso del fiume. I Romani sospettano che i Punici intendano approfittare dell’attacco gallico per riprendersi la Sardegna e la Corsica. Lo prova il fatto che l’armata di Regolo viene inviata (226 a.C.) in Sardegna: mossa illogica, salvo che non si tema uno sbarco punico nell’isola. Raggiunto l’accordo, le legioni vengono richiamate in Italia; e il loro rientro, nella primavera del 225 a.C., segna il terminus ante quem per la stipula del trattato.
Ad Asdrubale succede (221 a.C.), acclamato dall’esercito e riconosciuto dal senato e dal popolo di Cartagine, il giovane Annibale. Ben più deciso del cognato, dopo un anno circa questi pone l’assedio a Sagunto. Quando, malgrado i moniti di Roma, la città viene distrutta (219 a.C.), la guerra diventa inevitabile. Respinto l’ultimatum con cui i Romani chiedono la consegna dei responsabili, si giunge allo scontro.
Circa la controversia giuridica sulle origini del conflitto alcuni dati paiono certi: Sagunto è protetta dalla symmachia con Roma, anteriore al trattato dell’Ebro, e i Cartaginesi lo sanno. Di fronte alla legazione recante l’ultimatum il senatore punico che parla per la città non invoca l’accordo stipulato da Asdrubale, ma lo sconfessa apertamente, dicendolo privo di valore perché senza l’assenso di Cartagine. Ci si deve, dice, riferire al trattato di Catulo, che ha chiuso la guerra di Sicilia. All’atto della sua ratifica si è stabilito di garantire la sicurezza dei rispettivi alleati: ma non vi si parla dell’Iberia, e tra i socii di Roma non possono esservi i Saguntini. I Cartaginesi sono consci – l’accenno lo prova – del fatto che Sagunto rientra invece in questa condizione rispetto all’accordo dell’Ebro, onde il tentativo di considerarlo vincolante per i Barcidi soltanto.
La fazione oligarchica è legata da tempo a esponenti della nobiltà romana con vincoli di ospitalità e amicizia e tratta spesso direttamente con loro, agendo per linee traverse rispetto alle relazioni ufficiali tra gli stati. Vasti settori del senato punico si oppongono alla svolta in atto appoggiandosi agli amici che hanno a Roma, e in effetti seguono un punto di vista cui è sensibile anche parte degli aristocratici romani. Anche a Roma il senato è diviso e, accanto a famiglie ostili a Cartagine, esistono nobili che mantengono rapporti con l’opposta classe dirigente. Questo gruppo punta a restituire il potere ai Punici della fazione conservatrice. Alla sua testa figura la gens dei Fabii, i cui vincoli di ospitalità con l’oligarchia cartaginese sono provati. A guidare l’ultima ambasceria è non a caso un Fabio, Marco Buteone, capo del clan, che deve moderare la durezza dei legati più giovani. È probabile che persino i sospetti di connivenza con Annibale caduti poi su Fabio Massimo nascano in parte dal ricordo dell’atteggiamento filopunico tenuto dalla gens fino all’aprirsi delle ostilità. Non stupisce, infine, che lo storico Fabio Pittore ritenga Annibale il solo responsabile della guerra e che, durante l’ultima ambascieria, i legati romani accettino di considerare gli argomenti avanzati dal senatore cartaginese, offrendo ai Punici la possibilità di evitare lo scontro con la consegna di Annibale. Durante il dibattito svoltosi nella curia tra l’autunno del 219 a.C. e la primavera del 218 a.C. il senato si interroga sui rapporti tra il Barcide e la madrepatria, e decide di cercare una soluzione politica. Per Cartagine la possibilità di consegnare Annibale è remota, e Roma lo sa, ma forse è pronta – e Fabio Buteone deve agire in tal senso – ad accontentarsi di un ripudio formale delle sue azioni. La fazione conservatrice punica, tuttavia, non ha questo potere. I Barcidi controllano anche il senato di Cartagine e, di fronte a un governo e a una maggioranza del popolo schierati con Annibale, la richiesta romana cade nel vuoto. La guerra diventa inevitabile.